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Riporto in auge, a futura memoria, the 3d che aprii nel 2012.

Qualcosa di buono c'è ancora.
 
Ultima modifica:
«Una grande vittoria del governo, le arance siciliane raggiungeranno la Cina anche in aereo.
Una bella notizia che fa parte di quelle piccole grandi rivoluzioni di cui l’Italia ha bisogno. Una promessa che diventa realtà».



Così a inizio 2019 parlava Luigi Di Maio, all’epoca vicepremier del governo Conte 1,
festeggiando un traguardo molto pubblicizzato in casa Cinque Stelle dopo la firma del discusso memorandum per la Via della Seta.


Dichiarazioni entusiastiche, eventi di benvenuto all’ambasciata di Pechino,
foto di rito con l’ex capo politico M5s che sbucciava un agrume sulla scrivania del ministero.


«Oggi è una giornata importante per il nostro Made in Italy – si leggeva in un comunicato dell’ufficio comunicazione grillino –
Grazie al grande lavoro del ministro Di Maio, stiamo aprendo una nuova via della seta tra Roma e Pechino
e proprio da qui passeranno i nostri prodotti che porteranno l’eccellenza italiana nel mercato più grande del mondo».



La «diplomazia dell’arancia», come l’aveva ribattezzata Il Foglio, aveva scatenato ironie e polemiche, oltre a elogi e speranze.

«È una spremuta di patria, ci siamo venduti per le arance e ne vanno anche fieri», chiosava Carlo Calenda.

Ma oggi a quasi due anni da quegli annunci roboanti, quante cassette sono sbarcate in Cina?

Nel 2019 l’Italia risulta aver esportato arance per 162.460 euro.


Un po’ poco, se si pensa che nello stesso lasso di tempo la vicina Spagna ha spedito agrumi per 32 milioni di euro,
senza aver firmato il memorandum con la Cina, oggetto di critiche e tensioni a livello internazionale.


Se non è un flop, poco ci manca.

A mettere nero su bianco questi numeri è l’Osservatorio di politica internazionale,
organo promosso dal Parlamento Italiano in collaborazione con la Farnesina, che a ottobre ha pubblicato il rapporto

“La Cina: sviluppi interni, proiezione esterna”, realizzato dal Torino World Affairs Institute.

A pagina 62 del report si legge:

«Se la logica italiana alla base della firma dell’accordo sulla Via della Seta era l’auspicio di un aumento dei rapporti commerciali ed economici,

si può dire che a 18 mesi di distanza il calcolo si è rivelato quantomeno ottimistico, se non del tutto fallace.

Come si è visto, le esportazioni italiane verso la Cina non sono aumentate in modo significativo,

né vi sono stati particolari investimenti cinesi in Italia a seguito dell’accordo».



Era il 23 marzo 2019, il premier Giuseppe Conte e il presidente della Repubblica Popolare cinese Xi Jinping
firmavano un memorandum d’intesa tra i due Paesi nell’ambito del progetto infrastrutturale cinese noto come Belt and Road Initiative (Bri).

A margine del patto con Pechino, Conte seminava ottimismo:

«È una grande opportunità per riequilibrare la bilancia commerciale con la Cina».

E il suo vice Luigi Di Maio aggiungeva:

«La Via della Seta aumenterà l’export delle nostre eccellenze nel mercato euroasiatico, cresceranno i nostri imprenditori».


L’Italia era stato il primo Paese del G7 e il primo tra i fondatori dell’Unione Europea ad aderire.

Una sottoscrizione che non prevedeva impegni giuridicamente vincolanti, ma che ha fatto molto rumore.

Da Bruxelles a Washington.

Accolta con preoccupazione e fastidio dai nostri alleati, le critiche internazionali per la decisione dell’esecutivo si sono sprecate.


«Quella firma rappresentava per la Cina un importantissimo investimento di capitale politico con un partner occidentale come il nostro»,
ricorda oggi a Linkiesta una fonte diplomatica.

Il governo italiano, con i Cinque Stelle in prima fila, aveva rivendicato la bontà dell’accordo anche per l’apertura di nuove rotte commerciali con Pechino.


