Ora, affinché si possano trovare i mezzi per conseguire gli obiettivi di una teoria,
bisogna che questi ultimi siano ben definiti, nella forma e nel tempo,
e affinché essi trovino un’adeguata definizione è necessario che la teoria abbia un punto di appoggio solido e immodificabile.
Nella
teoria economica francescana questo punto è rappresentato dalla dichiarazione di Boff:
rigettiamo il sistema capitalistico.
L’alternativa sarebbe un’economia socialista non tanto nel senso dell’efficientismo statalista sovietico dei piani quinquennali,
quanto piuttosto nel senso di un socialismo utopistico ottocentesco, non meno statalista ma strutturalmente sgangherato
e ideologicamente modificato con l’inserimento di istanze indigeniste che agglutinano cristianesimo e sciamanesimo, tribalismo e marxismo.
Oggi infatti, dopo il Sinodo Amazzonico e dopo l’enciclica Fratelli tutti, la lungimirante affermazione (risalente al 1977) di Plinio Corrêa de Oliveira,
secondo cui “il tribalismo indigeno è l’ideale comunista-missionario per il Brasile del XXI secolo”,
può essere estesa a tutto il raggio d’azione del proselitismo bergogliano, che ormai mira a una sorta di indigenismo mondiale che sostituisca,
come vogliono i teologi della liberazione, “l’uomo nord-atlantico”, l’uomo occidentale.
Colto nella sua essenza, il nodo intorno al quale ruota tutta la nuova costruzione economica vaticana
consiste nella concezione della proprietà privata, che nell’enciclica Fratelli tutti viene severamente colpita,
bersaglio di una critica complessiva che mira a decostruirne il concetto e abolirne la prassi.
Se infatti la povertà è il tema privilegiato della riflessione di Bergoglio,
la proprietà ne è il principale obiettivo critico.
La proprietà è un concetto originario, che deriva dall’esperienza storica fondamentale di quell’uomo occidentale
che i teologi della rivoluzione vorrebbero sostituire e che è, insieme con il concetto di libertà, alla base dell’idea cristiana della dignità della persona.
E, sia pure indirettamente, è contro questa coscienza storica che Bergoglio si dirige quando esorta a considerare
(in questo caso si rivolge ai giudici che si occupano di cause sociali) l’idea (in sé assolutamente balzana ma in questo contesto altamente suggestiva)
di una giustizia non tanto distributiva quanto
restitutiva:
“Quando ripensate all'idea di giustizia sociale, fatelo essendo
solidali e giusti (…).
Solidali nella lotta contro le cause strutturali di povertà, disuguaglianza, mancanza di lavoro, terra e alloggio (…).
Giusti sapendo che, quando decidiamo nell’ambito del diritto, diamo ai poveri le cose essenziali,
non diamo loro le nostre cose, né quelle di terzi, ma restituiamo loro ciò che è loro.
Abbiamo perso molte volte questa idea di restituire ciò che gli appartiene”
(
Papa Francesco,
Messaggio in occasione dell’Incontro internazionale dei giudici membri dei Comitati per i diritti sociali di Africa e America,
30 novembre 2020).
Uno dei pericoli insiti in questa visione consiste nella possibilità che alle parole seguano i fatti
e che, dunque, qualcuno realizzi – inevitabilmente con la violenza –
questa forma di espropriazione come risarcimento di presunte precedenti sottrazioni.
Se infatti dare significa restituire, allora in qualche momento qualcuno ha tolto ciò che viene ora restituito,
e quindi ciò che si possiede sarebbe stato precedentemente estorto, mai guadagnato,
ed è perciò illegittimo o quanto meno
improprio.
Follia.
Da questa tesi si arriva ad un passo dottrinale radicale e forzato che conduce a una prassi sostanzialmente espropriativa:
“Costruiamo la nuova giustizia sociale partendo dal presupposto che la tradizione cristiana
non ha mai riconosciuto il diritto alla proprietà privata come assoluto e intoccabile”.
L’espropriazione come ri-appropriazione dei beni: un paradosso dai toni sofistico-decostruzionisti
che contiene un potenziale esplosivo di portata colossale, sia sul piano teorico sia su quello pratico.
La proprietà privata, in tutte le sue declinazioni, viene qui disintegrata.
