La corsa per la presidenza degli Stati Uniti è stata vinta da Joe Biden.
Forse.
Già, perché a una settimana dalla chiusura delle urne non si ha l’assoluta certezza del risultato.
Il
candidato dei democratici parla da presidente.
Donald Trump, il potenziale sconfitto, promette
battaglia legale perché, stando alle sue fonti sul campo, la vittoria di Biden sarebbe frutto di una
truffa elettorale.
Sul banco degli imputati è stata messa la modalità del voto postale che configura scenari opachi, se non inquietanti.
C’è un paradosso che mina la solidità del sistema democratico americano:
nelle urne avrebbe prevalso Trump
ma il voto postale ha ribaltato il risultato.
Chiunque si trovasse al posto del presidente in carica avrebbe di che negare la vittoria all’avversario.
Spetterà alle corti di giustizia, fino alla massima istanza della Corte Suprema, dipanare la matassa.
La questione potrebbe non avere peso sostanziale se non fosse per un aspetto di fondo balzato in drammatica evidenza:
la crisi del sistema democratico fondato sulla
sovranità popolare.
Proprio per la loro centralità nella vita di una struttura complessa qual è uno Stato nazionale,
le procedure elettorali sarebbero state estremamente rigorose nel
certificare l’effettiva volontà degli elettori.
Per estensione, finora si è ritenuto che il medesimo principio valesse in tutte le altre democrazie, in particolare in quella del Paese guida dell’Occidente.
Oggi scopriamo che non è così.
Quanto meno, che non lo è più.
Il sistema elettorale negli Stati Uniti può essere manipolato per rispondere a istanze eterodosse
rispetto al primario dovere di garantire trasparenza e legalità all’espressione della volontà popolare.
La sola possibilità che il risultato finale possa essere inquinato dal conteggio di schede elettorali pervenute ai seggi dopo la chiusura degli stessi;
che il voto per posta non assicuri la necessaria tutela della libertà e della segretezza della pronuncia dell’elettore;
che non si abbia alcuna certezza sull’identità delle persone che hanno spedito le buste contenenti le schede;
che in alcune realtà, come lo Stato-chiave della Pennsylvania, si siano accettate schede prive del timbro postale,
getta un’ombra sinistra sull’esito finale.
Nel sistema elettorale statunitense la modalità del voto postale è stata pensata per consentire ai suoi tanti cittadini impegnati all’estero per scopi diplomatici,
militari o commerciali di esercitare il diritto di voto.
Tuttavia, in questa tornata si è davvero esagerato se si considera la mole impressionante di buste arrivate via posta.
La giustificazione è che il
Covid avrebbe tenuto la gente lontana dai seggi.
Ma il pretesto non regge alla verifica del buon senso, soprattutto se si considera che la distorsione del principio derogatorio
è stata tale da consegnare alla storia il candidato democratico Joe Biden come il più votato di tutti i tempi, nonostante la sua personalità poco carismatica.
Poi, ci sono i paradossi che lasciano sgomenti come nel caso del
Wisconsin, analizzato da
Federico Punzi su “
Atlantico”.
Scrive Punzi:
”
C’è un’altra anomalia riscontrata nel voto in Wisconsin.
Su 3.684.726 registrati al 1 novembre, i voti contati sono stati 3.288.771,
un’affluenza strabiliante dell’89 per cento, anormale sia rispetto agli stati vicini sia rispetto allo storico del Wisconsin,
anche considerando la specificità di questa elezione.
A Milwaukee, in 7 seggi, l’affluenza sui registrati (sempre al 1 novembre) ha superato il 100 per cento, e in 2 seggi il 200 per cento.
In Italia un’anomalia del genere avrebbe fatto gridare al golpe.
Alla fine, Biden la spunterà per ragioni di opportunità politica che esulano dalla logica del conteggio aritmetico delle preferenze
ma la sua presidenza sarà da subito una “anatra zoppa”, non soltanto perché, dopo gli esiti del ballottaggio in gennaio in Georgia
per la designazione di due senatori, potrebbe avere contro il Senato, altra stranezza, a maggioranza repubblicana
ed una Corte Suprema con un orientamento fortemente conservatore, ma perché sul suo mandato aleggerà lo spettro dell’usurpazione.
E il sospetto sarà nutrito e crescerà in quella metà della popolazione che ha votato per Trump,
che esprime una
vena sovranista radicata nella
società americana e che non si rassegnerà a vedersi defraudata della vittoria.
Di fronte a un
pasticcio di tali proporzioni chiediamoci: a chi gioverà un esito così dubbio?
Evidentemente a tutti quei potentati economici e sociali che si sono prefissi un unico obiettivo: cacciare Trump dalla Casa Bianca,
nella fallace illusione che ciò sarebbe bastato per estirpare il trumpismo dal cuore pulsante dell’America profonda.
Basta leggere i commenti encomiastici dei media americani, che sono stati in blocco la prima linea d’attacco al male assoluto
impersonato dal “sovranista” Trump, per farsi un’idea del clima in una nazione che si è consegnata alla difesa degli interessi non dei più deboli ma dei più forti.
Di rimando, anche nella
vecchia Europa ha ripreso fiato la narrazione vomitevole dell’esercito del “
bene” al quale ogni mezzo è consentito per colpire il “
male”.
Qui sta il punto di rottura del sistema democratico: la volontà popolare può essere ignorata, come avviene in Italia,
o pervertita, come probabilmente si dimostrerà essere accaduto negli States, se si persegue un fine giudicato eticamente superiore?
E chi lo decide chi sia moralmente accettabile e chi no?
È in corso nelle società capitalistiche un processo di sostituzione della volontà popolare
con una nuova forma di aggregazione del consenso che emargina il cittadino a vantaggio degli interessi di gruppi di potere egemoni,
che siano economico-finanziari, mediatici o d’opinione, all’interno delle dinamiche sociali.
La
sovranità popolare è degradata a simulacro di una concezione di democrazia che affida il diritto di scelta del decisore politico
non già alla somma delle volontà espresse dai singoli cittadini ma al peso sociale d’insiemi complessi di poteri stratificati.
La
vicenda elettorale americana ci proietta in uno scenario, al momento non chiaramente definito e ancor meno codificato,
nel quale il voto si pesa e non si conta.
Dovremo cominciare a pensare che, a distanza di trent’anni dal crollo del comunismo,
sia giunta l’ora che il ciclo democratico stia tramontando nelle sue architetture tradizionali.
D’altro canto, nelle nuove forme con le quali si rappresenta, l’idea stessa di democrazia esce sfigurata.
Sarà un cambiamento che a qualcuno potrà piacere.
Non siamo tra quelli.