Le arance siciliane entravano a pieno titolo nel dibattito, diventando il prodotto simbolo del nuovo corso.

Portate in trionfo dal Movimento, che esultava per l’apertura del mercato cinese.


Lo sblocco delle esportazioni, con annessi viaggi aerei delle cassette sicule
e accordo per la distribuzione cinese con il colosso Alibaba, aveva sollevato diversi dubbi tra gli addetti ai lavori.


La Cina infatti è il primo produttore mondiale di agrumi: nel 2016 ha raccolto 32,7 milioni di tonnellate, oltre il 25% della produzione globale.

In molti erano perplessi sull’opportunità di «vendere ghiaccioli agli eschimesi».


Oggi, con il report dell’Osservatorio di politica internazionale, scopriamo che nel 2019 le esportazioni italiane di arance ammontano a poco più di 160 mila euro.

Una cifra non proprio esaltante, a fronte dell’iniziale spremuta di elogi.

I ricercatori annotano un altro dato, ormai evidente:

«La partecipazione alla via della Seta non è condizione né necessaria né sufficiente per aumentare le relazioni economiche con la Cina».


Ricorda il rapporto che nel 2019 altri paesi europei come Francia e Germania

«sono riusciti a firmare accordi commerciali di entità ben superiori rispetto a quelli firmati dalle imprese italiane,

senza dover per questo assecondare la visione cinese relativa alla Belt and Road Initiative».



Un esempio lo fornisce Alberto Forchielli, imprenditore e finanziere che conosce bene la Cina.

Al telefono spiega:

«Il presidente francese Macron ha venduto a Pechino gli Airbus e le centrali nucleari.

La storia delle arance italiane è una supercazzola, una brutta invenzione,

bisognava trovare qualcosa per giustificare quella firma.

E poi è tutto finito in una bolla di sapone, ma non mi sorprende».



Secondo Forchielli,

«l’Italia avrebbe potuto aspettarsi qualche investimento sui porti, non sugli agrumi.

Con la Via della Seta abbiamo concesso a Pechino un grande vantaggio,

il privilegio che il primo Paese del G7 firmasse il memorandum e non abbiamo portato a casa nulla.

La verità è che a differenza di Francia e Germania, noi abbiamo poche cose che i cinesi desiderino».



E forse la spremuta italiana non era tra quelle.
 
In ogni comunista vive un “azzeccagarbugli”, un leguleio attento a commi e codicilli, virgole e minuzie,
molto abile e astuto nello scovare, all’interno del groviglio kafkiano della normazione vigente, eccezioni di favore ai principi di diritto.

Ciò si deve al fatto che i principi basilari della civiltà giuridica hanno due grandi nemici: l’idealismo e la politica redistributiva;

entrambi fanno parte integrante del patrimonio culturale del comunista.


Il primo nemico apparecchia la causa giustificatrice delle eccezioni, in guisa di mezzo necessario in vista dell’idea-fine;

il secondo nemico frantuma l’ordinamento giuridico e disperde la regola basilare in mille rivoli di eccezioni ed eccezioni all’eccezione.


Si è portati a pensare che il nobile ideale sia sintomatico della nobiltà d’animo di chi lo persegue
e parimenti che il fine sociale sia nobile di per sé, in raffronto al meschino fine individuale.

L’assunto non è del tutto errato, tuttavia è semplicistico.

Di buone intenzioni sono lastricate le vie dell’inferno;
l’adagio ci lascia intendere che la proclamata “socialità” non è necessariamente foriera di buoni risultati
e si può certamente dubitare del disinteressato altruismo di tanti paladini del “bene comune”.

Ma a prescindere da ciò, preme sottolineare che la relazione tra i principi di diritto e la grandezza dell’idea-fine
è esattamente opposta a quella comunemente congetturata in maniera semplicistica:

quanto più grande è il fine, tanto più sono giustificati i mezzi per raggiungerlo,
“costi quel che costi”, anche a costo di sacrificare i principi di diritto.



