VENDO PLASMA DELLA REGINA ELISABETTA. TRATTATIVA RISERVATA.

Il Disegno di Legge “Zan” sull’omotransfobia andrà alla discussione in Aula al Senato il prossimo 13 luglio, così com’è.

La sinistra demo-grillina ha fatto muro contro le richieste del centrodestra e dei renziani di Italia Viva
di negoziare un testo condiviso da votare a larga maggioranza.


Il Partito Democratico vuole la vittoria secca.

Ne ha bisogno per trovare una ragion d’essere sulla scena politica.

E per ritrovarsi.

Perché, se è dai tempi della “vocazione maggioritaria” di veltroniana memoria
che non si comprende cosa sia diventato il principale partito della sinistra italiana,
l’avvento del “cattocomunista moderatoEnrico Letta ha aumentato esponenzialmente la confusione sotto il cielo plumbeo del Pd.


L’allievo di Beniamino Andreatta pensa a un’azione di forza in sede parlamentare
per intestarsi l’abbattimento, per via ordinamentale, di un cardine antropologico:

le distinte polarità archetipiche del maschile e del femminile.

Una scommessa giocata sulla pelle di una parte degli italiani.

Di coloro che, vittime della discriminazione e della violenza per il loro orientamento sessuale,
attendono un intervento normativo che gli assicuri maggiore tutela.

Enrico Letta è sicuro di vincere ma, numeri alla mano, potrebbe perdere malamente.

Per stare alla metafora del canottaggio, al Senato la distanza tra l’armo del centrosinistra e quello del centrodestra è meno di una luce.


E il risicato vantaggio si annullerebbe se venisse chiesto il voto segreto.


Possibile che Letta non se ne renda conto?

Dopo la sortita “corsara” di Matteo Renzi per una revisione del testo di legge,
possibile che nel Partito Democratico siano certi di voler andare alla conta?


Su Letta francamente è difficile rispondere vista la scarsissima stima che nutriamo per la persona.


Lui incarna il modello di politico calato dall’alto nelle istituzioni,

che non ha cognizione delle dinamiche della vita reale e dei bisogni della gente comune.



Ci sta che difetti della capacità di cogliere il quadro d’insieme in cui si colloca la questione delle tutele giuridiche contro l’omotransfobia.

Invece, per la dirigenza del partito, in specie nella componente che proviene dalla storia del Partito Comunista italiano,
non troviamo spiegazioni logiche all’arroccamento che ha scelto.

Ma è davvero così che stanno le cose?

Effettivamente, sotto la foglia di fico della disciplina di partito il malessere è piuttosto evidente.


I media, seppure senza enfasi, danno conto dei mal di pancia che crescono tra i parlamentari del gruppo del Pd al Senato.

Sembra di stare a “Quelli della notte”, con il “comunista” Maurizio Ferrini
e quel suo tormentone di successo “non capisco ma mi adeguo”.

Già, perché gli odierni “democratici”, che conservano gelosamente in tasca le tessere del Pci della propria giovinezza,
sono cresciuti politicamente nel solco della strategia togliattiana della “politica della mano tesa” verso il mondo cattolico e verso le gerarchie ecclesiastiche.


Ora, il fatto che sul Ddl “Zan” la Santa Sede abbia fatto sentire la sua voce contraria
con un passo diplomatico che non ha precedenti nella storia dei rapporti concordatari
disorienta i “vecchi compagni”.

Il Partito Comunista non avrebbe mai permesso che una legge controversa spaccasse il Paese
spingendo il segmento progressista dei cattolici a mettere in dubbio la faticosa contiguità valoriale
tra il popolarismo di matrice dossettiana e il comunismo occidentale che da Palmiro Togliatti a Enrico Berlinguer
è stata costruita dagli anni del Dopoguerra.

Non fu un caso che al V Congresso del Pci (29 dicembre 1945-6 gennaio 1946)
venisse inserito nelle tesi congressuali un giudizio positivo sui Patti lateranensi e sul Concordato,
così segnando la definitiva archiviazione dell’annosa “questione romana”, nerbo dell’anticlericalismo risorgimentale.


Dalla tribuna del “partito nuovo” Palmiro Togliatti sentenziava:

Poiché l’organizzazione della Chiesa continuerà ad avere il proprio centro nel nostro Paese
e poiché un conflitto con essa turberebbe la coscienza di molti cittadini,
dobbiamo dunque regolare con attenzione la nostra posizione nei confronti della Chiesa cattolica e del problema religioso
”.


