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La leggenda secondo cui il Recovery Fund avrebbe cambiato l’Europa, ponendo fine all’austerità

per iniziare un nuovo periodo di espansione economica, è una clamorosa bufala.

Una gigantesca fake news, per chi ama gli anglicismi.



Chi scrive non ha mai avuto dubbi sul punto,

ma adesso ci giunge in aiuto un’attenta analisi del professor Gustavo Piga sulla Nota di Aggiornamento al Def (NADEF).


Premesso che in tempo di COVID i numeri contenuti nei documenti previsionali valgono quel che valgono, cioè quasi nulla,
resta però interessante lo schema di ragionamento che il decisore politico ha posto come cornice al quadro previsionale.

Mentre i numeri sono destinati ad essere smentiti, riaggiornati e rismentiti,
quello schema di ragionamento resta invece la traccia indelebile di una precisa impostazione politica:
quella degli euroinomani impenitenti, che scrivono di “espansione” anche quando sanno benissimo che avremo invece la solita austerità.

Tra questi adoratori del “Dio Europa” il ministro Gualtieri non è l’ultimo arrivato.


Ecco così la sua NADEF 2020, come sempre co-firmata col presidente del Consiglio Giuseppe Conte.
Su di essa il giudizio di Gustavo Piga è stroncante.


Diamo la parola a Piga.

«La manovra economica del governo che pare espansiva e invece non lo è», questo il titolo chilometricamente liquidatorio del suo articolo.

E non lo è proprio perché il tanto sbandierato Recovery Fund verrà utilizzato in tutt’altro modo.


Probabilmente perché non potrebbe essere diversamente proprio in virtù delle clausole previste da quel fondo,

tanto decantato dai media quanto volutamente sconosciuto nei suoi meccanismi essenziali.



Vediamo allora le riflessioni di Gustavo Piga, partendo dall’inizio del suo articolo:


«Il nostro Paese ha ed avrà ancora di più nei prossimi mesi un bisogno immenso di crescita economica.
Non solo per mantenersi stabile socialmente ma anche finanziariamente:
una crescita solida è senza dubbio l’unico modo credibile per garantire infatti anche la discesa del rapporto debito pubblico su PIL.
Il Recovery Fund doveva raggiungere proprio questo fine, dare garanzia di stabilità sociale e finanziaria, tramite il finanziamento di maggiori investimenti pubblici.
Ma qualcosa sembra non stia funzionando perfettamente, almeno se consultiamo il documento fondamentale per capirne di più,

la Nota di Aggiornamento al DEF recentemente pubblicata dal Ministero dell’Economia e delle Finanze.


Questa include infatti tre informazioni chiave:

la posizione per il 2021-2023 del Governo stabilita con il DEF in aprile ;

gli effetti aggiuntivi della manovra per il 2021 sul triennio ;

ed, infine, il contributo per gli anni 2021-23 dei fondi europei del Recovery.


L’analisi complessiva di queste tre dimensioni ci dice della posizione fiscale del Governo e di come questa impatta sull’economia».


Fatta questa premessa, Piga passa ad esaminare i numeri del Recovery Fund così come tradotti nelle previsioni programmatiche della NADEF:


«Cominciamo subito dalla questione dei fondi europei – più semplice da capire ma anche capace di sollevare perplessità –

che si suddividono in trasferimenti a fondo perduto e in prestiti a tassi vantaggiosi.


I primi sono pari a 14, 20 e 28 miliardi nel triennio a venire: 0,8%, 1% e 1,5% di PIL circa.


L’effetto stimato, ancora per il triennio, di crescita economica in più è pari rispettivamente a 0,3%, 0,4% e 0,8%,

con un moltiplicatore della crescita da parte della spesa pubblica inferiore dunque allo 0,5.


Numero che non è foriero di buone notizie:

da un moltiplicatore degli investimenti pubblici ci si aspetta che sia almeno pari ad 1,

e un valore così basso non può che voler dire che i fondi UE a fondo perduto

non verranno tutti spesi là dove l’impatto è maggiore per la crescita,

nell’accumulazione di capitale fisico ed immateriale, ma piuttosto in mille rivoli e trasferimenti».



Bene Piga, ma il “fondo perduto” non esiste.


La denuncia di Piga è chiara ed incontestabile:

non c’è nessuna politica espansiva alle porte, né il Recovery Fund segnerà quell’uscita dall’austerità tanto propagandata dai media.