Ovviamente, della grandezza dell’ideale comunista “puro” non c’è proprio da dubitare,
dal momento che si identifica con la redenzione dell’intera umanità;
ma non meno grandi sono i moderni ideali neocollettivisti, ecosostenibili, globalisti e politicamente corretti.

Chi è pienamente convinto della causa antropica del global warming non esiterebbe un attimo a istruire un processo sommario,
in barba al diritto interno e alle convenzioni internazionali, nei confronti di quel capo di Stato che rifiutasse di sottoscrivere il protocollo “salvifico”
(supposto idoneo a impedire che la temperatura del pianeta terra aumenti di un grado).

Cosa varrebbe la libertà di un solo uomo di fronte alla salvezza del pianeta?


Il comunista, pronto a sacrificare le regole basilari della convivenza al fine superiore,
è altresì incline a seppellire la regola generale in una voragine di eccezioni.

Tutti i socialismi/collettivismi hanno in comune l’idea che l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge sia poca cosa,
trascurabile in quanto pura forma, da sacrificare in nome di un’uguaglianza più pregnante e significativa,
la cui “sostanza” risiederebbe nella redistribuzione della ricchezza.

La strada per raggiungere codesta uguaglianza sostanziale è quella di rinnegare la norma generale,
uguale per tutti, giacché non si possono fare “parti uguali fra diseguali”.


È necessario dunque adottare regole diverse per condizioni diverse;

avvantaggiare gli uni a discapito degli altri;

togliere agli uni per dare agli altri;

favorire e sfavorire;

incentivare e disincentivare;

ingerirsi nelle libere contrattazioni dei privati, a “tutela” del contraente “più debole” s’intende;

programmare lo sviluppo;

intervenire nei processi di produzione, promuovendone alcuni e discriminandone altri.



Da siffatta tutela selettiva e discriminatoria degli interessi in gioco deriva una legislazione mirata, selettiva e frammentaria,
che fa venir meno l’unica uguaglianza realizzabile su questa terra e cioè quella dei diritti e degli obblighi,
mentre non si perviene in ogni caso all’uguaglianza utopistica di risultato, ispiratrice della legislazione di favore e disfavore.

In verità, la diseguaglianza di diritti e di doveri, discriminando categorie e gruppi, sottocategorie e sottogruppi,
mentre genera una normazione caotica e contorta, aggiunge disparità a disparità e non realizza di certo alcuna giustizia.


L’utopistica uguaglianza sostanziale, portata alle estreme conseguenze, postula provvedimenti ad personam e comandi individualizzati,
specificamente adatti ai casi singoli in cui si annidano le “disparità” iniziali da dover rimuovere.

Infatti, la conoscenza dei mille particolari dei mille casi concreti di una vasta comunità umana non può fare capo a un solo soggetto,
sicché l’autorità politica centrale, nel rigoroso perseguimento della sua finalità redistributiva,
sarebbe costretta a delegare ai funzionari periferici la competenza a prendere provvedimenti ad personam.

Insomma, il rigoroso perseguimento dell’uguaglianza sostanziale sostituisce il concreto all’astratto, il particolare al generale,
fino a discernere e isolare la situazione personale, e pertanto sostituisce la regola con il provvedimento amministrativo individualizzato,
il diritto con l’arbitrio (del funzionario di turno).


Tale limite estremo non è meramente congetturale; di fatto è stato raggiunto, laddove il più radicale dei socialismi, quello “reale”,
ovvero comunismo allo stato “puro”, ha avuto la ventura di insediarsi per compiacere la storia.


Il limite estremo della “purezza” bolscevica ci aiuta a capire i guasti inevitabili di tutte le politiche redistributive, che seducono l’anthropos comunista.

L’interventismo dello Stato, in funzione redistributiva, genera inevitabilmente una legislazione sovrabbondante e complessa,
nella quale riesce difficile discernere la regola da seguire, giacché non vige la norma valida erga omnes,
bensì quella eccezionale, valida per la categoria di specie, o magari l’eccezione all’eccezione, valida per la sottocategoria,
o magari l’eccezione all’eccezione dell’eccezione, valida per la sottospecie della sottocategoria.

Ma infine è questo ciò che seduce il comunista.


