Sharnin 2
Forumer storico
Il maxipiano è necessario, ma non basta
Alfonso Tuor
Il maxipiano da almeno 700 miliardi di dollari per salvare il settore finanziario è necessario, ma non sufficiente. In pratica, potrà dare un sospiro di sollievo ai mercati, ma non risolvere la crisi finanziaria. Di ciò stanno prendendo atto anche le borse, dove ieri è già svanita l’euforia di venerdì scorso, e soprattutto il mercato interbancario, monetario e dei capitali, dove tranne per le scadenze a brevissimo termine non vi è stato un significativo allentamento della tensione.
L’intento del piano elaborato dalle autorità americane è chiaro: fare acquistare a questo fondo statale le attività illiquide detenute dalle banche. Quindi non solo i titoli legati in qualche modo al mercato immobiliare, ma anche quelli in cui sono stati impacchettati i debiti delle carte di credito, i prestiti per gli acquisti delle automobili, i leasing e tutti quegli strumenti creati dalla nuova ingegneria finanziaria che non hanno più mercato. In pratica, una grande discarica in cui convogliare parte della carta straccia stampata da Wall Street negli ultimi anni. Trasferendo questi titoli «spazzatura» allo Stato, non si spera di ripulire i bilanci delle banche, poiché ci vorrebbero ben più di 700 miliardi di dollari, ma di ricreare un mercato di queste attività, ossia un prezzo che oggi non esiste. Ciò dovrebbe permettere, da un canto, di alleggerire le posizioni degli istituti sull’orlo del collasso e, dall’altro, di ridare tempo al sistema di smaltire le perdite.
Affinché questa operazione abbia qualche possibilità di successo, sono indispensabili alcuni ingredienti, che per il momento non si vedono in circolazione: la fiducia nel sistema bancario (che non esiste nemmeno tra le stesse banche, le quali non si prestano più soldi l’una con l’altra) e acquirenti degli strumenti tossici creati da Wall Street, causa principale della crisi attuale. È quindi prevedibile che questi siano solo i primi 700 miliardi di dollari spesi per salvare il sistema finanziario. La fattura per i contribuenti sarà ben più salata. Del resto questo piano è stato ideato e verrà gestito dal ministro Henry Paulson, che fino a due anni fa era il numero uno della banca d’investimento Goldman Sachs e quindi uno dei corresponsabili della crisi attuale. Il ruolo centrale di Henry Paulson, da un canto, deve dare fiducia, poiché conosce perfettamente i meccanismi della nuova ingegneria finanziaria, essendone stato uno dei massimi alfieri, dall’altro, deve preoccupare poiché l’intento è di salvare in primo luogo gli amici di Wall Street e anche il valore del suo pacchetto azionario nella Goldman Sachs. Non a caso Henry Paulson si sta opponendo fermamente alla proposta democratica di inserire nel pacchetto un limite alle remunerazioni plurimilionarie dei manager delle banche che verranno aiutate. Inoltre, alcuni dei giornali economici più importanti (come il Financial Times) sottolineano che sarebbe stato molto più efficace e meno dispendioso per lo Stato nazionalizzare gli istituti in difficoltà, come del resto è già stato fatto la settimana scorsa con la compagnia assicurativa AIG.
Ma c’è di più. Il modello seguito avrebbe qualche possibilità di successo se la crisi del mercato immobiliare fosse alla fine e se l’economia americana fosse in una fase di crescita. La realtà è un’altra: i prezzi degli immobili continuano a scendere e i pignoramenti di case a salire, così come il numero di case vuote. L’economia americana sta cadendo in una recessione che si prospetta molto severa. Dunque questi 700 miliardi di dollari non bastano. Nelle prossime settimane questa cifra aumenterà notevolmente.