L’Italia era sotto le macerie della Seconda guerra mondiale;
al Quirinale c’era un aspirante re a reggere la Luogotenenza del regno;
non si era ancora votato per la forma del nuovo Stato: Monarchia o Repubblica;
alla Carta costituzionale bisognava mettere mano;
la Guerra fredda era alla porte ed era concreta la possibilità che l’Unione Sovietica
allungasse gli artigli sulla nostra penisola, in dispregio alla spartizione delle spoglie dei vinti pattuita a Jalta dalle potenze vincitrici,

eppure i comunisti si preoccupavano di regolare i rapporti con il mondo cattolico facendone un obiettivo strategico prioritario.


I rappresentanti del Pci nel processo costituente votarono a favore dell’articolo 7 della Carta che,
riconoscendo l’indipendenza della Chiesa cattolica dallo Stato, recepisce sia i Patti lateranensi, sia il Concordato.


Perché lo fecero?

Il vertice del Partito, che nel corso della Guerra civile (1943-1945) aveva preso coscienza del fatto
di essere classe dirigente del Paese in rappresentanza dei ceti operai e delle masse lavoratrici,
aveva tutto l’interesse che fosse “mantenuta e rafforzata l’unità morale e politica della Nazione,
sulla base di una esigenza di rinnovamento sociale e politico profondo
”.


Avrebbero potuto individuare mille argomenti per una resa dei conti
con un mondo cattolico che era stato connivente con il fascismo, ma non lo fecero.



Al contrario, si spinsero molto avanti nel percorso di avvicinamento alle ragioni dei cedenti.

Per coglierne l’ampiezza strategica bisognerebbe rileggere il discorso pronunciato da Palmiro Togliatti a Bergamo il 20 marzo 1963
e pubblicato dalla rivista del Pci “Rinascita”, dal titolo “Il destino dell’Uomo”.


C’è un punto del discorso che, visto con le lenti dell’oggi, lascia di stucco.


Dice Togliatti:

Per quanto riguarda gli sviluppi della coscienza religiosa, noi non accettiamo più la concezione, ingenua ed errata,
che basterebbero l’estensione delle conoscenze e il mutamento delle strutture sociali a determinare modificazioni radicali.
Questa concezione, derivante dall’illuminismo settecentesco e dal materialismo dell’Ottocento, non ha retto alla prova della storia.
Le radici sono più profonde, le trasformazioni si compiono in modo diverso, la realtà è più complessa
”.


Chiaro il concetto?

Invece, questi “scappati di casa” del Pd vorrebbero cambiare il mondo pescando il voto in più di un Lello Ciampolillo qualsiasi, senatore per caso.

Roba da chiodi!

Benché non faccia piacere ammetterlo, bisogna riconoscere che i comunisti di allora avevano una visione verso cui indirizzare l’azione politica.


L’allegra compagnia dei radical-chic da Ztl dei giorni nostri che visione ha?


Se ce l’ha.


Lo ha mai letto Togliatti o è appagata dalle Epistulae morales di Roberto Saviano, Laura Boldrini e Michela Murgia?



A osservarli da fuori – quelli del Pd – si sarebbe portati a dare ragione ad Alessandro De Angelis
che sull’Huffington Post parla di renzifobia e di un Ddl “Zan” usato come arma impropria
per regolare i conti a sinistra ma che della sostanza di ciò che propone non frega niente a nessuno.


È quindi del tutto comprensibile che ai “compagni della vecchia guardia”,
che hanno studiato alle “Frattocchie” (la scuola di partito dei comunisti italiani)
sui testi di Antonio Gramsci e di Palmiro Togliatti, prudano le mani
ad ascoltare lo stagionato giovanotto (Enrico Letta) che gioca a fare il “cattocomunista moderato”
–praticamente un ossimoro – con la fondata possibilità di portare il partito a sbattere.


Mancano dei giorni all’ora X, quando il croupier di Palazzo Madama farà girare la roulette
pronunciando il fatidico “Les jeux sont faits, rien ne va plus”.


Azzardo per azzardo la buttiamo lì:

e se qualcuno dall’interno del Pd all’ultimo istante aprisse a una trattativa con l’opposizione, spiazzando Enrico Letta?