Piga ha dunque il merito di svelare – numeri alla mano – la situazione reale dell’Italia reale, così come esce dalle stesse carte previsionali del governo.

Un governo che, con i numeri di quelle carte, smentisce anzitutto se stesso, le sue promesse, le roboanti dichiarazioni dei suoi esponenti di punta.


Tuttavia Piga commette un grave errore, quello di parlare di inesistenti «trasferimenti a fondo perduto».

Un errore che ne porta con sé un altro: quello di attribuire all’impiego di questi trasferimenti un moltiplicatore sul PIL inspiegabilmente basso,
a suo avviso dovuto ad una dispersione in mille rivoli dei fondi in questione.


Ma è davvero questa la causa?


O non sarà, piuttosto, che la NADEF – pur senza dichiararlo – tiene già conto del fatto che l’Italia dovrà contribuire a finanziare gli stessi fondi di cui poi usufruirà?


A me pare che la spiegazione di un moltiplicatore talmente basso da risultare irrealistico,
per altro indicato in un documento che in genere chi governa tende sempre ad improntare in maniera fin troppo ottimistica, non si spieghi altrimenti.

Ed i numeri ce lo confermano.


Abbiamo già visto come la NADEF preveda l’utilizzo delle cosiddette “sovvenzioni” del Recovery Fund per complessivi 62 miliardi nel triennio a venire,
circa 3,3 punti di Pil, cui corrisponderebbe invece un incremento della crescita economica di un solo punto e mezzo.

L’arcano sta nel fatto che il “fondo perduto” proprio non esiste,

mentre esiste una sorta di partita di giro

con la quale gli Stati con una mano vengono “sovvenzionati”,

mentre con l’altra restituiscono all’UE una cifra complessivamente equivalente.



Il documento “Finanziare il piano di ripresa per l’Europa”, elaborato dalla Commissione Europea, spiega come verrà finanziato il Recovery Fund.

Pur auspicando l’aggiunta di nuove tasse europee, a Bruxelles si sono tutelati con una norma secca e chiara:


«Per garantire un margine di manovra adeguato, la Commissione propone di modificare la decisione sulle risorse proprie,

il testo giuridico che stabilisce le condizioni per il finanziamento del bilancio dell’UE,

per consentire l’assunzione di prestiti e aumentare di 0,6 punti percentuali il massimale delle risorse proprie in via eccezionale e temporanea.

Questo aumento delle risorse proprie va ad aggiungersi al massimale permanente delle risorse proprie di 1,4 % dell’RNL

[reddito nazionale lordo] proposto tenendo conto delle incertezze economiche e della Brexit».



A scanso di equivoci lo stesso documento precisa che:

«Il massimale delle risorse proprie determina l’importo massimo delle risorse in un dato anno
che possono essere richieste agli Stati membri per finanziare la spesa dell’UE».


Dunque il massimale verrà portato dall’1,4% dell’RNL di ciascuno Stato al 2%.

Per l’Italia significa un aggravio di circa 11 miliardi annui, equivalenti a 33 miliardi nel triennio.

Trentatré miliardi da succhiare dalle casse dello Stato, sottraendoli dunque ad altri utilizzi (spesa od investimenti) dello stesso.


Ecco allora che i 62 miliardi della NADEF diventano al massimo 29
.


Il che spiega abbondantemente il modesto incremento quantificato dal governo sul PIL.

Se l’aumento di spesa effettivo è quello da noi calcolato, il moltiplicatore non sarebbe più sotto allo 0,5, bensì leggermente superiore ad 1.

Il che appare assai più ragionevole.

Tutto questo sempre nel “fortunato” triennio 2021-23, perché in quello successivo (2024-26) le cose potrebbero peggiorare drasticamente.


Come si legge a pagina 12 della NADEF, le sovvenzioni in quel triennio caleranno infatti a soli 13,4 miliardi,

mentre l’uscita aggiuntiva dello Stato (direzione Bruxelles) potrebbe restare a quota 33 miliardi. Insomma, una cuccagna!


Se così andranno le cose – e questo ci dicono le carte – il famoso “fondo perduto”

ammonterebbe a soli 9,4 miliardi in 6 anni, pari ad un miliardo e mezzo all’anno!


Una miseria – peraltro tutta da vedere, vista la possibilità di una serie di tassazioni aggiuntive –,
ma ad ogni modo più che compensata dalle stringenti condizioni cui verrà incatenato il nostro Paese.


E i prestiti?

