Sharnin 2
Forumer storico
L'uscita dal tunnel è lontana
Banche apparentemente risanate e economia che boccheggia
15 lug 2009
di ALFONSO TUOR
I «germogli verdi», ossia i primi segnali di ripresa dell’economia, intravisti da alcuni analisti di Wall Street, si stanno rivelando un miraggio. Negli Stati Uniti si è aperto il dibattito sulla necessità di un secondo pacchetto di stimolo dell’economia all’indomani dei pessimi dati sulla situazione di un mercato del lavoro che in giugno ha registrato la soppressione di altri 467 mila impieghi. Il dibattito è stato lanciato dall’economista Laura Tyson, che fa parte del consiglio economico della Casa Bianca, e dal vicepresidente Joe Biden. È stato poi rilanciato dal premio Nobel per l’economia Paul Krugman, il quale sulle colonne del «New York Times» ha accusato l’amministrazione Obama di aver sottovalutato e di continuare a sottovalutare la gravità della crisi. L’inizio di questo dibattito spinge ad alcune considerazioni.
In primo luogo, la ripresa dell’economia americana non è all’orizzonte e ciò vale anche per l’economia europea. Gli interventi delle banche centrali (riduzione dei tassi di interesse e stampa di moneta) e i pacchetti fiscali di stimolo hanno evitato il collasso del sistema finanziario e ora stanno solo rallentando il ritmo di contrazione dell’economia. Uno studio di due noti economisti, Barry Eichengreen di Berkeley e Kevin O’Rourke, mette in luce che questa crisi sta seguendo pari pari quanto successo all’inizio della Grande Depressione degli anni Trenta. Più precisamente, il calo della produzione industriale è uguale a quello del primo anno di quella grave crisi negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e in Germania. La diminuzione è maggiore in Francia e in Italia ed è addirittura di molto superiore in Giappone. Inoltre, il commercio internazionale si è contratto di più e le borse hanno perso più terreno. Tutto ciò nonostante interventi delle autorità monetarie e di quelle politiche di dimensioni nettamente superiori a quelli degli anni Trenta.
In secondo luogo, non deve sorprendere l’inefficacia dei massicci interventi delle autorità politiche e di quelle monetarie nel risolvere la crisi. Oggi non si ha a che fare con una recessione di tipo tradizionale, ma con una crisi originata dallo scoppio di un’enorme bolla creditizia, la cui crescita è stata favorita, in principal modo, dalla deregolamentazione del settore finanziario e dalla diffusione degli strumenti della nuova ingegneria finanziaria. L’altra faccia della medaglia di un eccesso di credito è un eccesso di indebitamento. Se prendiamo in considerazione il caso degli Stati Uniti, questa montagna di debiti è stata solo marginalmente erosa, poiché gli interventi della Federal Reserve e dell’amministrazione non sono stati tesi a sostenere le famiglie e le imprese indebitate, ma ad evitare che la crescita esponenziale della sfiducia nei confronti dei titoli in cui erano stati impacchettati questi debiti travolgesse il settore finanziario.
Il risultato di queste politiche è sconsolante: il vero stato di salute delle banche (la loro solvibilità) non è migliorato, ma esse appaiono risanate, poiché sono piene di liquidità fornita a costi bassissimi dalle banche centrali e poiché sono state cambiate le regole di contabilizzazione dei titoli tossici. Ciò vale anche per Eurolandia, dove una decina di giorni orsono la Banca centrale europea ha fornito oltre 400 miliardi di euro all’1% per un anno in cambio di garanzie di titoli di dubbia qualità. In parole chiare, ciò vuol dire alleggerire i bilanci bancari per un anno di titoli di dubbio valore in cambio di contante (ossia di liquidità) oggi di grande valore. Sia in Europa sia negli Stati Uniti queste politiche non hanno favorito la riapertura dell’accesso al credito bancario da parte di imprese e famiglie. E ovviamente non hanno neppure migliorato la posizione delle imprese e delle famiglie indebitate, che invece continua a peggiorare a causa dell’aggravarsi della crisi economica.