E, sempre per stare alla fantapolitica, se questo qualcuno

fosse uno che la mattina fa il ministro del Lavoro del Governo Draghi

e la sera parla tanto, ma proprio tanto, con Nicola Zingaretti

e ha al primo posto in rubrica il numero telefonico di Massimo D’Alema?

Ci credereste?


Al punto in cui siamo, pur di evitare il disastro di una legge assurda che comprime la libertà di espressione

e riscrive il paradigma antropologico della nostra civiltà, siamo disposti a tutto.


A credere che Matteo Renzi sia uno statista;

che Enrico Letta s’intenda di politica;

che i “dem” rinsaviscano.




E che Babbo Natale esista.
 
Eccolo qua l'esperto, che un giorno - 10 giugno 2021 - sul Foglio, dichiara :

"è arrivato il momento di iniziare a pensare ad una terza dose
perché non sappiamo quanto dura l’immunità prodotta dai vaccini“.

Ed il 9 luglio 2021 sull'Huffington Post dichiara :

.... La terza dose può esser vista come un esercizio di preparazione per il futuro,
ma non ha nessun senso concreto programmarla da adesso”.



Questo è "l'esperto".
 
Questa mattina vi avevamo scritto che Pfizer voleva chiedere l’approvazione sperimentale,
come quella dei vaccini attuali, per una terza iniezione del proprio vaccino, modificato,
come “Rinforzo” e contro la variante Delta.

A stretto giro di posta sono arrivate, in modo congiunto, le risposte di CDC e FDA americane.


Sorprendentemente, ma non tanto, hanno affermato che non sono necessarie iniezioni di richiamo.

The CDC and FDA have issued an unusual evening joint statement, which pushes back on Pfizer's announcement that it will seek approval for a third shot (second booster).
"Americans who have been fully vaccinated do not need a booster shot at this time," it says. pic.twitter.com/z89OIDYawE
— Josh Wingrove (@josh_wingrove) July 9, 2021




I due enti federali hanno affermato che gli Stati Uniti sono
“fortunati ad avere vaccini altamente efficaci che sono ampiamente disponibili per quelli da 12 anni in su”
e “gli americani che sono stati completamente vaccinati non hanno bisogno di una dose di richiamo in questo momento”.


Però intanto, incominciano a mettere le mani avanzi:

“FDA, CDC e NIH sono impegnati in un processo rigoroso e basato sulla scienza per valutare se o quando potrebbe essere necessario un richiamo”.

Se lo è, allora “siamo pronti per dosi di richiamo se e quando la scienza dimostrerà che sono necessarie”.



Del resto cosa potevano rispondere questi due enti federali?

“Ops, ci siamo sbagliati, non bastano due iniezioni, ma ce ne vogliono tre, quindi finora vi abbiamo dette delle panzane”?



Ovvio che, in questa fase in cui si cerca di spingere il più possibile le persone a vaccinarsi

ammettere che le vaccinazioni non sono tanto sicure non va bene.



Bisogna far finta di nulla, ma bisogna pensare anche al futuro, quando il richiamo sarà necessario,
o Pfizer aumenterà le sue pressioni, ed allora si afferma che si rimarrà sempre vigili
e pronti a dire che si, questo è il momento giusto per un altro “Shottino” di vaccino.



Naturalmente sempre sperimentale.
 
Secondo Reuters, la società tecnologica cinese BGI utilizza il suo servizio di test prenatali a livello globale

per raccogliere dati genetici di oltre 8 milioni di donne incinte, tra cui nazionalità, altezza, peso, ecc.,

e condividerli con l’Esercito di liberazione popolare cinese per la ricerca
.



Questa società ha prodotto un “Test genetico cromosomico fetale non invasivo” (NIFTY)
nel quale si raccolgono dati e materiale genetico per un’analisi al fine di valutare eventuali malformazioni.

La BGI ha ammesso che è loro intenzione conservare e analizzare nuovamente i campioni di sangue rimanenti e i dati genetici dei test prenatali con l’intezione di venderli.


BGI ha detto che non sanno quante di queste donne sono state testate all’estero
,
perché memorizzeranno solo la posizione geografica delle donne testate in Cina.

Inoltre, BGI ha confermato che la posizione di archiviazione di questi dati è un database genetico finanziato dal governo cinese.


Il rapporto ha anche affermato che i dati raccolti da BGI sono stati utilizzati in un progetto
con l’Esercito di Liberazione del Popolo per studiare le differenze e le caratteristiche della popolazione mondiale
.