Fin qui abbiamo parlato delle cosiddette “sovvenzioni”, sperando che si sia almeno capita una cosa:

che nella sostanza il “fondo perduto” proprio non esiste,

che per l’Italia ci saranno al massimo delle miserevoli briciole,

del tutto irrilevanti dal punto di vista macroeconomico
.


Ma il Recovery Fund prevede anche i prestiti, che per il nostro Paese sono peraltro la parte prevalente.

Un totale di 127,6 miliardi, la maggior parte da utilizzarsi nel triennio 2024-26.

Inutile dire – qui l’inganno semantico non può funzionare come con le “sovvenzioni” – che i prestiti andranno restituiti.


Poiché la NADEF arriva solo fino al 2023, Piga non può far altro che analizzare l’impatto di questi prestiti soltanto sul primo triennio.

Ed il suo giudizio è tombale:


«Passiamo ai prestiti a tassi vantaggiosi: essi sono pari a 11, 17,5 e 15 miliardi di euro.

Una bella cifra.


Purtroppo una buona parte di questi non andranno a finanziare nuovi progetti di investimenti

ma a sostituire il finanziamento in deficit da parte del Tesoro di spese già previste.


Effetto addizionale dunque nullo, se non per un minuscolo risparmio di spesa per interessi.


Qualcuno potrebbe dire che vanno a finanziare comunque maggiori investimenti pubblici già previsti da questo Governo,

ma il DEF di aprile non lascia scampo nemmeno a questo riguardo:

l’aumento di investimenti pubblici dal 2020 è di 3 miliardi per il 2021,

altri 3 in più per il 2022 ed un calo di 1 miliardo nel 2023.


Bazzecole, se pensiamo alla crisi in cui ci dibattiamo»
.


Queste affermazioni trovano puntuale riscontro in quel che si legge a pagina 11 della NADEF:

«I prestiti […] non si tradurranno in un equivalente aumento dell’indebitamento netto

in quanto potranno in parte sostituire programmi di spesa esistenti (anche corrente)

e in parte essere compensati da misure di copertura.

La porzione di prestiti che si traduce in maggior deficit è determinata per ciascun anno secondo gli obiettivi di indebitamento netto illustrati più oltre».
 
I procuratori generali del Missouri, Alabama, Arkansas, Florida, Kentucky, Louisiana, Mississippi, South Carolina, South Dakota e Texas
hanno presentato ricorso in appoggio nel caso Partito Repubblicano della Pennsylvania contro Boockvar,
che contesta la decisione della Corte Suprema di quello stato, presa a fine ottobre,
che consentiva il conteggio delle schede che arrivano dopo il giorno delle elezioni
– nonostante, come osserva The Federalist le leggi statali impongano il contrario.

“Elezioni libere ed eque sono la pietra angolare della nostra Repubblica ed è uno dei motivi per cui gli Stati Uniti sono l’invidia del mondo”,
ha detto il procuratore del Missouri Eric Schmitt in una conferenza stampa del lunedì.

“Dobbiamo assicurarci che ogni voto legale venga conteggiato in modo che ogni voto illegale non venga conteggiato”.


Il giudice associato Samuel Alito Jr. ha già accolto la richiesta del Partito Repubblicano della Pennsylvania
e ha temporaneamente ordinato a tutte le contee di segregare le schede elettorali arrivate dopo le 20.00 del giorno delle elezioni,
per poterli eventualmente scartare, ma la causa è ancora pendente presso la massima corte.


L’auspicio degli avvocati è che, presentandosi come “Amici della Corte” e dimostrando un “forte interesse”
per le ramificazioni della potenziale decisione della Corte Suprema, possano ottenere un interessamento
ed una sentenza della Corte stessa rendendola, in un certo senso, obbligatoria.


“Le azioni intraprese dalla Corte Suprema della Pennsylvania sono uno degli abusi di autorità giudiziaria più incredibili
che abbia mai visto nei miei quattro anni e più come procuratore generale”, ha detto il procuratore dell’Oklahoma Mike Hunter.


I querelanti sostengono che la Corte Suprema della PA ha superato la sua autorità
e ha violato le clausole elettorali della Costituzione che danno alle legislature statali, non ai tribunali,
il potere e il “ruolo unico” di decidere le varie procedure elettorali.


I due principali fronti di contestazione dei Repubblicani sono in Georgia ed in Pennsylvania,
ma anche Michigan, Wyoming ed Arizona stanno vedendo delle azioni di contestazione.
 
Ogni giorno ha il suo Walter Ricciardi.