Il Partito democratico condiziona l’approvazione del piano di Paulson al varo entro la fine del mese di un pacchetto di rilancio dell’economia, fatto di grandi investimenti pubblici, e all’approvazione di un prestito a tassi agevolati alle tre grandi case automobilistiche di Detroit, anch’esse in condizioni finanziarie molto precarie. I democratici vogliono anche dare ai giudici fallimentari poteri speciali per costringere a ridurre l’ammontare del capitale ricevuto in prestito dei mutui e/o i tassi ipotecari pagati dalle famiglie che posseggono una casa il cui valore di mercato è inferiore al mutuo contratto. Questa proposta è fermamente avversata sia da Paulson sia dalle banche. Dunque il Congresso approverà sicuramente entro la fine della settimana questo piano, che però molto probabilmente comporterà ulteriori spese per lo Stato.
La conseguenza è la prevista esplosione del debito pubblico americano fino a 11.300 miliardi di dollari, debito che è destinato a superare presto il 100% del Pil statunitense. Ciò non costituirebbe un problema eccessivamente grave, se gli americani avessero un risparmio interno sufficiente per finanziare questo debito. Ma questo crescente debito pubblico dovrà essere finanziato dagli stranieri, ossia da cinesi, giapponesi, arabi. Non è casuale che ieri mattina il presidente americano Georges Bush si sia intrattenuto al telefono per oltre un’ora con il presidente cinese Hu Jintao, il quale gli avrebbe assicurato il sostegno di Pechino. L’aiuto della Cina e degli altri paesi appare certo. È però chiaro che non verrà concesso senza contropartite anche di carattere politico. Meno certa è invece la reazione degli stessi investitori americani ed è dunque legittimo domandarsi fino a quando essi continueranno ad aver fiducia in un dollaro che tendenzialmente è destinato ad indebolirsi, che si regge grazie al sostegno dei paesi stranieri, e in primis della Cina, e che è diventato quasi il simbolo del declino americano.
In conclusione, il maxipiano elaborato dal ministro del tesoro americano, Henry Paulson, è indispensabile e ha già ottenuto un primo successo: ha evitato che si consumasse già durante questa fine settimana il collasso del sistema finanziario. Esso non è comunque sufficiente a superare la crisi. È dunque prevedibile che il conto finale sarà ben più salato dei 700 miliardi di dollari che il Congresso americano si appresta a stanziare.
22/09/2008 18:55
Alfonso Tuor
Il maxipiano da almeno 700 miliardi di dollari per salvare il settore finanziario è necessario, ma non sufficiente. In pratica, potrà dare un sospiro di sollievo ai mercati, ma non risolvere la crisi finanziaria. Di ciò stanno prendendo atto anche le borse, dove ieri è già svanita l’euforia di venerdì scorso, e soprattutto il mercato interbancario, monetario e dei capitali, dove tranne per le scadenze a brevissimo termine non vi è stato un significativo allentamento della tensione.
L’intento del piano elaborato dalle autorità americane è chiaro: fare acquistare a questo fondo statale le attività illiquide detenute dalle banche. Quindi non solo i titoli legati in qualche modo al mercato immobiliare, ma anche quelli in cui sono stati impacchettati i debiti delle carte di credito, i prestiti per gli acquisti delle automobili, i leasing e tutti quegli strumenti creati dalla nuova ingegneria finanziaria che non hanno più mercato. In pratica, una grande discarica in cui convogliare parte della carta straccia stampata da Wall Street negli ultimi anni. Trasferendo questi titoli «spazzatura» allo Stato, non si spera di ripulire i bilanci delle banche, poiché ci vorrebbero ben più di 700 miliardi di dollari, ma di ricreare un mercato di queste attività, ossia un prezzo che oggi non esiste. Ciò dovrebbe permettere, da un canto, di alleggerire le posizioni degli istituti sull’orlo del collasso e, dall’altro, di ridare tempo al sistema di smaltire le perdite.