Reuters ha scoperto che i ricercatori del BGI e dell’Esercito di Liberazione del Popolo
hanno pubblicato almeno 12 rapporti di ricerca congiunti.

Uno dei rapporti ha mostrato che una volta BGI ha utilizzato un supercomputer dell’esercito cinese
per rianalizzare i dati ottenuti da “ispezioni prenatali non invasive”
e su questa base indagare sulla distribuzione geografica di più virus tra le donne cinesi.

Il rapporto ha anche sottolineato che l’indagine del BGI e dell’Esercito di Liberazione del Popolo
ha esaminato i geni di tibetani e uiguri per studiare la relazione tra i loro geni e le loro caratteristiche etniche.


Inoltre i dati genetici saranno utilizzati per valutare quali siano le razze “Migliori”

in grado di generare i soldati “Più Forti”, all’interno e all’esterno della Cina.




Come vedete si tratta di un bel simpatico programmino di Eugenetica
messo in atto da una società privata cinese in collaborazione con l’Esercito.

Naturalmente vi sono dei problemi di privacy, di utilizzo inadatto dei dai, di eugenetica spinta,
ma gli affari delle élite, della Merkel di Macron con le autorità cinesi andranno ben oltre ogni diritto umano.


Questo è il nostro futuro
 
Wells Fargo ha appena annunciato che sta chiudendo tutte le sue linee di credito personali esistenti
– un prodotto popolare offerto dal gigante di Wall Street focalizzato sul retail banking –
una mossa che probabilmente farà infuriare legioni di clienti.


Le linee di credito revolving, che verranno chiuse nelle prossime settimane
e che in genere consentono agli utenti di prendere in prestito da $ 3K a $ 100.000,
sono state proposte come un modo per consolidare i debiti delle carte di credito con interessi migliori,
pagare per i lavori di ristrutturazione della casa o evitare commissioni di scoperto sul controllo conti annessi al prestito.


Ai clienti è stato dato un preavviso di 60 giorni per il rientro,
dopo di che i loro conti saranno chiusi e verranno proposti piani di rientro da credito.


Secondo la CNBC, è l’ultima “decisione difficile” che deve affrontare l’amministratore delegato di Wells, Charlie Scharf,
costretto a tagliare il giro d’affari della banca a causa delle restrizioni imposte dalla FED dopo lo scandalo che vide coinvolte numerose filiali
e nel quale i direttori aprivano conti correnti ad insaputa dei clienti.


“Wells Fargo ha recentemente rivisto le sue offerte di prodotti
e ha deciso di interrompere l’offerta di nuove linee di credito personali e di portafoglio e chiudere tutti i conti esistenti”,
ha affermato la banca nella lettera di sei pagine.

La mossa consentirebbe alla banca di concentrarsi su carte di credito e prestiti personali.


Le chiusure metteranno in difficoltà molti clienti che, da un momento all’altro,
si troveranno senza un’importante fonte di liquidità, anzi vedranno peggiorato il proprio punteggio di affidabilità FICO
come se avessero chiuso queste linee in modo volontario.


Nel 2018, la Fed ha vietato a Wells Fargo di espandere il proprio bilancio fino a quando i regolatori della banca centrale
non hanno deciso che la banca ha corretto le sue carenze di conformità esposte dallo scandalo dei conti falsi e da altri abusi del consumatore.


Comunque la tempistica della chiusura di queste linee è particolare.

Nell’esteta del 2020 la banca le aveva già ridotte, ma per dubbi sulla solvibilità dei clienti.

In questo caso invece avviene senza grosse giustificazioni e l’attivo liberato non è sicuro che venga impiegato in modo altrettanto fruttuoso,
dato il calo dei rendimenti dei titoli di stato USA in atto.


Insomma una mossa non completamente chiarita, nella sua natura e che lascia molti dubbi.
 
Il diavolo, si sa, si nasconde nei dettagli e quindi pare opportuno ricordare come nasce l’idea della riforma Cartabia.

L’Europa ci costringe a mettere mano al sistema giudiziario

e, dal momento che Oltralpe ci conoscono bene,

pone la riforma come condizione per ricevere i soldoni del Recovery.



Pensa, a questo punto, l’ottimista della volontà:

“Hai visto mai che ciò che non poté la ragione (e la dignità) possano il bastone e la carota di Bruxelles?”.