Il Castello di Franz Kafka, non a caso pensato e scritto nel pieno vigore del comunismo sovietico in Cecoslovacchia, è il suo vero habitat.

Qui il comunista può esercitare tutta la sua raffinata perizia di leguleio, può piegare il principio di diritto al suo tornaconto personale,
per la semplice ragione che il principio vale nulla o comunque ben poco.

Può impunemente essere “doppiopesista” e perfino “triplopesista”, giacché la legge per i nemici si applica, per gli amici si interpreta.


Nel groviglio normativo delle tante regole ed eccezioni, ed eccezioni alle eccezioni,
è bravissimo ad aggrapparsi al codicillo giusto, valido per sé e i suoi compagni di viaggio;
per la cronaca, quel lungo viaggio che li porta verso il nulla.


E s’intende che l’Italia primeggia nel mondo occidentale nella costruzione de Il Castello di Kafka; e anche questo non è un caso.


Dimentichiamo forse che questa è la patria del più grande Partito comunista del mondo occidentale, mai defunto e rigeneratosi sotto altre spoglie?

L’egemonia culturale comunista, alla quale i liberali hanno saputo opporre ben poco, ha prodotto in Italia un mostro di circa 200mila leggi e leggine.



La più tipica formula verbale di cotali atti, che usurpano la qualifica “legislativa”, è pressappoco la seguente:


“La parola perché di cui alla lettera…del comma…dell’art…del dl n…del…, convertito con modifiche dalla legge n…del…, è sostituita dalla parola poiché”.


L’ignaro cittadino, che abbia avuto la pazienza di andare alla ricerca degli atti legislativi richiamati,

magari scopre che, di rinvio in rinvio, si arriva fino a qualche Regio decreto e alla fine capisce ben poco.


Ma non è il caso di allarmarsi; ci sarà pure un vicino di casa comunista,

benevolmente disposto a spiegargli perché il perché è stato sostituito dal poiché.
 
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Alla fine i democratici, pur con 100 lamentele , non ci sono riusciti, e Amy Coney Barrett
è stata confermata dal Senato degli Stati Uniti come 115 imo”Justice”, giudice della Corte Suprema USA.

Con la sua nomina la Corte Suprema ha una maggioranza piuttosto netta,

di 6 a 3, a favore di un visione conservatrice della società e dell’applicazione della giustizia.


Una vittoria di Trump e, soprattutto, un’indicazione di solidità del partito repubblicano, maggioritario, ma di poco, al Senato.

Sarebbe stato facile “Convertire” un paio di senatori e bloccare la sua nomina,

tanto più che inizialmente un paio di repubblicani si era detta sensibile alle parole dei dem.

Ora sul lato sinistro non è rimasta che una rabbia schiumante che trapela dalle parole del Democratico Schumer:


“Potete vincere questo voto e Amy Coney Barrett potrebbe diventare un giudice della Corte Suprema. Ma non riavrai mai, mai indietro la tua credibilità “,


Invece quando le nomine erano fatte dai democratici c’era credibilità e la risposta dei repubblicani è stata chiara e secca:

se il popolo ci ha dato la fiducia al Senato noi la usiamo per fare le nomine.


Fatta questa premessa ora l’ala più estrema dei Democratici vuole modificare la Corte Suprema

aumentando il numero dei giudici e quindi sconvolgendo le nomine fatte dai repubblicani.


Vediamo la posizione della Alexandra Ocasio Cortez subito seguita da un’altra estremista Ilhan Omar.


Expand the court. https://t.co/hYC5OCeKQq
— Ilhan Omar (@IlhanMN) October 27, 2020




Il problema è che con questa reazione si mette in ballo un potere definito dalla Costituzione USA:

infatti è questa a definire i poteri del Senato nella conferma dei giudici della Corte Suprema,

e prendersela con questa decisione come se fosse illegittima ed illegale significa prendersela, direttamente,

con la Costituzione Americana e quindi contestare la legittimità del potere. Un rischio enorme per gli USA.
 
Forse, alla fine, si muove qualcosa anche in Francia.

