I dividendi non mentono, il resto è intrattenimento
(7/1/03) La parata di oggi apertasi con il discorso di Bush rimarrà, lo speriamo, uno degli ultimi grandiosi spettacoli di puro entertainment economico offertoci dai media nel corso degli ultimi anni. Negli show come quello di oggi si spalancano, agli occhi degli osservatori più attenti, tutti gli abissi di scarsa comprensione dei fenomeni economici che hanno caratterizzato gli anni novanta e che hanno portato, non a caso, all’insano ottimismo e alla mania speculativa più assurda di tutti i tempi.
Tralasciamo il discorso del Presidente, non privo di imprecisioni economiche, per concentrarci subito su alcuni punti fondamentali relativi all’effettiva validità dello stimolo economico sotteso al piano economico presentato oggi.
Il primo punto da considerare riguarda i costi di lungo termine dei tagli fiscali, stimati sui 670 B di dollari nell’arco di 10 anni. Purtroppo sono in pochissimi ad avere fatto luce adeguata su questa questione. Siccome a differenza di quello che si era arrivati a credere a fine millennio la ricchezza non cresce sugli schermi che quotano i prezzi del mercato azionario, il punto di partenza per cercare di valutare il piano economico è cercare di capire quali saranno i rischi e i costi associati, considerato che esso apporterà al deficit già ampio dello Stato un contributo di non lieve rilevanza.
Generalmente oggi questi interrogativi non sono stati né posti né discussi, un po’ come nel 1998-1999 quando si presumeva (erroneamente) che la New Economy portasse con sé solo molti benefici e nessun costo, o come nel periodo 2000-2002 e fino ad oggi dove i molti benefici e il nessun costo sono opera magica di tutti gli interventi di carattere monetario della banca centrale.
Come abbiamo più volte evidenziato il debito pubblico americano è da due anni in forte crescita. Gli USA in altre parole stanno già affrontando una situazione di deficit altamente emorragica e il piano di oggi, già nel breve termine, non fa che peggiorare lo stato delle cose, rendendo il deficit pubblico dei prossimi anni addirittura imbarazzante. Il rischio reale a fronte di uno stimolo così corposo è che, a seguito di un fallimento del piano stesso e/o di un cedimento significativo dei conti pubblici, i tassi di interesse possano cominciare a risalire destabilizzando la fragile struttura finanziaria americana. Contemporaneamente il peso del debito pubblico rischia di consumare progressivamente la fiducia degli stranieri detentori di attività finanziarie, fiducia senza cui, di fatto, gli USA rappresentano il debitore più grosso del mondo sulla soglia della bancarotta.
Alcuni commentatori che hanno riempito lo show economico di oggi, con le loro facce sorridenti da piazzisti di folletti (senza togliere alcuna dignità ai piazzisti di aspirapolveri, sempre che ne sia rimasto ancora qualcuno in circolazione risparmiato dal reclutamento dell'industria finanziaria) non vedono in questo alcun problema: il deficit si trasformerà in surplus, e il debito verrà quindi ridotto una volta che il piano avrà restituito i risultati attesi e l’economia in ripresa comincerà a versare nelle casse dello stato i proventi dovuti.
Mentre sognare ad occhi aperti è una cosa che generalmente contraddistingue le studentesse di liceo, soprattutto di fronte a un cantante rigorosamente omologato di una boyband, dei presunti esperti in economia di fronte a un piano di politica economica estremamente delicato dovrebbero essere muniti di una dose di realismo un po’ più palpabile.
Quale periodo migliore del boom terminato due anni fa (e che nella migliore delle ipotesi non si vedrà per almeno altri 15 anni) per rimettere in sesto i conti pubblici? Eppure se prendiamo qualunque grafico relativo all’andamento del debito pubblico degli ultimi 12 anni, non notiamo alcuna riduzione. Riportiamo solo tre date con tre cifre, reperibili al sito Public Debt Online:
09/28/1990 $3,233,313,451,777.25
09/30/1994 $4,692,749,910,013.32
09/29/2000 $5,674,178,209,886.86
dal 1994 al 2000 si sono avuti sei anni di boom come non si era mai visto, almeno in termini di bolla finanziaria che ne è scaturita, e il debito pubblico anzi che ridursi come dovrebbe succedere nelle fasi di espansione è aumentato di ben 982 B di dollari, spicciolo più spicciolo meno. Circa il +21%, quando invece, coerentemente ai rosei discorsi di oggi, sarebbe dovuto diminuire drasticamente. Sempre meglio del +45% nei quattro anni dal 1990 al 1994 ma niente a che vedere con una riduzione del debito pubblico.