Risponde, parafrasando Giorgio Gaber, il pessimista della ragione:

“Buon amico, tu forse ignori la qualità della nostra classe politica, parapolitica ed affine”.


Tocca pure chiosare l’analisi, sfidando l’ineleganza dell’autocitazione,
con un bel “l’avevo detto” dal momento che, in compagnia della solita sparuta quanto impertinente pattuglia,
come sarebbe andata a finire l’avevo pronosticato per tempo.


Del resto, che vuoi sperare da un Parlamento e da una maggioranza innervati
da un accrocchio di miracolati allo sbando che fa delle manette il proprio ultimo feticcio identitario
e da ciò che resta di un grande Partito passato, quasi senza accorgersene,
dall’orgogliosa rivendicazione del sindacato delle tute blu quale propria cinghia di trasmissione
all’essere divenuto portaordini di altro, ben più potente, sindacato.


Insomma, che la ministra Marta Cartabia avrebbe partorito una riforma inversamente proporzionale al valore,
assai elevato, della sua persona era scontato.

Tocca pure sperare che il Parlamento – composto come sopra descritto – non la peggiori ulteriormente
e poi confidare che l’Europa ci regali un “seistiracchiato, di incoraggiamento,
come si fa con gli studenti svogliati le poche volte che almeno provano ad aprire il libro di testo
anche solo per accorgersi che le pagine non sono bianche.


Stavolta, però, la Sorte – come in certi film d’azione – ci regala, proprio quando tutto sembra perduto, l’occasione per il lieto fine:

i referendum.

Non sarebbe la prima volta che gli Italiani si prendono la briga di mostrare alla Politica come si fa,
senza neppure la necessità che un Ferragnez qualsiasi gli ingiunga di cinger la testa con l’elmo di Scipio.
 
Martedì 2 dicembre 2014 è una data che rimarrà per sempre scolpita sui libri di storia
di una città che di storia ne ha fatta tanta, indirizzando e guidando per secoli il destino di un continente intero e non solo.

Quel giorno chi l’ha vissuto a strettissimo contatto con i protagonisti di quella vicenda, certamente non potrà mai dimenticarlo.

L’impatto mediatico e umano fu devastante, uno tsunami che ha lasciato senza fiato,
facendoci vivere sulla pelle la valanga di accuse, illazioni e infamità
riversate su organi di informazione, social, in giro ovunque per la Capitale e per tutto il Paese.

Uno tsunami di fango che, tuttavia, non ha travolto un mondo intero o un’area politica,
come qualcuno ha provato a scrivere in questi anni ribadendolo in questi giorni,
forse per andare all’incasso in vista delle imminenti elezioni comunali.


Uno tsunami che, va detto apertamente, ha coinvolto solo ed esclusivamente Gianni Alemanno,
i suoi cari e i pochissimi collaboratori rimasti vicino a lui dopo la “Caporetto” elettorale contro Ignazio Marino.


Nel 2013, infatti, vale la pena ricordarlo, pochi amici e qualche collaboratore,
al primo exit poll che dava il chirurgo dem in vantaggio, rimasero con lui
,
mentre tanti di quelli che nei cinque anni di Campidoglio erano stati al suo fianco, nessuno senza un (legittimo) tornaconto,
improvvisamente gli voltarono le spalle e letteralmente sparirono con un atteggiamento tutt’altro che cameratesco.

Una fuga che l’indomani del 3 dicembre 2014 fu anche peggiore.


Escluso qualche rarissimo caso, e fra questi è d’obbligo citare su tutti Francesco Storace,
fiero e leale oppositore di Alemanno in Campidoglio, e altrettanto fiero e leale sostenitore al suo fianco negli anni bui di Mafia Capitale,
quasi tutti i leader storici della destra hanno ben pensato di prendere le distanze dai cinque anni di governo in Campidoglio,
come se incarichi, nomine, scelte politiche fossero state prese da Alemanno, in piena autonomia e solitudine.

Roba da libro delle favole, specie per chi conosce bene la fauna che abita il bosco, o meglio,
il sottobosco della destra romana
che nel 2008 era legittimamente “affamata” di potere per aver conquistato la città per la prima volta nella storia repubblicana.

Una narrazione corretta di questi lunghi sette anni ci dice, tuttavia, che c’è un nodo irrisolto
o, forse, venuto al pettine proprio alla lettura della sentenza della Cassazione che ha cancellato l’infame accusa di corruttore per Alemanno.