Oggi, “l’ultimo guappo” ci ha deliziati con l’ennesima iniezione di incoraggiamenti:

“Peggio della prima ondata”, le persone circolano troppo, ovviamente “un lockdown rinforzato è nei fatti”.


Non si capisce mai a che titolo parli il professore, quello che non voleva nemmeno farci votare alle regionali:
è un consulente del ministero, non un decisore politico.

Nei “fatti” di chi sarebbe il lockdown totale?

Stabilito sulla base di quali dati e dopo che tipo di analisi dei costi economici, nonché sanitari?


Parliamo delle conseguenze psicologiche e delle altre gravi patologie, da mesi neglette dal sistema sanitario.

Per carità, non è un mistero che la serrata nazionale sarà l’ultima tappa di questa via crucis.

Il nostro Winston Churchill sta solo capendo come ci può arrivare, senza che la misura impatti troppo sul suo capitale.


Una soluzione, scrive il Corriere, potrebbe essere quella di spingere man mano tutto il Paese nella zona rossa,
mandando avanti governatori, sindaci e ordinanze di Roberto Speranza.

Così potrà dire: non sono stato io.


Nel frattempo, i tecnici si prestano a coprire le omissioni di un governo arrivato incredibilmente impreparato alla seconda ondata, battendo sul tasto delle paternali.

Se i contagi aumentano, è colpa degli italiani.

È colpa delle discoteche piene in Sardegna, ovvero del presidente leghista.


Al che uno si domanda: ma se il Cts aveva dato parere contrario,
ma se bastava passeggiare in una qualunque meta vacanziera italiana per vedere i giovani nelle balere,
come mai a Roma non se n’è accorto nessuno fino a baldorie ferragostane archiviate?

Ieri, Silvio Brusaferro, presidente dell’Istituto superiore di sanità, ci ha minacciato:

“Violare le regole, individualmente e socialmente, comporta la difficoltà di modellare la curva e la necessità di adottare provvedimenti più restrittivi”.


Il male si diffonde non solo perché qualcuno passeggia sul lungomare di Mergellina,
ma anche quando tu – sì, proprio tu che leggi, sappi che loro ti vedono come Dio nella cabina elettorale nel 1948 –
per un attimo, ti cali la mascherina sotto al naso, credendo di essere da solo.


“Socialmente” e “individualmente”, pare di ascoltare un’arringa di Giovanni Calvino nella Ginevra del Cinquecento.

Gli esperti e il governicchio sono immacolati.

Pasticci sulla scuola?

Trasporti nel caos?

Ma quando mai: gli untori siete voi della movida (che non esiste più da due mesi).


Verrebbe da ribaltare il tavolo dal quale pontificano questi fenomeni:
dopo mesi passati a raccontarci che le mascherine non servivano,
che “vedremo gli effetti del lockdown tra due settimane” (e poi sono passati quattro mesi),
che il modello italiano è stato un successo, ci ritroviamo di nuovo senza posti letto, senza medici e senza infermieri.


Ebbene, visti i brillanti successi, sareste voi da mettere in lockdown.

Chiusi a doppia mandata, senza uscire più di casa, senza più comparire in tv:
a proposito, Massimo Galli, che va nei salottini a prescriverci quanta gente possiamo invitare al cenone di Natale,
non aveva promesso di disertare per sempre il piccolo schermo?


E come mai Ilaria Capua, che dice di essersi già messa in clausura, continua a collezionare ospitate per raccontare che la mascherina è il nuovo preservativo?

Tanto, se lo stato dell’arte è che per combattere il virus dobbiamo lavarci le mani e stare distanti, be’, possiamo anche cavarcela da soli.

Loro non sanno nemmeno dirci come andrà a finire con il vaccino.


Poi arriva il professor Giuseppe Remuzzi e ti gela: non risolverà nulla, non rimetteremo le mascherine nel cassetto prima del 2024.

Com’è che, se sono i nuovi preservativi, non giubiliamo come se ci aspettassero tre anni di scopate?


Peraltro, la richiesta di moratoria mediatica per competenti avrebbe illustri sostenitori.

Persino i dottori del San Raffaele, infatti, hanno sconfessato il “loro” Roberto Burioni,
il quale nega che la campagna terroristica abbia prodotto l’effetto di sovraccaricare gli ospedali
con gente in preda al panico per qualche linea di febbre.

Burioni era lo stesso che, a febbraio, si preoccupava più della “discriminazione contro i cinesi” che del Covid.