Così si incita, palesemente, a impossessarsi di beni altrui
(terre e abitazioni, anzi le tre “t”:
tierra e
techo, il
trabajo si troverà poi, chissà come)
semplicemente come atto di restituzione di un supposto maltolto storico,
sulla base di una premessa dottrinale che fa del Cristianesimo una sorta di comunismo primitivo,
nel quale “il diritto di proprietà è un diritto naturale secondario derivato dal diritto che tutti hanno, nato dalla destinazione universale dei beni creati”.
Una dottrina sociale della Chiesa (versione bergogliana) come teoria della restituzione dei beni
non si differenzia infatti dalla teoria marxiana della proprietà come furto.
E di conseguenza «non c'è giustizia sociale che possa essere basata sull'ineguaglianza, la quale implica la concentrazione della ricchezza».
In quanto sistema della ricchezza concentrata, è il capitalismo qui ad essere posto sul banco degli imputati,
e in quanto estorsore di quella ricchezza è l’uomo occidentale che va corretto.
In questa chiave, l’”economia di Francesco” è una pesante rivoluzione antropologica,
perché si presenta come un progetto di trasformazione radicale non solo dei rapporti produttivi ma anche di quelli sociali e culturali.
Si delinea così un mondo in cui «l’organizzazione sociale si basa sul contribuire, condividere e distribuire, non sul possedere, escludere e accumulare»
(
Papa Francesco,
Messaggio ai partecipanti al Seminario virtuale “America Latina: Chiesa, Papa Francesco e gli scenari della pandemia”,
19 novembre 2020).
Contrapponendo condivisione a possesso, Bergoglio apre una spaccatura artificiale (e strumentale) nella coscienza dell’uomo occidentale,
nella quale invece possedere e condividere possono coesistere, purché non si intacchi la nozione di proprietà (
e nemmeno quella di libertà).
Usando poi il concetto di accumulazione, egli svela tutta la sua implicita prossimità al marxismo.
Questo schema dicotomico contrappone dunque al sistema capitalistico
l’economia presuntamente salvifica dei movimenti sociali e di ciò che definirei
lavoro di sussistenza.
E lo schema si estende a tutti gli ambiti della vita sociale, per risolvere i “malesseri sociali:
la mancanza di un tetto,
la mancanza di terra e
la mancanza di lavoro, le tre famose T” (ivi),
Bergoglio pensa infatti a «un nuovo modello culturale”
(
Papa Francesco,
Messaggio in occasione dell’incontro organizzato dalla Congregazione per l’educazione cattolica:
“Global compact on Education. Together to look beyond”, 15 ottobre 2020),
ad una “educazione integrale” e ad una “ecologia integrale”, che a loro volta rinviano,
nella loro struttura teorica e nella loro applicazione pratica, alla nuova “Economy of Francesco”.
Infatti, “l’
economia, nel suo senso umanistico di “legge della casa del mondo”, è un campo privilegiato per il suo stretto legame con le situazioni reali e concrete.
Essa può diventare espressione di “cura”, che non esclude ma include, non mortifica ma vivifica,
non sacrifica la dignità dell’uomo agli idoli della finanza, non genera violenza e disuguaglianza, non usa il denaro per dominare ma per servire”,
poiché “l’autentico profitto, infatti, consiste in una ricchezza a cui tutti possano accedere”
(
Papa Francesco, Messaggio al Forum di “European House” – Ambrosetti, 4-5 settembre 2020).
Questa accessibilità implica, nella sua essenza, la messa in comune dei beni: “Ciò che possiedo veramente è ciò che so donare”
(
Papa Francesco, Udienza generale, 7 novembre 2018).
E' profondamente e distruttivamente errata la conseguenza teorica e pratica.
Catastrofica è l’esortazione:
“Al centro dell’economia di comunione ci sia la comunione dei vostri utili.
L’economia di comunione è anche comunione dei profitti”,
mentre “il
capitalismo fa della ricerca del profitto l’unico suo scopo”, diventando “una struttura idolatrica”
(
Papa Francesco, Discorso ai partecipanti all’incontro “Economia di comunione”, promosso dal Movimento dei Focolari, 4 febbraio 2017).