La destra romana e nazionale, divisa in correnti e spifferi, quella che il 28 aprile del 2008
accompagnava con le braccia tese il neo sindaco Alemanno fin sulla scalinata del Campidoglio,
con cori fascisti al seguito, quella che tentò in ogni modo di condizionarne, con un impatto purtroppo negativo,
i cinque anni di sindacatura, oggi, quella destra che siede in maggioranza e all’opposizione in Parlamento
alza i calici (perchè ha capito furbescamente che le braccia tese non portano più voti)
e si professa da sempre al fianco di Alemanno, riabilitandolo nel mondo tutto onore e rispetto
che chi ha vissuto da dentro quegli anni sa benissimo che non esiste e, forse, non è mai esistito.


2.411 giorni di silenzio e abbandono, di colpi bassi per prendere le distanze
ogni volta che un’indiscrezione uscita dalle migliaia di pagine di indagine rischiava di toccare il proprio orticello.

“Alemanno chi?”, come se la giunta e molti ruoli cardine affidati anche nelle partecipate non facessero capo ai principali partiti del centrodestra.

2.411 giorni nei quali, messo per un attimo da parte il dramma umano vissuto dalle persone coinvolte,
è stata emessa la condanna più grave per la Capitale, alla cui guida sono arrivate amministrazioni
che hanno dovuto governare con il marchio della Mafia costruito ad arte, forse per tenere la città ostaggio della burocrazia
e di quei poteri forti e malsani che le impediscono di sovrastare per tradizioni e potenzialità tutte le più grandi e belle metropoli del mondo.

2.411 giorni nei quali, e questo a mio giudizio è la colpa più grave, la destra romana ha barattato politicamente Roma per il governo nazionale,
accettando che cinque anni di governo Alemanno, con le tutte le storture e gli errori commessi, divenissero per tutti, incomprensibilmente,
una colpa da espiare mettendo la testa sotto la terra e rinunciando a costruire una classe dirigente competente,
in grado oggi di scegliere candidati con un percorso politico trasparente, senza andarli a pescare facendo zapping sulle radio romane,
con tutto il rispetto per il professor Enrico Michetti, o, nelle aule di giustizia, con tutto il rispetto per la dottoressa Simonetta Matone.


Se qualche mese fa, rivolti alla destra e alla sinistra chiedevamo di tirare giù la maschera,

quella maschera oggi è scesa del tutto e nella faccia di molti camerati per caso

che salgono sul carro del “cadavere” miracolosamente risorto

non si sbaglia di molto se ci si intravede lo sguardo dell’avvoltoio che pregusta l’occasione buona per tornare a banchettare in Campidoglio.
 
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Ci risiamo.
La frontiera con l’Iran in mano ai Talebani.

Cade Islam Qala, l’avamposto di frontiera al confine con l’Iran, nella provincia occidentale di Herat.

Zabihullah Mujahid
, portavoce dei fondamentalisti talebani, ha riferito: “Il valico è ora sotto il nostro pieno controllo”.

Di contro, il portavoce del ministero degli Interni del governo reggente afghano, Tareq Arian,
ha assicurato che “tutte le forze di sicurezza, comprese le guarnigioni di frontiera, sono presenti nell’area con l’obiettivo di riconquistare il sito”.


Islam Qala è uno dei più importanti valichi di frontiera in Afghanistan,
attraverso il quale passa quasi tutto il “commercio legittimo” tra i due paesi.


E mentre l’Iran ospita e sostiene i Talebani sul suo territorio,
questi facilitano i traffici di oppio e cannabis attraverso il confine comune.

Inoltre, nonostante siano vigenti le sanzioni di Washington contro Teheran,
gli Stati Uniti hanno anche permesso – in deroga – che Kabul continuasse a rifornirsi di carburante e gas dall’Iran.


Islam Qala è il secondo importante valico di frontiera a cadere sotto il controllo dei Talebani,
dopo che il mese scorso i fondamentalisti hanno conquistato, Sher Khan Bandar, al confine con il Tagikistan.

In quell’occasione hanno respinto l’esercito di Kabul e messo in fuga oltre mille soldati regolari che hanno trovato rifugio nell’ex-Repubblica Sovietica.