Affinché questa operazione abbia qualche possibilità di successo, sono indispensabili alcuni ingredienti, che per il momento non si vedono in circolazione: la fiducia nel sistema bancario (che non esiste nemmeno tra le stesse banche, le quali non si prestano più soldi l’una con l’altra) e acquirenti degli strumenti tossici creati da Wall Street, causa principale della crisi attuale. È quindi prevedibile che questi siano solo i primi 700 miliardi di dollari spesi per salvare il sistema finanziario. La fattura per i contribuenti sarà ben più salata. Del resto questo piano è stato ideato e verrà gestito dal ministro Henry Paulson, che fino a due anni fa era il numero uno della banca d’investimento Goldman Sachs e quindi uno dei corresponsabili della crisi attuale. Il ruolo centrale di Henry Paulson, da un canto, deve dare fiducia, poiché conosce perfettamente i meccanismi della nuova ingegneria finanziaria, essendone stato uno dei massimi alfieri, dall’altro, deve preoccupare poiché l’intento è di salvare in primo luogo gli amici di Wall Street e anche il valore del suo pacchetto azionario nella Goldman Sachs. Non a caso Henry Paulson si sta opponendo fermamente alla proposta democratica di inserire nel pacchetto un limite alle remunerazioni plurimilionarie dei manager delle banche che verranno aiutate. Inoltre, alcuni dei giornali economici più importanti (come il Financial Times) sottolineano che sarebbe stato molto più efficace e meno dispendioso per lo Stato nazionalizzare gli istituti in difficoltà, come del resto è già stato fatto la settimana scorsa con la compagnia assicurativa AIG.
Ma c’è di più. Il modello seguito avrebbe qualche possibilità di successo se la crisi del mercato immobiliare fosse alla fine e se l’economia americana fosse in una fase di crescita. La realtà è un’altra: i prezzi degli immobili continuano a scendere e i pignoramenti di case a salire, così come il numero di case vuote. L’economia americana sta cadendo in una recessione che si prospetta molto severa. Dunque questi 700 miliardi di dollari non bastano. Nelle prossime settimane questa cifra aumenterà notevolmente.
Il Partito democratico condiziona l’approvazione del piano di Paulson al varo entro la fine del mese di un pacchetto di rilancio dell’economia, fatto di grandi investimenti pubblici, e all’approvazione di un prestito a tassi agevolati alle tre grandi case automobilistiche di Detroit, anch’esse in condizioni finanziarie molto precarie. I democratici vogliono anche dare ai giudici fallimentari poteri speciali per costringere a ridurre l’ammontare del capitale ricevuto in prestito dei mutui e/o i tassi ipotecari pagati dalle famiglie che posseggono una casa il cui valore di mercato è inferiore al mutuo contratto. Questa proposta è fermamente avversata sia da Paulson sia dalle banche. Dunque il Congresso approverà sicuramente entro la fine della settimana questo piano, che però molto probabilmente comporterà ulteriori spese per lo Stato.
La conseguenza è la prevista esplosione del debito pubblico americano fino a 11.300 miliardi di dollari, debito che è destinato a superare presto il 100% del Pil statunitense. Ciò non costituirebbe un problema eccessivamente grave, se gli americani avessero un risparmio interno sufficiente per finanziare questo debito. Ma questo crescente debito pubblico dovrà essere finanziato dagli stranieri, ossia da cinesi, giapponesi, arabi. Non è casuale che ieri mattina il presidente americano Georges Bush si sia intrattenuto al telefono per oltre un’ora con il presidente cinese Hu Jintao, il quale gli avrebbe assicurato il sostegno di Pechino. L’aiuto della Cina e degli altri paesi appare certo. È però chiaro che non verrà concesso senza contropartite anche di carattere politico. Meno certa è invece la reazione degli stessi investitori americani ed è dunque legittimo domandarsi fino a quando essi continueranno ad aver fiducia in un dollaro che tendenzialmente è destinato ad indebolirsi, che si regge grazie al sostegno dei paesi stranieri, e in primis della Cina, e che è diventato quasi il simbolo del declino americano.
In conclusione, il maxipiano elaborato dal ministro del tesoro americano, Henry Paulson, è indispensabile e ha già ottenuto un primo successo: ha evitato che si consumasse già durante questa fine settimana il collasso del sistema finanziario. Esso non è comunque sufficiente a superare la crisi. È dunque prevedibile che il conto finale sarà ben più salato dei 700 miliardi di dollari che il Congresso americano si appresta a stanziare.
22/09/2008 18:55