Un sondaggio IFOP ha messo in luce, fra i vari risultati,
che il 79% dei francesi ritiene che l’islamismo abbia dichiarato guerra alla Repubblica.

Il sondaggio è stato fatto a seguito del crudele assassinio dell’insegnante Samuel Paty
per aver esposto una vignetta che prendeva in giro il profeta Maometto, atto considerato blasfemo dai musulmani.

Lo stesso sondaggio inoltre ci dice che 87% dei francesi ritiene che sia in pericolo la laicità dello stato.


Quindi i francesi iniziano a sentire la minaccia islamica come effettiva, immediata e tangibile verso la Repubblica.


Quindi Erdogan, offendendo personalmente Macron su questo tema, si è posto contro il sentire della maggioranza del popolo d’Oltralpe.


Però, nello stesso tempo, non viene avvertita se il governo beneficia di un tasso di fiducia del 40% per combattere il terrorismo,
nel dettaglio, il duo presidente e primo ministro ha una fiducia pari solo al d 37% nella lotta contro l’islamismo,
proprio come il ministro dell’Interno Gerald Darmanin.

Marine Le Pen, la leader del Rassemblement National, ha una fiducia superiore dal punto di vista della capacità di lotta all’islamismo,
ma resta comunque sotto la maggioranza con solo il 44%.


Questo sondaggio dovrebbe essere messo in correlazione con altri.

Per quanto riguarda l’immigrazione il 64% ritiene che sia una minaccia
ed il 60% che non sia più possibile l’integrazione nella società.

Un altro sondaggi di Ifop, legato invece alla libertà di espressione e di satira anche su elementi di carattere religioso,
il 78% dei francesi ritiene giustificato che i professori mostrino le immagini caricaturali legate alle religioni,
mentre nel 2015 il 59% dei francesi riteneva corretto fare caricature di personaggi religiosi, contro solo il 36% nel 2006.


Quindi c’è un’evoluzione nella società francese verso la tolleranza,
ma il problema avvertito è legato all’immigrazione dove il fondamentalismo viene avvertito come vivo e minaccioso.
 
Libertà individuale ed emergenza sanitaria: due facce della stessa medaglia che sono in contrasto.

Una è più importante dell’altra?

Un dilemma di difficile soluzione, che sta suscitando riflessioni giuridiche e sociologiche da diversi mesi.


Lockdown, coprifuoco, stato di emergenza, restrizioni alla circolazione

e agli spostamenti personali in nome della tutela della salute sono davvero legittimi?



Ultimamente sono sorte proteste anche contro una ipotetica dittatura sanitaria, segno che esiste un malessere tra i cittadini.

Ne ha parlato l’avvocato Marco Mori.

In una delle consuete interviste rilasciate nel nostro canale video, l’esponente politico di Vox Italia
ha lasciato personali commenti sulla situazione italiana della libertà individuale:

è allarme per Mori, ecco perché.



Nuovo lockdown: ecco come sarà (qualora dovesse rivelarsi necessario)




Non ha dubbi Marco Mori:

“la libertà personale è inviolabile, anche se c’è la peste bubbonica fuori.”

In sintesi, non c’è emergenza sanitaria che tenga per giustificare misure restrittive imposte dal Governo al cittadino nella sua vita normale.

Dal lockdown al coprifuoco fino alle disposizioni che vietano assembramenti, spostamenti, comportamenti e relazioni private:

tutti questi provvedimenti viaggiano nell’illegalità per l’avvocato.



E, soprattutto, sono un precedente molto pericoloso per la società:
“Distruggiamo le libertà fondamentali, e questo è illegale da un punto di vista giuridico...
è una cosa pericolosa perché si crea un precedente che fa venire i brividi...vedere questa deriva liberticida mi spaventa”.
Il punto sottolineato da Mori è che l’integrità della libertà personale doveva essere difesa da tutti, in modo pacifico e senza tentennamenti.

Invece, secondo l’avvocato, si è proceduto in modo diverso e a nulla sono valsi nemmeno interventi giuridici mirati,
come la pronuncia di un giudice di pace di Frosinone contro una sanzione per violazione delle misure restrittive (considerate incostituzionali).


