Sharnin 2
Forumer storico
Ora si sente una ricaduta pesante
Crescono i timori sugli sviluppi dell'economia mondiale
8 giu 2010
di ALFONSO TUOR
Crescono i timori sulle prospettive dell’economia mondiale. Fino a poco tempo fa queste paure si concentravano sull’Europa alle prese con la crisi greca e quella della moneta unica, ora si estendono agli Stati Uniti dopo la pubblicazione venerdì scorso dei dati sulla situazione del mercato del lavoro. Nel mese di maggio il numero degli occupati è salito di 431 mila unità grazie all’impiego a tempo parziale di 411 mila persone per realizzare il censimento, ma il settore privato statunitense ha creato solo 41 mila nuovi posti di lavoro, ossia molto meno delle aspettative. Ma c’è di più. Mentre il tasso di disoccupazione ufficiale è sceso al 9,7%, quello reale, che include anche le persone occupate a tempo parziale e quelle che hanno cercato senza successo un lavoro nell’ultimo anno, si aggira attorno al 17%. Queste crude cifre confermano che anche la presunta ripresa dell’economia americana, che nel quarto trimestre dell’anno scorso ha visto il PIL crescere del 6%, sta perdendo vistosamente vigore. Il rimbalzo dell’economia a stelle e strisce non era il segnale precursore dell’uscita dalla crisi, ma il frutto delle eccezionali politiche monetarie e fiscali varate per rilanciare l’economia e della ricostituzione delle scorte da parte di aziende che le avevano drasticamente ridotte alla fine del 2008 e nei primi mesi del 2009.
Questa realtà contribuisce a spiegare le crescenti preoccupazioni dell’amministrazione Obama per la crisi dell’Europa, per l’indebolimento dell’euro e per le misure di austerità che stanno varando i Paesi europei. A Washington si teme che l’economia di Eurolandia, cresciuta di un anemico 0,2% nel primo trimestre di quest’anno, ripiombi in recessione e che il deprezzamento dell’euro incida negativamente sulle esportazioni americane. Si teme soprattutto che i segnali di crescente debolezza dell’economia a stelle e strisce, combinati con le politiche fiscali restrittive dei Paesi europei e con quelle adottate (per altri motivi) da alcuni grandi Paesi emergenti, provochino una ricaduta dell’economia mondiale nella crisi. Una simile evenienza, che appare sempre più probabile, rafforzerebbe le pressioni deflazionistiche, che stanno già corrodendo le economie occidentali, e farebbe riesplodere la crisi del debito, ossia del sistema bancario. Inoltre il livello raggiunto dall’indebitamento pubblico in Europa e negli Stati Uniti ridurrebbe le possibilità di intervento degli Stati, lasciando unicamente spazio alla stampa di moneta da parte delle banche centrali.
I segnali poco incoraggianti che provengono dall’economia reale si aggiungono al forte aumento delle tensioni per il settore bancario europeo. Gli istituti di credito hanno ricominciato a non fidarsi l’uno dell’altro e quindi non si prestano i soldi, ma li depositano presso la Banca centrale europea: venerdì scorso è stata raggiunta la cifra primato di 351 miliardi di euro. In queste condizioni non sorprende che per gli istituti di credito costi sempre più finanziarsi sul mercato interbancario. Anche sul mercato dei capitali per le banche europee è difficile rifinanziarsi: stando a quanto ha comunicato la BCE, ancora nello scorso mese di aprile il 45% delle obbligazioni emesse dalle banche beneficiava di una garanzia statale.
Il problema del rifinanziamento delle banche europee è talmente grave che Germania, Olanda, Grecia e Svezia hanno già chiesto a Bruxelles di poter continuare a garantire le obbligazioni emesse dalle banche dopo la fine di giugno (che sarebbe dovuta essere la scadenza ultima di questo programma varato nell’autunno del 2008 nel pieno della crisi finanziaria). Questa sfiducia è fondata, poiché la stessa Banca Centrale Europea stima che gli istituti di credito di Eurolandia, che non riescono più a guadagnare con le attività bancarie tradizionali, siano costretti a far emergere almeno altri 195 miliardi di euro di perdite nascoste nei loro bilanci. Insomma si è ritornati al clima che aveva preceduto il fallimento della Lehman Brothers. Anche perché la crisi fiscale degli Stati europei deboli è lungi dall’essere superata e i forzieri delle banche europee straripano di titoli pubblici. In Spagna e in altri Paesi rischia di prodursi il paradosso di un debito pubblico che continua a crescere nonostante le misure di risparmio. È quanto già è previsto da Bruxelles e dal Fondo Monetario Internazionale per la Grecia, il cui debito pubblico salirà nel giro di tre anni dall’attuale 120% al 150% del PIL.
La ricaduta dell’economia e il rischio della deflazione in recessione non faranno altro che esaltare la causa di questa crisi, che è un eccesso di indebitamento sia del settore pubblico sia di quello privato. E una crisi del debito può essere risolta solo in due modi: con una forte inflazione, che erode il valore reale del debito (che oggi appare altamente improbabile) oppure con una sua ristrutturazione. In pratica seguendo gli insegnamenti di un detto napoletano, che suona così: «Chi ha dato, ha dato; chi ha avuto ha avuto. Scordiamoci il passato».