Il surplus presentato negli anni dall’amministrazione Clinton, che sarà rimasto ancora nella memoria di qualcuno (cartella: “abbagli imperdonabili”, sottocartella: “miracolo economico americano”), non è mai esistito perché era puramente contabile e riconducibile per intero al fondo della Social Security.
Di fatto nella realtà delle ultime decadi anni il debito pubblico è aumentato moderatamente negli anni di boom, accelerato negli anni di rallentamento ed esploso in quelli di crisi come quelli attuali. E prima che i benefici della ripresa riescano a riportare indietro i soldi “investiti” nel piano fiscale presentato oggi, crediamo che presumibilmente esso continuerà a crescere a ritmi esponenziali anche nel prossimo futuro.
In tutto ciò il debito pubblico oggi è considerato da molti “risk-free”, privo di rischio. Talmente risk free che di fatto rappresenta quasi una nuova moneta. Non solo, più si espande e più scendono i tassi di interesse remunerati al portatore (quello che sta accadendo da diversi anni). Un giorno potrebbe addirittura fare parte della M3 come aggregato monetario. A cui segue un’altra nostra provocazione estemporanea: la prossima innovazione di ingegneria finanziaria potrebbe essere una carta di credito emessa sul debito di stato che si ha in portafoglio e garantita dallo stesso. Sarebbe il boom economico per l’Italia e il Giappone (basato sui consumi ovviamente). La vera manna dal cielo.
No! Le cose non stanno esattamente così. Nonostante nella pratica della cartolarizzazione dei debiti si raggiungano spesso i medesimi risultati paradossali appena esposti, un’economia sana non può funzionare correttamente su queste assunzioni e su queste errate percezioni. In questa maniera funziona ciò che Doug Noland nel suo ultimo pezzo del Credit Bubble Bullettin (
www.prudentbear.com ) ha definito meravigliosamente “Structured Finance Monetary Regime”, appunto l’economia della Credit Bubble che caratterizza il sistema economico americano, e in buona parte anche quello europeo, e che rischia di condurci alla crisi finanziaria di più grande portata delle ultime decadi.
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Passiamo al secondo punto sul quale si è concentrata la maggior parte dei dibattiti odierni: l’abolizione della doppia tassazione sui dividendi. Finalmente un provvedimento che riteniamo molto interessante. Peccato che, per il raggiungimento degli obiettivi sperati, arrivi con un ritardo praticamente incolmabile.
La doppia tassazione dei dividendi di fatto ha spinto le aziende, nel corso degli anni ottanta novanta, ad assumere molto debito, sfruttando al massimo, e anche oltre il massimo, la propria leva finanziaria. Di recente con la New Economy ha stimolato la vasta diffusione degli incentivi offerti attraverso i piani di stock options ai dirigenti, alcuni dei quali si sono rivelati vere e proprie frodi e molti dei quali hanno un costo per gli azionisti esterni che deve ancora essere incorporato nel prezzo del titolo.
Il danno è fatto, ciò nonostante il provvedimento arriva come una splendida opportunità per i mercati azionari, perché essi possano riuscire finalmente a trovare delle quotazioni più consone agli utili realmente prodotti e non a quelli abilmente camuffati. Nel medio lungo periodo, senza lo schermo della tassazione, la realtà più trasparente dei numeri reali che caratterizzano le società quotate dovrebbe essere in grado di far prezzare meglio il loro valore di borsa. Questo è il nostro auspicio.