E assicurava: “In Italia il rischio è zero”.

Uno che se ne esce così, se ancora si ricorda cos’è la dignità, deve stare zitto per due decenni.

Invece passa le giornate a twittare, a spiegare, a insegnare, dall’alto di non si sa bene quali ricerche.


Esattamente come gli altri luminari dell’Iss e del Cts, che quando Il Tempo
provò a misurare i loro indici di autorevolezza accademica, fecero la figura dei prof Aristogitone.



Ecco, esimi illustrissimi stimatissimi esperti: in lockdown, andateci voi.
 
I voti in Georgia saranno ricontati, ma non solo: il loro conteggio non avverrà con alcun ausilio automatico,
avverrà a mano, urna per urna, e tutto verrà certificato prima di essere immagazzinato.

Tutto questo è stato comunicato a sorpresa dal Segretario di Stato della Georgia, Brad Raffensperger.


Questa scelta un po’ estrema viene a derivare dal fatto che, su oltre 10 milioni di voti, Trump e Biden sono separati da 20 mila voti a favore del secondo,
frazioni di punto percentuale, per cui è necessario cancellare questo dubbio attraverso un riconteggio pubblico, controllato, e fatto a mano per togliere ogni sospetto.


Perchè proprio l’insieme dei sospetti, favorito dall’incapacità di rispondere ai numerosi casi di brogli, di confusione o di dati errati, sta cancellando ogni certezza nella democrazia.


You are being brainwashed to accept the results of the election as fair. You will be told that only bad people are skeptical in this situation, and that you will be held to account for doubting.
— Scott Adams (@ScottAdamsSays) November 10, 2020



Tutti i media sono corsi a dichiarare la vittoria di Biden.

Ora partono cause e riconteggi.

Twitter corre a cancellare i tweet, compresi quelli di Trump, che parlano di brogli.


Cosa può andare storto ?
 
L’assurda motivazione della sentenza tutta politica del Gup Manuela Cannavale per la commemorazione del 29 aprile 2019 a Milano dell’omicidio di Ramelli,
ucciso a 19 anni a sprangate da una decina di esponenti di Avanguardia Operaia nel 1975.

A leggere la sentenza figura anche l’applicazione della legge Scelba:

“Una manifestazione posta in essere al solo scopo di eseguire riti e gesti del disciolto partito fascista,
al solo scopo di evocare i tempi del fascismo con grandissima partecipazione emotiva da parte di tutti i manifestanti,
perfetto ordine, pedissequa ripetizione delle frasi, dei gesti, delle ritualità appartenenti al solo fascismo
e ciò allo scopo di provocare adesioni e consensi e di concorrere alla diffusione di concezioni favorevoli alla ricostituzione di organizzazioni fasciste”.

Da qui pertanto le condanne a un mese e 10 giorni per diversi esponenti della destra radicale.

Ma è il riferimento al sovranismo che tradisce l’impronta politica della sentenza,
peraltro in un contesto di applicazione della 12 esima transizione transitoria
(anche questo ampiamente oppugnabile), come se avesse la stessa rilevanza penale.


Il giudice è convinto che la difesa delle istituzioni democratiche

non è stata mai attuale come nel presente momento storico, nel quale episodi di intolleranza e violenza
dovuti a motivi razziali sono all’ordine del giorno e si assiste ad una pericolosa deriva sovranista



Nella sentenza infatti viene sottolineato che

“mentre nel 2013 avevano partecipato alla manifestazione 600 persone, nel 2019 vi prendevano parte 1.200 soggetti”.

Si è trattato di

“1.200 persone delle diverse realtà extraparlamentari di destra riunite in modo compatto,
che insieme rispondono alla chiamata del presente e alzano il braccio nel saluto romano con orgoglio ed entusiasmo”,

persone che – afferma con convinzione il giudice –

“certamente creano in soggetti che si ritrovano nelle loro idee una suggestione, una forza,
una evocazione del passato regime tali da rappresentare un concreto tentativo di proselitismo
e, quindi, un concreto pericolo di raccogliere adesioni finalizzate alla ricostruzione di un partito fascista
“.