E mentre il presidente Mohammad Ashraf Ghani – durante la sua visita a Doha –
ribadiva il sostegno incondizionato del governo alla Delegazione negoziale della Repubblica Islamica dell’Afghanistan,
negli sforzi per il complesso processo di pace nel paese
(affermando persino che “il popolo afghano, così come i combattenti talebani, sono stufi della guerra”),
i fondamentalisti intanto proseguivano nella loro marcia alla conquista dei territori ancora contesi tra le due fazioni rivali.

Da una parte i Talebani hanno sempre detto di non essere interessati al monopolio del potere,
dall’altra il Presidente Ghani ha sempre sostenuto di poter gestire, pur con le difficoltà del caso, la situazione contingente.

Eppure qualcosa sembra non tornare.

I combattimenti tra i fondamentalisti e l’esercito di Kabul diventano sempre più cruenti
mentre le uccisioni di massa e le punizioni corporali tra le popolazioni locali, ad opera dei Talebani, sono all’ordine del giorno.


I Talebani, incoraggiati dal ritiro delle truppe Usa e Nato, e con i colloqui di pace con il governo in stallo,
sembrano invece mirare ad una piena vittoria militare.

esecuzioni sommarie dei Talebani (Fonte:Twitter)

esecuzioni sommarie dei Talebani (Fonte:Twitter)

A soli due giorni dal ritiro delle forze Usa e Nato dalla base aerea di Bagram, vicino Kabul,
cuore strategico delle operazioni contro i fondamentalisti e i loro alleati di Al-Qaeda,
i Talebani hanno riconquistato anche il distretto chiave di Panjwai, nella loro ex roccaforte di Kandahar.


L’esercito regolare afghano e gli insorti si sono scontrati questa settimana per la prima volta a Qala-e-Naw,
nella provincia nord-occidentale di Badghis, costringendo migliaia di persone alla fuga.

I talebani hanno preso d’assalto la prigione provinciale e liberato centinaia di affiliati oltre tutti i detenuti locali.

In questa occasione sono apparsi inoltre, e presto diventati virali sui social media,
i video che mostravano i combattenti talebani in motocicletta effettuare scorribande in città.

Sempre dai video si evince che un gran numero di soldati regolari (circa 200)
erano passati tra le fila dei Talebani, notizia presto confermata da funzionari del governo di Kabul.

Ed ancora, il 7 luglio i Talebani hanno catturato il distretto di Zendah Jan, nella provincia di Herat,
mentre l’8 luglio sono stati segnalati scontri tra talebani ed esercito afghano nel distretto di Nawur nella provincia di Ghazni.


Attualmente quasi un terzo dei distretti del territorio afghano sono dominati dai Talebani,
mentre il governo di Kabul ha poco più di un’insieme di capoluoghi di provincia sempre più isolati,
visto che devono arroccarsi in difesa e ricevere la maggior parte degli aiuti per via aerea.

Tra l’altro nelle ultime settimane i fondamentalisti talebani stanno impegnando sempre più l’esercito regolare
nel quadrante settentrionale dell’Afghanistan e l’aviazione afghana sta subendo una forte pressione
sia sui mezzi che sui piloti, ormai pochi e costretti a fare gli straordinari.


Sebbene ad alcuni potrebbe sembrare che sia l’Iran ad esercitare l’influenza ed il controllo sulla frangia talebana,
poiché ne assicura il sostegno economico e militare, il quadro di riferimento risulta ancora più intricato.

È già abbastanza singolare che la notizia della conquista del valico di frontiera di Islam Qala da parte dei fondamentalisti ribelli,
arrivi a poche ore dal recente incontro della delegazione talebana a Teheran con funzionari del governo iraniano
e dove era anche presente una delegazione del governo di Kabul.

“L’Iran è pronto a mediare nel difficile processo di pace tra le diverse fazioni in Afghanistan
al fine di risolvere gli attuali attriti e conflitti in corso”, ha precisato da Teheran il ministro degli Esteri iraniano.

Bisogna tenere bene a mente, però, che l’Iran ha un confine con l’Afghanistan molto labile
e un’escalation militare tra le fazioni afghane porterebbe quasi certamente all’afflusso di un esercito di disperati verso i territori iraniani.

È utile ricordare che già adesso l’Iran sta ospitando quasi 3 milioni di rifugiati afghani.


La conquista di Islam Qala – e genericamente della frontiera con l’Iran – è comunque uno smacco per Teheran.

