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Discorso simile per il New Jersey, uno stato ricco, suburbano,
legato a doppio filo alle sorti di New York City e all’industria farmaceutica.


Il GOP ha provato a candidare figure moderate,
ma il solco demografico e strutturale è semplicemente troppo profondo.

I Democratici qui non hanno conquistato nulla:
hanno difeso, senza particolare affanno, ciò che era già loro.
 
La vittoria del socialista democratico a sindaco di New York è, paradossalmente,
quasi secondaria rispetto alla sconfitta bruciante di chi è arrivato alle sue spalle: Andrew Cuomo.


Con la sua candidatura da indipendente,
l’ex Governatore DEMOCRATICO tentava un disperato ritorno in scena dopo essere stato cacciato dal suo stesso partito
per una serie di scandali (dalla gestione dei dati COVID nelle case di riposo alle accuse di molestie).

Ha fallito.
La caduta di Andrew Cuomo segna la fine di una dinastia che ha regnato, nel bene e nel male,
sulla politica newyorkese per quasi mezzo secolo.

  1. Mario Cuomo (Il Padre): Il filosofo-governatore, l’icona liberal degli anni ’80 e ’90,
  2. l’uomo che affascinava con la sua oratoria complessa.
  3. Rappresentava l’ala intellettuale e idealista del partito.

  4. Andrew Cuomo (Il Figlio): L’esatto opposto.
  5. Un operatore politico brutale, un “bullo” temuto e rispettato.
  6. Un costruttore (in senso quasi keynesiano) di grandi opere, come il ponte Tappan Zee (ora intitolato a suo padre)
  7. e l’ammodernamento degli aeroporti.
  8. Ma anche un maestro nell’uso del potere, delle retrovie e del debito statale.
 
La sconfitta di Cuomo è un patto con il diavolo che si rompe.

È il Partito Democratico che,
dopo aver usato il “metodo Cuomo” per decenni,
ha deciso che l’arroganza e il peso di quel nome erano diventati insostenibili.

Ora si butta silla sinistra più estrema, per gli USA.


È un patricidio politico, consumato dall’ala sinistra del suo stesso partito.
 
E veniamo al vincitore: Mamdani.

Un socialista democratico di 34 anni, musulmano, che promette una piattaforma radicale:
autobus gratuiti, supermercati comunali per calmierare i prezzi, blocco degli affitti e, naturalmente, tasse pesanti sui ricchi.

La stampa progressista celebra la sua vittoria come l’alba di una nuova era socialista, una “shockwave”.

Anche qui, l’analisi tecnica impone cautela:
Mamdani ha vinto, ma la sua vittoria è meno trionfale di quanto la narrativa vorrebbe far credere.


Come ci è stato fatto notare, il margine di vittoria, se confrontato con le previsioni più trionfalistiche, non è stato schiacciante.

Ma c’è un dato tecnico ancora più interessante
e che i media liberal stanno accuratamente ignorando.


Mamdani ha vinto perché il campo moderato-conservatore era frammentato e non aveva nessuna seria politica alternativa.
 
Se sommiamo i voti dell’indipendente Andrew Cuomo (il “vecchio” establishment democratico)
e quelli del repubblicano Curtis Sliwa, ci si accorge che una fetta maggioritaria di New York
non ha votato per la piattaforma socialista.


Mamdani ha vinto non perché la città si sia improvvisamente convertita a Marx,
ma perché i suoi avversari erano divisi e, nel caso di Cuomo, politicamente “tossici”.


Il programma di Mamdani, inoltre, è tecnicamente preoccupante.

Non si tratta di una politica economica espansiva, come, malamente, facevano i Cuomo
(spesa pubblica per investimenti produttivi, per creare ponti, che poi magari venivano costruiti da amici).

È pura spesa pubblica corrente
e sovvenzionamento di una parte dell’elettorato,
in una città che sta già affrontando
un’emorragia di contribuenti ad alto reddito
(la linfa vitale del bilancio comunale) verso la Florida e il Texas.

Mamdani ha avuto i voti di chi spera di ricevere contributi pubblici,
ma chi li pagherà?

Sempre meno i ricchi, che se ne vanno al sole e al caldo.
 
Non è stata una rivoluzione.

Non è stata una rivincita.

È stata, con la notevole eccezione del dramma dinastico a New York,
una semplice, e un po’ noiosa, conferma dello status quo.
 

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