“Ma di quale deriva sovranista si parla?
Qui non esiste nessuna deriva sovranista, soprattutto poi legata alla commemorazione di Sergio Ramelli ucciso dall’odio comunista.
Se il Gup scrive ciò ha confuso le cose, magari ha scambiato una sentenza con un trattato politico
che ha poco a che fare con la realtà di quei fatti legati a Ramelli, ai successivi cortei e a questioni di derive sovraniste che nulla c’entrano. Rimango basito”

“Ho difeso la mamma di Sergio e ho fatto due processi di questo tipo dopo i cortei in suo ricordo, difendendo due ragazze accusate di avervi partecipato.
E in Cassazione è stato sempre dichiarato che non ci fosse alcune reato nel ricordarlo con il Presente.
Da quando è stato ucciso – spiega – dall’anno successivo e quindi dal 1976, la commemorazione con il presente
e i saluti romani annessi è un ricordo istituito da tanti giovani – molti dei quali nemmeno lo avevano conosciuto –
per rendere onore e ricordare un ragazzo caduto sotto i colpi della violenza comunista” .
 
Sono sovranista e ho partecipato alla manifestazione per Sergio Ramelli eppure non mi sento un pericolo per la democrazia”.

“Da almeno trent’anni partecipo alle manifestazioni in suo onore e ricordo, in lui, un martire della libertà di pensiero e di opinione
che fu vittima proprio del suo coraggio nel sostenere le proprie idee.
Credo che, seguendo la nostra Costituzione, andrebbe tutelato proprio questo aspetto
e non pretestuosi e vaghi richiami alla ricostituzione del Partito fascista che – sinceramente – non ho mai riscontrato in nessun 29 aprile, anche in anni più difficili.
Peraltro, anche dal punto di vista giuridico, persino un pessimo studente di giurisprudenza come me,
potrebbe avanzare dei dubbi sulle motivazioni riguardo al pericolo ‘sovranista’ che incombe sulla nostra democrazia“.

“La verità è che la vicenda di Sergio Ramelli resta una ferita profonda e mai rimarginata nella storia recente di Milano e dell’Italia tutta
e le responsabilità della politica, della stampa, della cultura e anche di una parte della magistratura, palesemente orientata politicamente, è assolutamente evidente!
Io continuerò a partecipare a quelle manifestazioni, dove ricordo non ci sono simboli e slogan di partito, ma religioso silenzio
e un Tricolore per far sapere ai miei figli e a tutti i giovani, che per difendere le proprie idee può accadere che si possa anche morire.
A Milano, a Kabul, a Budapest, a Praga e laddove ci sono regimi oscurantisti o epigoni di quelle idee totalitarie”, conclude.
 
Personalmente sono più preoccupato da questi ........


C’è chi dice che il suo patrimonio sia aumentato di 74 miliardi di dollari, chi di 76, mentre alcuni – tra cui Forbes –,
stimano ormai la sua fortuna personale oltre i 200 miliardi di dollari.

Altre fonti
si “fermano” a quota 191 miliardi.

Il dubbio sulla cifra precisa rimane, mentre una cosa è certa: Jeff Bezos è per distacco l’uomo più ricco del mondo
e Amazon, la sua creatura, la società che più di tutte ha tratto profitti dalla pandemia.

Dall’inizio dell’anno le azioni del gigante del commercio elettronico sono aumentate dell’80%.

Il che è abbastanza intuitivo: con i negozi chiusi o quasi, con le persone barricate in casa tra paura, coprifuoco e smart working,
è normale che chi basa il proprio business sul monopolio de facto delle consegne a domicilio non possa non trarne vantaggio.


E così mentre la piccola proprietà soffre un po’ in tutto il mondo e in Italia centinaia di migliaia di attività rischiano di chiudere per sempre,

Bezos e pochi altri hanno guadagnato centinaia di miliardi di dollari.


Solo prendendo in esame il periodo che va dal 18 marzo al 16 ottobre,

oltre al fondatore di Amazon abbiamo Bill Gates (Microsoft) che passa da 98 miliardi a 118 di patrimonio personale (+20,4%),

Mark Zuckerberg (Facebook) da 54,7 a 97,7 (+78%),

Elon Musk (Tesla/SpaceX) da 24,6 a 91,9 (+270%).

Miliardi di dollari in più anche per i vari

Warren Buffet (Berkshire Hathaway),

Larry page (Google) e tanti altri,

tra cui doversi miliardari cinesi: su tutti Eric Yuan, fondatore e Ceo di Zoom,

la piattaforma per le videoconferenze che tutti ormai utilizziamo (studenti compresi) passato da 5,5 a 24,7 miliardi di dollari (+349%).


