La manovra Monti applica un’imposta dell’1,5% sulle attività finanziarie e patrimoniali che sono state oggetto di rimpatrio o regolarizzazioni in occasione dello “scudo fiscale” del 2009, la cui memoria è ancora viva nella mente degli italiani, e di un assai precedente condono fiscale di attività estere contenuto nel decreto legge n. 350/2001, approvato in vista dell’introduzione dell’euro. L’imposta straordinaria sarà pagata anche per le attività che, già richiamate in patria, sono state dismesse o prelevate, pur parzialmente, dal rapporto di deposito, amministrazione o gestione acceso per effetto della procedura di emersione (ovvero sono state affidate a un intermediario diverso da quello che ha proceduto al pagamento della prima imposta straordinaria).
Questa operazione potrebbe essere pericolosa, sia nella prospettiva della finanza pubblica che in quella dello Stato di diritto.
Quanto al primo profilo, aggiungere una nuova imposta straordinaria su beni che sono stati oggetto di rimpatrio o regolarizzazione sul presupposto che i titolari avessero potuto sanare, una volta per tutte e con la prima imposta, il rapporto tributario con lo Stato equivale a lanciare un monito, alla prossima occasione di condono, a non fidarsi della parola data. Se dovrà mai esserci l’esigenza di un nuovo scudo fiscale, chi potrà beneficiarne, dopo lo scotto di questa seconda imposta inattesa, ci penserà due volte prima di usufruirne. Per le finanze pubbliche, ciò vuol dire che sarà difficile poter fare affidamento sulla tattica dello scudo per rimpinguare, in futuro, le casse dello Stato.
Quanto al secondo profilo, la medesima smentita dello Stato circa il fatto che le attività in esame sarebbero rimaste al riparo da ulteriori controlli e pretese è una preoccupante violazione di almeno tre principi tipici di uno Stato di diritto.
Il principio del legittimo affidamento, in primo luogo, che dovrebbe tutelare l’interesse dei cittadini a che una situazione giuridica generata da un comportamento della pubblica amministrazione non venga messa in discussione dall’amministrazione stessa, e che dovrebbe dunque consentire loro di confidare nelle conseguenze attese dal comportamento tenuto o promesso.
In secondo luogo, il principio, simile, della certezza del diritto, per cui data una certa regola le conseguenze che ne deriveranno non saranno messe facilmente in discussione da una regola successiva. Difatti, i contribuenti “ravveduti” confidavano che in cambio di un’imposta straordinaria sarebbero stati esentati da successive verifiche fiscali, e si era garantito altresì l’anonimato, sfruttando gli intermediari abilitati come sostituti di imposta. Stesso ruolo di intermediazione tali soggetti lo avranno anche in questo caso, ma essi dovranno segnalare all’agenzia delle entrate – con buona pace dunque della riservatezza promessa – i contribuenti nei confronti dei quali non è stata applicata e versata l’imposta a causa dell’intervenuta cessazione del rapporto di deposito, amministrazione o gestione delle attività rimpatriate o regolarizzate o, comunque, per non aver ricevuto la provvista.
Una maggiore attenzione al principio di legittimo affidamento, di certezza del diritto e insieme di tutela della riservatezza promessa avrebbe dovuto, nel caso in esame, portare a ritenere che se lo Stato, in precedenti occasioni legislative, ha garantito di restare soddisfatto per il futuro dalle imposte straordinarie applicate ai capitali rientrati o regolarizzati, nulla potrebbe più pretendere dal medesimo presupposto di imposta.
Un terzo principio in odore di violazione è quello dell’irretroattività delle norme, principio valido in generale e, per di più, espressamente nel diritto tributario. Si obietterà che, come più volte la giurisprudenza ha avuto modo di dire, l’irretroattività non è un principio assoluto, ma può piegarsi alle esigenze del legislatore tributario, come spesso in effetti avviene. Tuttavia, la medesima giurisprudenza che ha avallato l’uso di norme retroattive in campo tributario ha anche sottolineato che ciò che resta intangibile è la capacità contributiva: non possono dunque darsi norme che impongono nuovi tributi con effetti retroattivi se il presupposto dell’imposta risale così indietro nel tempo da non esservi più la garanzia che la capacità contributiva del soggetto passivo di imposta sia invariata.
Orbene, l’applicazione dell’imposta straordinaria su attività che sono state oggetto dello scudo fiscale del 2001 risale negli effetti a ben dieci anni fa, senza tenere in conto che, nel frattempo, la situazione economica del soggetto titolare dell’attività può essere cambiata, i beni possono essere stati trasferiti, ereditati, giocati, persi, sottoposti a fallimento, etc.
Pare che in Parlamento ci siano voci di insoddisfazione per questa norma, non, tuttavia, per i profili qui segnalati, quanto piuttosto perché l’imposta si stima troppo bassa. A nostro avviso, se il Parlamento decidesse di mettere in discussione l’articolo qui analizzato, i motivi dovrebbero essere al contrario quelli più intimi e propri dello Stato di diritto, e non il quantum di introito che lo Stato potrà guadagnarci sopra.