Per assurdo (ma nemmeno tanto) potrebbe consentire ai Talebani di “fagocitare” un’intera area del territorio iraniano di confine,
con il rischio evidente di soggiogare le etnie locali con il loro “credo” ed usanze proprie.

Quali altri giocatori sono destinati ad entrare in partita nell’affaire Afghanistan?

È sempre più di attualità la notizia che la Turchia verrà incaricata dalla Nato di farsi carico della sicurezza e protezione dell’aeroporto di Kabul,
la cui perdita in mani talebane segnerebbe la fine dell’attuale governo.


Ma altri giocatori si stanno affacciando sul versante Afghanistan

Si tratta dell’India e della Russia che stanno nel frattempo intensificando i loro rapporti diplomatici e accordi bilaterali.

La visita del ministro degli Esteri indiano, Subrahmanyam Jaishankar, a Mosca
arriva sulla scia di un viaggio ufficiale del suo omologo russo, Sergey Lavrov, a Nuova Delhi in aprile.

Secondo la visione russa, Nuova Delhi è un giocatore fondamentale in Afghanistan
ed i due paesi stanno cercando di formulare una risposta coordinata alla situazione venutasi a creare.

Questa sinergia è naturalmente osteggiata dal vicino Pakistan che non nutre una particolare simpatia per l’India.

Imran Khan
, primo ministro pakistano, in una sua recente intervista ha sbottato dicendo:
“Con il peggioramento della situazione in Afghanistan, di sicuro a rimetterci sarebbe Nuova Delhi,
che ha investito milioni di dollari nel paese, e ora è a rischio”.


La missione militare degli Stati Uniti si concluderà il 31 agosto, quasi 20 anni dopo il suo inizio, dopo aver raggiunto i suoi obiettivi”,
hanno fatto sapere da Washington poche ore prima della presa di Islam Qala da parte dei Talebani,
e “non invierò una nuova generazione di americani in guerra in Afghanistan”, ha ribadito Joe Biden.

Secondo le vedute (di convenienza) di Washington, è il popolo afghano l’artefice del proprio futuro
e la Casa Bianca, in un comunicato, si sbilancia ammettendo che l’eventualità che permanga
o si stabilisca un governo di unità nazionale in Afghanistan e che controlli l’intero paese, è altamente improbabile.
 
Quali sono stati, anno per anno, gli uomini più ricchi del mondo, a partire dal 1995 sino al 2020.

Quali sono stati i settori più promettenti,

quelli che sono passati di moda,

i personaggi che sono entrati ed usciti,

quali paesi hanno visto il maggior numero di super ricchi.

Poi i personaggi che sono usciti e rientrati in classifica, alcuni anche più volte.
 
Nelle scorse settimane si è assistito a un forte calo dei tassi sui titoli di stato dopo che questi,
al crescere dell’inflazione, avevano toccato un massimo fra fine aprile e inizio marzo:


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Un calo repentino, nonostante le attese d’inflazione non si siano particolarmente placate.

Molti hanno visto questo come un buon segno, legato al fatto che si ritiene che la FED
sia in grado di regolare i tassi d’interesse sui titoli di stato.

In realtà la Banca Centrale americana si è anche impegnata nell’assorbire molta liquidità dal sistema bancario
attraverso operazioni di Reverse Repo, per cui la funzione della FED è stata, più che altro, di regolazione del mercato.


In realtà l’abbassamento dei tassi viene, essenzialmente, a mostrare un peggioramento delle prospettive economiche di crescita.

Come potete vedere dal seguente grafico tassi d’interesse che mostrano una correlazione con crescita, andamento dei salari e inflazione.


Rates-GDP-Wages-Inflation-070621.png




Anche questo grafico viene a mostrare un andamento molto simile :


Rates-vs-Economic-Composite-.png



I tassi calano perché c’è una attesa di una minore crescita economia,

accompagnata a una minor aspettativa di mobilità salariale e quindi d’inflazione.


I tassi inoltre calano anche perché c’è una peggiore prospettiva di remunerazione con il mercato azionario,
diretto concorrente dei titoli di stato USA.


Quindi c’è da essere ben poco soddisfatti del calo dei tassi sul T-bond a 10 anni:

si tratta del segnale di un peggioramento delle prospettive economiche.


La crescita post covid-19 sembra già arenarsi e giungere a un momento di stanca.


I prossimi mesi si riveleranno decisivi per capire l’andamento nel 2022.
 

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