L’avvocato azzarda, quindi, un paragone storico:

il passato non solo italiano, ma dell’intera umanità insegna che chi ha imposto forme dittatoriali,

anche se inizialmente rivendicate per fare qualcosa a favore del popolo, non ha mollato il potere spontaneamente.



Il pericolo c’è anche in Italia, adesso?


Mori ha lanciato l’allarme sulle restrizioni alle libertà.
 
Il virus è tornato.

Tra le tante verità o pseudo tali che ci hanno raccontato la scorsa primavera
quella più vera è stata la previsione che in autunno avremmo avuto la seconda ondata.

Il Covid 19 tiene banco su tutti i canali a tutte le ore del giorno e della notte dove una schiera di personaggi
più o meno sconosciuti fino ad ieri vengono assurti a saggi, esegeti e profeti.

E noi li incollati a guardare, ascoltare; un po' increduli, un po' spaventati, anzi un po' terrorizzati.

È passato del tempo, parecchi mesi da quel tragico periodo di febbraio/marzo ma cosa è successo,
cosa è stato fatto per fare si che potessimo affrontare preparati in modo efficace la pluriannunciata recrudescenza dell'epidemia?

Poco o niente.

Sarebbe troppo facile ironizzare sull'acquisto dei banchi con rotelle o sugli incentivi per bici e monopattini.

Si è arrivati al momento di riaprire finalmente la scuola e non si è provveduto ad organizzare adeguatamente il trasporto;
tempo un mese e siamo tornati alla didattica a distanza.

Si discute, si discute e ancora si discute.....e non si fa altro.


E intanto il paese affonda.

E la gente impazzisce.

O forse è proprio questo che si vuole.


Avremmo avuto il tempo per riorganizzare meglio e potenziare la medicina sul territorio ed invece niente;

si è riusciti ad "incasinarla" ancora di più e a renderla ancora meno efficace

e non in grado di rispondere in tempi rapidi alla pressione sempre più forte che ogni giorno il sistema sanitario ed i suoi operatori stanno subendo.

E intanto gli ospedali riprendono ad essere sotto pressione.



Si fanno tanti tamponi è vero.

Ma il sistema non ce la fa, non regge.

Anche un paziente con sintomi può essere costretto ad aspettare diversi giorni prima che gli venga fatto il tampone
ed altrettanti diversi giorni prima di conoscerne il risultato. E le modalità di esecuzione spesso confuse.

Accade che una persona che si sveglia con febbre e che non riesce a sapere se è Covid o no
si metta comunque in isolamento e con essa si isolino anche i familiari perché il bambino non può andare a scuola :
potrebbe contagiare gli altri scolari; il partner non può andare al lavoro: potrebbe contagiare i colleghi.

Sono già tre persone che si sono chiuse; anche questa è una crescita esponenziale.

Questo è già un lockdown.

Si fa in modo che la gente si "autochiuda".

Il risultato è lo stesso ma politicamente non ci si mette la faccia.


Dobbiamo pensare che proprio non ci arrivano oppure che è tutto calcolato?



Dio ce ne scampi e liberi.
 
Troppo facile dire che la colpa è dei fascisti, sempre pronti a mestare nel torbido,
trasformando in rabbia un malessere troppo a lungo inascoltato e aprendo la porta all’aspettativa generalizzata di un intervento forte, risolutore.


Se solo volgessimo indietro lo sguardo, ci accorgeremmo che questi sciagurati teppisti

non fanno altro che interpretare al meglio la parte per la quale sono stati scritturati:

creare disordine e diffondere paura in una popolazione disorientata dalla epidemia e attanagliata dall’incertezza sul futuro.



È già successo, a Weimar e anche qui, a casa nostra, quando qualcuno, sfruttando il disagio
e alimentando il disprezzo verso le libertà, ha proposto la più semplice tra le terapie sociali: l’ordine restaurato.


E noi, come già è accaduto, ci stiamo cascando.

Anzi: ci siamo già cascati.


Guardate con attenzione quello che sta accadendo;

chiedetevi come sono percepite le misure adottate dal Governo;

pensate alla paura di chi teme di perdere il lavoro e i mezzi di sostentamento.