L’inefficacia di queste politiche in relazione alla crisi economica, inefficacia che ora comincia ad emergere in tutta chiarezza, è dovuta al fatto che esse sono state concepite con l’obiettivo di salvare il sistema finanziario dal tracollo. Hanno quindi trascurato i gravi problemi dell’economia reale. Oggi si ha quindi il paradosso di banche apparentemente risanate e di un’economia che invece continua a boccheggiare. Molto probabilmente, visto il peso politico del settore finanziario, questa impostazione degli interventi delle banche centrali e dei Governi non è destinata a mutare. All’orizzonte si profilano chiaramente due possibili scenari.
Il primo è che le banche centrali e i Governi continuino, come hanno fatto finora, a cercare di limitare i danni della crisi. Si prospetta in questo caso un lungo periodo di contrazione dell’economia e di calo generalizzato dei prezzi e dei salari, ossia di deflazione. In parole semplici, è la prospettiva di una ripetizione dell’esperienza giapponese costellata da ripetuti pacchetti di rilancio dell’economia e da continue iniezioni di liquidità della banca centrale, che però non sono bastati a rimettere l’economia nipponica su un sentiero di crescita duratura. Il minor grado di indebitamento delle famiglie dei principali Paesi europei e i condivisibili e giustificati timori tedeschi di inflazione inducono a ritenere che questo sia lo scenario più probabile in Europa continentale.
Il secondo scenario è quello dell’iperinflazione (non dell’inflazione). Esso corrisponde ai bisogni degli Stati Uniti e della Gran Bretagna. La mancata ripresa americana aumenterà le spinte deflazionistiche (già si prevede che negli Stati Uniti i salari diminuiranno del 2% nei prossimi mesi). Le autorità politiche e monetarie non possono permettersi che si ingranino nell’economia delle aspettative deflazionistiche che renderebbero impossibile l’erosione del debito accumulato da famiglie, imprese e Stato federale. Saranno quindi indotte a perseguire una politica che crei inflazione e anche nuove bolle finanziarie. La continua contrazione dell’economia non rende possibile l’affermazione di aspettative inflazionistiche e di un’inflazione «sana» e contenuta, che può essere solo il frutto di una ripresa della crescita economica. Pertanto è probabile che la banca centrale americana sia costretta a stampare a ritmo crescente moneta, creando prima nuove bolle finanziarie e poi l’iperinflazione. La crisi è purtroppo solo ancora alle battute iniziali.
Banche apparentemente risanate e economia che boccheggia
15 lug 2009
di ALFONSO TUOR
I «germogli verdi», ossia i primi segnali di ripresa dell’economia, intravisti da alcuni analisti di Wall Street, si stanno rivelando un miraggio. Negli Stati Uniti si è aperto il dibattito sulla necessità di un secondo pacchetto di stimolo dell’economia all’indomani dei pessimi dati sulla situazione di un mercato del lavoro che in giugno ha registrato la soppressione di altri 467 mila impieghi. Il dibattito è stato lanciato dall’economista Laura Tyson, che fa parte del consiglio economico della Casa Bianca, e dal vicepresidente Joe Biden. È stato poi rilanciato dal premio Nobel per l’economia Paul Krugman, il quale sulle colonne del «New York Times» ha accusato l’amministrazione Obama di aver sottovalutato e di continuare a sottovalutare la gravità della crisi. L’inizio di questo dibattito spinge ad alcune considerazioni.
In primo luogo, la ripresa dell’economia americana non è all’orizzonte e ciò vale anche per l’economia europea. Gli interventi delle banche centrali (riduzione dei tassi di interesse e stampa di moneta) e i pacchetti fiscali di stimolo hanno evitato il collasso del sistema finanziario e ora stanno solo rallentando il ritmo di contrazione dell’economia. Uno studio di due noti economisti, Barry Eichengreen di Berkeley e Kevin O’Rourke, mette in luce che questa crisi sta seguendo pari pari quanto successo all’inizio della Grande Depressione degli anni Trenta. Più precisamente, il calo della produzione industriale è uguale a quello del primo anno di quella grave crisi negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e in Germania. La diminuzione è maggiore in Francia e in Italia ed è addirittura di molto superiore in Giappone. Inoltre, il commercio internazionale si è contratto di più e le borse hanno perso più terreno. Tutto ciò nonostante interventi delle autorità monetarie e di quelle politiche di dimensioni nettamente superiori a quelli degli anni Trenta.