Nonostante sulla scia dell’abolizione attesa le aspettative in termini di impatto sulle quotazioni azionarie siano tutte positive, siamo dell’idea che salvo qualche operazione di arbitraggio tesa a sfruttare le poche opportunità di acquisto attualmente presenti, e ovviamente qualche strascico della solita insana euforia che ha caratterizzato l’inizio del 2003, l’esiguità dei dividendi veramente distribuibili come frutto di un utile realmente prodotto costantemente nel tempo riuscirà a schiacciare i prezzi verso quei minimi accettabili da un investitore cosciente di assumere, con l’investimento azionario, un rischio di impresa e non (erroneamente) un rischio di credito, peraltro relativamente molto basso.
Il prezzo di un’azienda, molti lo avranno dimenticato, corrisponde alla sommatoria attualizzata degli utili futuri. La tassazione degli utili ha spinto le aziende a cercare una migliore combinazione tra capitale proprio e di terzi nell’assunzione ed esposizione a un debito crescente. Nel corso degli anni il risultato ottenuto è che moltissime aziende hanno bilanci disastrati, sui quali la voce interessi per debiti pesa e peserà ancora in maniera massiccia. Il cambiamento della tassazione dei dividenti potrà spingere molte imprese a riformulare le proprie strategie di finanza aziendale, e quindi a rimborsare anche parte del debito in essere, ma di fatto nel breve termine non altera il valore finale dell’azienda che rimane, al di là delle diverse combinazioni, principalmente nella propria capacità di produrre utili, non di distribuire dividendi.
L’S&P distribuisce attualmente utili pari all’1,75%. Un valore storicamente basso e imputato proprio alla doppia tassazione. A meno di attingere dalle riserve di cash gli utili distribuiti rappresentano già ben il 53% di quelli totali realmente prodotti. Nella ipotesi estrema e improbabile di totale distribuzione degli utili, il dividend yield potrebbe salire al 3,5%. Quello che di solito caratterizza i picchi da bolla di un mercato azionario. Decisamente troppo poco per giustificare i prezzi attuali. Fare ricorso alle riserve di cash sarebbe comunque un provvedimento temporaneo in grado di sottrarre le risorse necessarie ai futuri investimenti.
In altre parole, se non saliranno gli utili in modo da offrire un dividend yield più elevato dovranno scendere i prezzi.
Un -50% di S&P500 sarebbe in grado di restituire, a utili invariati, un dividend yield del 3.5%, un rendimento ancora molto basso, specialmente se considerato in termini assoluti (quelli di un investimento azionario) e non relativi all’investimento risk-free, di per sé poco privo di significato, soprattutto nel contesto della bubble economy.
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Ultimo punto del piano fiscale meritevole di attenzione: non si prevedono aiuti per gli Stati in difficoltà finanziarie. Molti Stati americani come abbiamo già messo in evidenza qualche giorno fa, stanno affrontando la peggiore crisi finanziaria degli ultimi 50 anni e finiranno per scaricare i costi dei propri deficit direttamente sui cittadini, tramite una serie di imposte locali che neutralizzerà molti degli effetti positivi previsti dal piano di Bush.
Nonostante tutto il gran clamore fatto oggi per ravvivare le speranze, quindi, la realtà è che di fronte alla grave situazione economica attuale, ben peggiore di quella degli USA alla vigilia del crash del 1929, il piano presentato da Bush non potrà fare il miracolo di rigirare un’economia di 10 trilioni di dollari, schiacciata da oltre 30 trilioni di debiti, e alla ricerca disperata di equilibri macroeconomici stabili e sostenibili.
Dopo quasi 2 trilioni di dollari distribuiti negli ultimi due anni dalla politica monetaria di Greenspan, il programma di tagli fiscali, a spese di uno Stato sempre più indebitato, difficilmente potrà raggiungere gli obiettivi promessi.
Tanto meno riuscirà a lanciare un boom economico di lunga durata o a far sorgere un nuovo mercato toro sulla base di quotazioni ancora estremamente sopravvalutate, facendo peraltro leva sulla totale messa a nudo dei miseri profitti delle aziende quotate in borsa.
Lo staff di
http://www.usemlab.com/html/commenti/archivio_commenti/corporate/CR_03_01_07.htm