Poi, aggiungete un nemico.


La pandemia in atto serve soltanto a raccogliere i frutti di un paziente lavoro di smantellamento delle democrazie occidentali,

indebolite dalla scientifica collocazione al timone delle istituzioni di soggetti del tutto inadeguati, s

celti sulla scorta di discutibili valutazioni etiche e non per le loro qualità.



Possiamo ancora evitare che le cose si ripetano, ma dobbiamo avere coraggio.


Soprattutto, dobbiamo liberarci – democraticamente – di una classe dirigente inetta e pericolosa,
incapace di capire la realtà e di tradurre le parole in fatti concreti, a vantaggio dell’intero corpo sociale.


Quelli di ieri erano dei segnali.

Non interpretarli correttamente potrebbe costarci molto caro.
 
A inizio emergenza coronavirus, la Società Italiana di Cardiologia (Sic) lanciò un allarme evidentemente inascoltato:

“Nei pazienti con infarto è stata notata una sorprendente riduzione dei ricoveri superiore al 50%”

nella settimana fra il 12 e il 19 marzo scorso.


Oggi la situazione non è affatto cambiata, come fatto notare da Francesco Romeo,
direttore dell’Unità operativa complessa di Cardiologia del Policlinico Tor Vergata di Roma.

Stanno crollando i ricoveri di elezione per malattie cardiovascolari.
Significa che stiamo perdendo il 50% di quei pazienti che ci segnalano una sintomatologia non acuta
,
non da infarto in atto, ma che avremmo potuto ospedalizzare intercettando una sindrome coronarica a rischio di morte improvvisa”, ha dichiarato Romeo all’Adnkronos.


Il cardiologo fa notare che in questo momento è dimezzata

“la capacità ricettiva di un reparto ad altissimo volume come il mio, che in genere era tutto pieno”.


Ma il grido di allarme, come detto, era già stato lanciato.

Nulla però è stato fatto in concreto per evitare che si ripetesse quanto accaduto in primavera, riorganizzando ad hoc la ripresa dell’attività ospedaliera.

Abbiamo perso 4 mesi“, ha detto Romeo.

Ora si va di nuovo di corsa ad aprire le sale operatorie che diventano terapie intensive
e non si fanno più gli interventi. Dal mio punto di vista, è un disastro”
.


Lo specialista in cardiologia fu tra l’altro il primo a denunciare a inizio emergenza il
“calo degli accessi di pazienti con infarto nei nostri pronto soccorso, pari al 30-40% tra febbraio e marzo”.

E “oggi, se uno si deve ricoverare in elezione, deve fare un tampone il giorno precedente,
non di quelli antigenici rapidi ma il classico tampone molecolare, e la gente fuori ha difficoltà ad accedere al tampone.
E poi bisogna organizzare il ricovero con tutto ciò che comporta”.


C’è dunque un problema serio e

la soluzione che si prospetta a questi pazienti è il pronto soccorso.
Purtroppo, però, in questo momento per il malato vuol dire recarsi in un luogo dove accanto a lui
c’è un paziente che poi risulta Covid positivo. Non è una teoria, lo vediamo nella pratica”, assicura Romeo.


“Io ho un’infinità di pazienti che arrivano, si fanno il tampone al pronto soccorso dove probabilmente contraggono l’infezione” da coronavirus,
per cui entrano con un tampone negativo e prima di uscire diventano positivi.
Entrano negativi e diventano positivi nel percorso dal pronto soccorso ai reparti, che così si svuotano”.


Ci sono poi molte persone che hanno “paura di andare al pronto soccorso.
E davanti a una sintomatologia che non sia eclatante, che non dia un’immediata compromissione delle funzioni vitali,
se ne sta a casa e magari è un infartuato che perdiamo”.


Cosa fare quindi?

Secondo il cardiologo “vanno differenziati i percorsi” tra pazienti Covid e non Covid, e “vanno fatti i tamponi rapidi”,
proprio per segnalare quello che osserviamo nella realtà e per portarlo insieme all’attenzione delle istituzioni”.
 

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