Crescono i timori sugli sviluppi dell'economia mondiale
8 giu 2010
di ALFONSO TUOR
Crescono i timori sulle prospettive dell’economia mondiale. Fino a poco tempo fa queste paure si concentravano sull’Europa alle prese con la crisi greca e quella della moneta unica, ora si estendono agli Stati Uniti dopo la pubblicazione venerdì scorso dei dati sulla situazione del mercato del lavoro. Nel mese di maggio il numero degli occupati è salito di 431 mila unità grazie all’impiego a tempo parziale di 411 mila persone per realizzare il censimento, ma il settore privato statunitense ha creato solo 41 mila nuovi posti di lavoro, ossia molto meno delle aspettative. Ma c’è di più. Mentre il tasso di disoccupazione ufficiale è sceso al 9,7%, quello reale, che include anche le persone occupate a tempo parziale e quelle che hanno cercato senza successo un lavoro nell’ultimo anno, si aggira attorno al 17%. Queste crude cifre confermano che anche la presunta ripresa dell’economia americana, che nel quarto trimestre dell’anno scorso ha visto il PIL crescere del 6%, sta perdendo vistosamente vigore. Il rimbalzo dell’economia a stelle e strisce non era il segnale precursore dell’uscita dalla crisi, ma il frutto delle eccezionali politiche monetarie e fiscali varate per rilanciare l’economia e della ricostituzione delle scorte da parte di aziende che le avevano drasticamente ridotte alla fine del 2008 e nei primi mesi del 2009.
Questa realtà contribuisce a spiegare le crescenti preoccupazioni dell’amministrazione Obama per la crisi dell’Europa, per l’indebolimento dell’euro e per le misure di austerità che stanno varando i Paesi europei. A Washington si teme che l’economia di Eurolandia, cresciuta di un anemico 0,2% nel primo trimestre di quest’anno, ripiombi in recessione e che il deprezzamento dell’euro incida negativamente sulle esportazioni americane. Si teme soprattutto che i segnali di crescente debolezza dell’economia a stelle e strisce, combinati con le politiche fiscali restrittive dei Paesi europei e con quelle adottate (per altri motivi) da alcuni grandi Paesi emergenti, provochino una ricaduta dell’economia mondiale nella crisi. Una simile evenienza, che appare sempre più probabile, rafforzerebbe le pressioni deflazionistiche, che stanno già corrodendo le economie occidentali, e farebbe riesplodere la crisi del debito, ossia del sistema bancario. Inoltre il livello raggiunto dall’indebitamento pubblico in Europa e negli Stati Uniti ridurrebbe le possibilità di intervento degli Stati, lasciando unicamente spazio alla stampa di moneta da parte delle banche centrali.
I segnali poco incoraggianti che provengono dall’economia reale si aggiungono al forte aumento delle tensioni per il settore bancario europeo. Gli istituti di credito hanno ricominciato a non fidarsi l’uno dell’altro e quindi non si prestano i soldi, ma li depositano presso la Banca centrale europea: venerdì scorso è stata raggiunta la cifra primato di 351 miliardi di euro. In queste condizioni non sorprende che per gli istituti di credito costi sempre più finanziarsi sul mercato interbancario. Anche sul mercato dei capitali per le banche europee è difficile rifinanziarsi: stando a quanto ha comunicato la BCE, ancora nello scorso mese di aprile il 45% delle obbligazioni emesse dalle banche beneficiava di una garanzia statale.
Il problema del rifinanziamento delle banche europee è talmente grave che Germania, Olanda, Grecia e Svezia hanno già chiesto a Bruxelles di poter continuare a garantire le obbligazioni emesse dalle banche dopo la fine di giugno (che sarebbe dovuta essere la scadenza ultima di questo programma varato nell’autunno del 2008 nel pieno della crisi finanziaria). Questa sfiducia è fondata, poiché la stessa Banca Centrale Europea stima che gli istituti di credito di Eurolandia, che non riescono più a guadagnare con le attività bancarie tradizionali, siano costretti a far emergere almeno altri 195 miliardi di euro di perdite nascoste nei loro bilanci. Insomma si è ritornati al clima che aveva preceduto il fallimento della Lehman Brothers. Anche perché la crisi fiscale degli Stati europei deboli è lungi dall’essere superata e i forzieri delle banche europee straripano di titoli pubblici. In Spagna e in altri Paesi rischia di prodursi il paradosso di un debito pubblico che continua a crescere nonostante le misure di risparmio. È quanto già è previsto da Bruxelles e dal Fondo Monetario Internazionale per la Grecia, il cui debito pubblico salirà nel giro di tre anni dall’attuale 120% al 150% del PIL.
La ricaduta dell’economia e il rischio della deflazione in recessione non faranno altro che esaltare la causa di questa crisi, che è un eccesso di indebitamento sia del settore pubblico sia di quello privato. E una crisi del debito può essere risolta solo in due modi: con una forte inflazione, che erode il valore reale del debito (che oggi appare altamente improbabile) oppure con una sua ristrutturazione. In pratica seguendo gli insegnamenti di un detto napoletano, che suona così: «Chi ha dato, ha dato; chi ha avuto ha avuto. Scordiamoci il passato».