Immagine Corriere della Sera – dati Forbes

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In un mondo dove i dati economici e finanziari anticipano di gran lunga i processi politici,
appare evidente la direzione che prenderà questa “nuova normalità”
di cui spesso sentiamo parlare, cosa si intende effettivamente con l’espressione “Grande Reset” che circola da qualche settimana.

La definitiva digitalizzazione della società e l’affermazione del “capitalismo immateriale”,

l’idea distorta di poter avere tutto quanto a disposizione senza alzare il sedere dal divano,

condurrà ad un aumento delle disuguaglianze, alla perdita del lavoro per centinaia di milioni di lavoratori

(che in futuro riceveranno in cambio un “reddito universale”), alla fine della piccola proprietà.




La dimensione pubblica non è assolutamente in grado né di governare né di intervenire in maniera incisiva su questi processi.

Proprio la questione fiscale relativa ai grandi colossi digitali è paradigmatica:

secondo un recente studio di Mediobanca hanno versato 46 miliardi di dollari di tasse in meno, solo negli ultimi 5 anni.


“Microsoft ha così risparmiato 14,2 miliardi;

Alphabet (Google) 11,6;

Facebook 7,5.

Tra i giganti del web, Microsoft è quella che ha pagato meno in tasse: appena il 10% degli utili nel 2019”, scrive Milena Gabanelli sul Corsera.


“Inoltre circa l’80% della loro liquidità – 638 miliardi a fine 2019, secondo Moody’s – è tenuta in paradisi fiscali per sottrarla al Fisco dei paesi di provenienza”.


Insomma le “big companies” non sborsano un euro per fronteggiare l’emergenza sanitaria,
al contrario raddoppiano e triplicano il fatturato proprio grazie alla crisi,
non pagano quanto dovrebbero di tasse e molto spesso sottopagano o sfruttano i lavoratori.


Per chi ancora avesse dubbi sulla natura di questa “nuova normalità”.
 
FDA concede l'Emergency Use Authorization a bamlanivimab, già noto come LY-CoV555,
per l'uso in pazienti COVID non ospedalizzati entro dieci giorni dalla comparsa dei sintomi.

Pare, ad oggi, che l'autorizzazione sia stata concessa sulla base dei dati del trial BLAZE-1, quelli pubblicati su un NEJM di cui si è parlato molto
(https://www.nejm.org/doi/full/10.1056/NEJMoa2029849…).

BLAZE-1 valuta tre dosi, 700 mg, 2.8 g e 7 g (queste ultime due dosi "monstre").
Endpoint: clearance virale a 11 giorni .

Condivido le perplessità di Derek Lowe, sui risultati:

"Ecco il problema: solo il dosaggio medio (2.8g) ha raggiunto una significatività statistica su quell'endpoint (eliminazione della carica virale).
Non è gran che dal punto di vista dell'effetto dose-risposta: come al solito, il risultato più facile da capire è vedere gli effetti aumentare con l'aumentare della dose.
Ci sono sicuramente risposte alla dose "a forma di U", con la U rivolta verso l'alto o verso il basso, ma con tre dosi è difficile sapere com'è quella U o perché ha quella forma ...

Altro problema era che entro il giorno 11 anche il gruppo placebo /Standard Of Care aveva una tendenza verso la clearance virale,
ma il problema più grande è che l'anticorpo non era in grado di distinguersi molto bene dal placebo" (https://blogs.sciencemag.org/…/the-latest-antibody-data-fro…).

FDA ha concesso l'EUA al dosaggio 700 mg, il che lascia abbastanza perplessi,
a meno che di mezzo non ci siano ulteriori dati ancora non resi pubblici,
perché con l'articolo NEJM stiamo parlando di un'analisi ad interim fatta ai primi di settembre,
mentre il trial è ancora in corso a tutt'oggi.

Non ho alcuna simpatia per Pfizer (e questo è un blando, blandissimo eufemismo.)

Il leit-motiv "l'ha pagato il pubblico" era già venuto fuori per remdesivir (e la versione era deformata all'inversomile).

Tirato in ballo per il vaccino Pfizer-Biontech è un pessimo trash movie.

In primo luogo il vaccino non l'ha tirato fuori Pfizer ma Biontech.

Pfizer ha comprato l'asset dalla biotech tedesca.


I soliti produttori di disinformazione a tema raccontano che nel 2016 a NIH hanno messo a punto
un metodo di cristallizzazione dello spike dei coronavirus nella giusta conformazione e che molti vaccini, compreso quello Biontech, la usano.

Falso.