Così si colpisce al cuore non solo il meccanismo produttivo, ma anche l’intero schema di pensiero occidentale,
tentando assurdamente di mostrare come la Chiesa debba opporsi ad esso, senza però accorgersi che la religione cristiana
(e quindi la Chiesa) è parte integrante di quello schema, parte fondante – e risultante – dell’Occidente in tutti i suoi aspetti.
L’economia di Francesco è ora esplicita, “
mettere i profitti in comune”, perché
“il modo migliore e più concreto per non fare del denaro un idolo è condividerlo, condividerlo con altri,
soprattutto con i poveri, vincendo la tentazione idolatrica con la comunione” (ivi).
Che nel sistema capitalistico il denaro sia un idolo (cioè un fine anziché un mezzo per vivere)
è una interpretazione fallace prodotta dall’ideologia comunistica, alla quale è connessa l’affermazione,
non meno fallace, generata dalla medesima ideologia e da un cristianesimo primitivistico-pauperistico, che il denaro sia sterco del demonio.
Ora, poiché “il capitalismo
continua a produrre gli scarti che poi vorrebbe curare”,
l’economia di comunione vuole invece costruire un sistema senza scarti,
ma al tal fine “bisogna cambiare le regole del gioco del sistema economico-sociale (…),
non farsi bloccare dalla meritocrazia invocata da tanti, che in nome del merito negano la misericordia” (ivi).
Cambiare le
regole per cambiare anche il gioco: in questa prospettiva, profitto e accumulazione sono da bandire
in quanto strumenti di sfruttamento, produttori di scarti e idoli della crescita, a cui vanno contrapposte la condivisione e la decrescita:
“Tutte le volte che le persone, i popoli e persino la Chiesa hanno pensato di salvare il mondo crescendo nei
numeri,
hanno prodotto strutture di potere, dimenticando i poveri” (ivi).
E arriviamo così al paradosso, secondo cui la povertà non si fronteggia dunque con la crescita economica, ma con il progressivo depauperamento:
“Per avere vita in abbondanza occorre imparare a donare: non solo i profitti delle imprese, ma voi stessi.
Il primo dono dell’imprenditore è la propria persona: il vostro denaro, seppure importante, è troppo poco.
Il denaro non salva se non è accompagnato dal dono della persona” (ivi).
Ma, culmine del paradosso, non basta donare qualcosa, bisogna donare tutto, e per farlo bisogna uscire dall’ingranaggio capitalistico:
“Il capitalismo conosce la filantropia, non la comunione.
È semplice donare una parte dei profitti, senza abbracciare e toccare le persone che ricevono quelle “briciole” (…).
Se non si dona tutto non si dona mai abbastanza” (ivi).
Così il cambio di paradigma sarebbe compiuto, affinché “il “no” ad un’economia che uccide diventi un “sì” ad una economia che fa vivere,
perché condivide, include i poveri, usa i profitti per creare
comunione” (ivi).
In questo deliquio economico-sociale, Bergoglio si dichiara vicino al popolo, ma per lui,
nella linea ideologica della teologia della liberazione,
popolo non equivale all’insieme delle persone e dei gruppi che compongono un’etnia e formano una nazione,
bensì consiste in quella parte di popolazione che in date circostanze e per svariate ragioni appartiene agli strati più indigenti.
Egli taglia il concetto di popolo in classi (schema arcinoto), finendo con il sussumerlo sotto a una soltanto di esse:
i poveri (
riformulazione del concetto marxista di classe proletaria).
In questo modo, Bergoglio
non riesce a capire e a conoscere il popolo in quanto tale,
non certamente quello italiano (e, possiamo dire, europeo);
non ne conosce il recondito sentire, i bisogni autentici, la visione storica e l’intrinseca
polifonica unitarietà che lo unisce,
tutto, nella sua tradizione e nella sua esistenza storica.
Come può il
contadino italiano accettare anche soltanto l’ipotesi di qualcosa come la
comunizzazione della proprietà privata?
Come può Bergoglio ragionevolmente pensare che quello che Sandro Fontana ha elogiativamente definito “l’istinto proprietario” del contadino,
il quale con i consimili è sempre solidale,
possa conciliarsi con la forzatura criptomarxista e palesemente terzomondista
di una dottrina economica socialista amalgamata con un Cristianesimo comunisteggiante?