In secondo luogo, non deve sorprendere l’inefficacia dei massicci interventi delle autorità politiche e di quelle monetarie nel risolvere la crisi. Oggi non si ha a che fare con una recessione di tipo tradizionale, ma con una crisi originata dallo scoppio di un’enorme bolla creditizia, la cui crescita è stata favorita, in principal modo, dalla deregolamentazione del settore finanziario e dalla diffusione degli strumenti della nuova ingegneria finanziaria. L’altra faccia della medaglia di un eccesso di credito è un eccesso di indebitamento. Se prendiamo in considerazione il caso degli Stati Uniti, questa montagna di debiti è stata solo marginalmente erosa, poiché gli interventi della Federal Reserve e dell’amministrazione non sono stati tesi a sostenere le famiglie e le imprese indebitate, ma ad evitare che la crescita esponenziale della sfiducia nei confronti dei titoli in cui erano stati impacchettati questi debiti travolgesse il settore finanziario.
Il risultato di queste politiche è sconsolante: il vero stato di salute delle banche (la loro solvibilità) non è migliorato, ma esse appaiono risanate, poiché sono piene di liquidità fornita a costi bassissimi dalle banche centrali e poiché sono state cambiate le regole di contabilizzazione dei titoli tossici. Ciò vale anche per Eurolandia, dove una decina di giorni orsono la Banca centrale europea ha fornito oltre 400 miliardi di euro all’1% per un anno in cambio di garanzie di titoli di dubbia qualità. In parole chiare, ciò vuol dire alleggerire i bilanci bancari per un anno di titoli di dubbio valore in cambio di contante (ossia di liquidità) oggi di grande valore. Sia in Europa sia negli Stati Uniti queste politiche non hanno favorito la riapertura dell’accesso al credito bancario da parte di imprese e famiglie. E ovviamente non hanno neppure migliorato la posizione delle imprese e delle famiglie indebitate, che invece continua a peggiorare a causa dell’aggravarsi della crisi economica.
L’inefficacia di queste politiche in relazione alla crisi economica, inefficacia che ora comincia ad emergere in tutta chiarezza, è dovuta al fatto che esse sono state concepite con l’obiettivo di salvare il sistema finanziario dal tracollo. Hanno quindi trascurato i gravi problemi dell’economia reale. Oggi si ha quindi il paradosso di banche apparentemente risanate e di un’economia che invece continua a boccheggiare. Molto probabilmente, visto il peso politico del settore finanziario, questa impostazione degli interventi delle banche centrali e dei Governi non è destinata a mutare. All’orizzonte si profilano chiaramente due possibili scenari.
Il primo è che le banche centrali e i Governi continuino, come hanno fatto finora, a cercare di limitare i danni della crisi. Si prospetta in questo caso un lungo periodo di contrazione dell’economia e di calo generalizzato dei prezzi e dei salari, ossia di deflazione. In parole semplici, è la prospettiva di una ripetizione dell’esperienza giapponese costellata da ripetuti pacchetti di rilancio dell’economia e da continue iniezioni di liquidità della banca centrale, che però non sono bastati a rimettere l’economia nipponica su un sentiero di crescita duratura. Il minor grado di indebitamento delle famiglie dei principali Paesi europei e i condivisibili e giustificati timori tedeschi di inflazione inducono a ritenere che questo sia lo scenario più probabile in Europa continentale.
Il secondo scenario è quello dell’iperinflazione (non dell’inflazione). Esso corrisponde ai bisogni degli Stati Uniti e della Gran Bretagna. La mancata ripresa americana aumenterà le spinte deflazionistiche (già si prevede che negli Stati Uniti i salari diminuiranno del 2% nei prossimi mesi). Le autorità politiche e monetarie non possono permettersi che si ingranino nell’economia delle aspettative deflazionistiche che renderebbero impossibile l’erosione del debito accumulato da famiglie, imprese e Stato federale. Saranno quindi indotte a perseguire una politica che crei inflazione e anche nuove bolle finanziarie. La continua contrazione dell’economia non rende possibile l’affermazione di aspettative inflazionistiche e di un’inflazione «sana» e contenuta, che può essere solo il frutto di una ripresa della crescita economica. Pertanto è probabile che la banca centrale americana sia costretta a stampare a ritmo crescente moneta, creando prima nuove bolle finanziarie e poi l’iperinflazione. La crisi è purtroppo solo ancora alle battute iniziali.