I vaccini mRNA come quello Biontech sono appunto catene di RNA incapsulate.

Questo RNA arrivato all'interno della cellula sintetizza la proteina virale.

Con quale conformazione esca dalla cellula, nonché il processo nel suo insieme, non ha niente a che vedere con la citata tecnologia NIH
(https://www.citizen.org/…/analysis-pfizer-vaccine-relies-…/…).

Semmai ha a che fare con la sequenza degli amminoacidi della proteina Spike, codificata nel mRNA.


Quelli che tirano fuori codesta roba non ci arriveranno mai (e neanche vogliono farlo):

i farmaci vengono sviluppati dall'industria, e se vuoi iniziare a fare un discorso serio

invece di discutere fantasie, discuti di industria pubblica o nazionalizzata.

Perché di "privatizzazione di conoscenze di pubblico dominio", di farmaci che costano 5 euro o 50 cent a dose

e vengono venduti a cifre folli e altre idiozie simili abbiamo sentito parlare più che a sufficienza.
 
Mentre ci scandalizziamo per i recenti dati che parlano dell’Italia come uno dei peggiori Paesi tra quelli dell’Ocse
per la schifosa media di posti letto in rapporto al numero di abitanti, c’è da imbufalirsi a leggere quelli relativi ai tagli alla sanità e all’aumento della spesa militare.

Già, perché nell’anno del Covid il governo italiano è stato capace di spendere ben 26 miliardi di spese militari
e far ritrovare un Paese senza terapie intesive, senza mascherine, senza posti letto e senza cure per tutti.

Anche in piena pandemia, dunque, il nostro Paese spende più per le armi che per la sanità.

Un paradosso, visto che di fronte alla guerra contro il coronavirus ci siamo trovati impreparati, “senza armi”, come dicono in molti.

Peccato che di armi ne abbiamo davvero per fare una guerra, ma non per quella che ci serviva combattere, quella per tenerle in vita le persone invece di ucciderle.




armi.jpg



Ad occuparsi dei dati è un approfondito articolo di Rita Rapisardi su L’Espresso.

Per farci un’idea:

“Gli F35? Valgono centocinquantamila terapie intensive.
La portaerei Trieste? Cinquantamila respiratori polmonari.
Una manciata di blindati e un elicottero? Trecentotrentamila posti letto oppure dieci miliardi di mascherine”.

In Italia c’è questo strano fenomeno: più crescono le spese militari, più aumentano i tagli alla sanità.

E infatti adesso ci mancano ventilatori, posti letto, mascherine e reagenti, terapie intensive, cure.



Un esempio? I 43mila posti di lavoro in meno nella sanità in dieci anni (dati Fondazione GIMBE)
o gli scarsi investimenti per le preziose terapie intensive (una, costa 100mila euro).

“Si è voluto anteporre la spesa militare a quella sociale e civile, questo ha portato a un costante indebolimento del Sistema Sanitario Nazionale
a fronte di una ininterrotta crescita di fondi per l’industria degli armamenti”, commenta a L’Espresso Francesco Vignarca, coordinatore di Rete Disarmo.

Mentre da un lato la spesa militare è passata dall’1,25 per cento del Pil fino a raggiungere un picco dell’1,45 per cento.


L’industria bellica non conosce crisi, cresce con il lascia passare di tutti i governi che si sono susseguiti negli ultimi 15 anni.

“Non ci sono solo i celebri F-35 dal valore di 15 miliardi di euro.
È fresca la conferma dell’acquisto da parte della Marina Militare di due sommergibili dal costo di 1,3 miliardi di euro, che saranno costruiti da Fincantieri.
Senza dimenticare i sette miliardi di euro sbloccati dal Ministero della Difesa e dal MISE
per la prevista ‘Legge Terrestre’ che dovrebbe garantire la costruzione di diversi armamenti.
E poi ci sono le 36 missioni militari all’estero che ogni anno ci costano 1,3 miliardi”.


Nanche il lockdown ha fermato il settore.

“Si legge infatti in una comunicazione dell’AIAD, la Federazione delle Aziende Italiane per l’Aerospazio, la Difesa e la Sicurezza,
membro di Confindustria, che c’è l’opportunità per le società e le aziende federate, di proseguire la propria attività,
concentrando l’operatività sulle linee produttive ritenute maggiormente essenziali e strategiche,
e di rallentare per quanto possibile l’attività produttiva e commerciale con riferimento a tutto ciò che non sia ritenuto essenziale”.
 

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