Quando quell’istinto proprietario originario e identitario si vede minacciato da una dottrina ecclesiastica
che lo vuole reprimere, reagisce, legittimamente, e lo scontro è inevitabile.
Il contadino, proprietario istintivo e ostinato, ma anche razionale, non sarebbe dunque “popolo”?
Allora questa posizione sarebbe analoga a quella sovietica nei confronti dei
kulaki:
la differenza è che i sovietici usarono nei confronti dei kulaki un trattamento di sterminio.
Ma pur con le più buone intenzioni, quella strada è impercorribile, non solo perché porta con sé sciagure economiche e sociali,
ma anche perché conduce al male, direttamente e inevitabilmente.
E per di più è una strada che il popolo in generale rifiuta.
Quindi Bergoglio si trova di fronte a un problema:
come fare per inculcare nel popolo
princìpi economico-sociali che esso respinge?
Se insiste troppo nell’azione di persuasione forzata, rischia di spezzare quel filo di collegamento che già è diventato ormai molto logoro;
se allenta e ammorbidisce troppo, rischia di non raggiungere l’obiettivo.
Quindi deve imboccare una terza via: procedere a una sorta di istituzionalizzazione di questa anomala dottrina economica,
promulgando un documento ufficiale che la esponga in maniera e in forma definitiva, facendola diventare – ma con un’imposizione d’autorità –
la nuova dottrina sociale della Chiesa.
A 130 anni dalla promulgazione della
Rerum Novarum di
Leone XIII, dell’enciclica cioè che dà fondazione e sistematicità alla Dottrina sociale,
l’ipotesi che l’attuale pontefice ne promulghi un’altra che riveda quella Dottrina e che di fatto la sostituisca, non è per nulla infondata.
Anzi, si annuncia come una logica conseguenza della visione economico-sociale di Bergoglio
e una pragmatica soluzione per debellare le resistenze che la
nuova dottrina, pienamente socialista e non più sociale,
incontra tra i cattolici di ogni parte del mondo.
Non c’è dunque speranza per i moltissimi cristiani che respingono questa radicalizzazione comunistica della Chiesa?
Un’opzione c’è, e andrebbe colta con determinazione e coraggio, a tutela non solo della Dottrina sociale della Chiesa ma anche del destino dei cristiani nella società.
Con tutto il rispetto, ma con tutta la legittimità di criticare – con onestà intellettuale – le tesi economico-sociali di Bergoglio,
va riaffermato il valore centrale del sistema capitalistico, la sua molteplice e pluralistica struttura di pensiero e di prassi,
nella quale i princìpi del liberalismo – ovviamente intesi non nel senso del liberalismo che ammirava la rivoluzione francese,
né in quello del libertinismo anarco-comunista sessantottino, né in quello del progressismo liberal della nostra epoca,
ma sotto la forma del liberismo economico e della libertà e dignità della persona, della libertà di impresa e di espressione,
di salvaguardia dell’identità e della tradizione della civiltà occidentale –, si coniugano con la difesa dei dieci Comandamenti,
con l’autonomia della religione, nella distinzione dei poteri ma nell’unione degli spiriti ovvero delle rispettive sfere spirituali
entro l’orizzonte della tradizione ebraico-cristiana.
Al di fuori di questo quadro liberale anti-progressista e liberista, conservatore e tradizionalista,
c’è soltanto l’inferno della società comunista (nel modello latinoamericano o in quello cinese, a seconda dei casi o delle preferenze)
o quanto meno il caos della società liquidata e disorientata in cui rischiamo di trovarci nel percorso verso la prima.
Dottrina sociale della Chiesa e liberalismo devono dunque trovare una
sintonia sul piano spirituale ed economico
esattamente come, sul piano politico, l’hanno trovata il conservatorismo e il liberalismo con il paradigma oggi sperimentato
e consolidato del liberalconservatorismo, nel quale si sono ritrovati esponenti di primissimo piano della Chiesa
come, per fare solo alcuni nomi eminenti, i cardinali
Camillo Ruini,
Raymond Leo Burke,
Giacomo Biffi,
Carlo Caffarra
e, prima di loro,
Stefan Wyszyński, campione di un anticomunismo razionale e inflessibile.
La sfida pauperista-comunista lanciata oggi a tutti i livelli non consente tentennamenti né equivoci, pena l’autodistruzione.