Vale qui ricordare alcune date. Il 29 gennaio, il Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti, afferma: “La campagna di pressione contro il Venezuela sta dando i suoi frutti. Le sanzioni finanziarie che abbiamo imposto hanno obbligato il governo di quel paese a essere inadempiente, sia rispetto al debito sovrano sia a quello di Pdvsa. E stiamo assistendo a un collasso totale del Venezuela. Quindi la nostra politica funziona, la nostra strategia funziona e la manterremo”.
Il 2 febbraio, vengono ampliate le sanzioni finanziarie contro il Venezuela e le imprese venezuelane. Viene proibita la ristrutturazione del debito estero e quello di Pdvsa decise prima del 25 agosto del 2017. A marzo, 15 pugili venezuelani non possono partecipare alle finali dei Giochi Centroamericani e dei Caraibi perché non si raggiunge un accordo con le agenzie che aumentano smisuratamente il prezzo dei biglietti (da 300 a 2.100 dollari a persona), e anche perché, nonostante la disponibilità di una impresa privata a trasportare con un charter gli atleti, Colombia, Panama e Messico ne proibiscono il passaggio nel proprio spazio aereo.
Il 2 marzo, gli Usa rinnovano per un anno il decreto 13692 (con cui Obama aveva definito il Venezuela “una minaccia inusuale e straordinaria per la sicurezza degli Stati Uniti”) e il decreto 13808 emesso da Trump, che stabilisce nuove misure coercitive contro la stabilità finanziaria del Venezuela. L'Ufficio per i delitti finanziari degli Stati Uniti (FinCen) avverte le istituzioni finanziarie globali che le transazioni con istituzioni pubbliche venezuelane verranno indagate per corruzione. Un'accusa – infondata e non provata – che ha l'obiettivo di limitare il pagamento alle compagnie alimentari e farmaceutiche per bloccare l'importazione di questi prodotti. E così vengono congelati 1.650 milioni di dollari dello Stato venezuelano diretti al pagamento di beni importati.
Il 19 marzo, Trump firma l'ordine esecutivo 13827 che proibisce a tutti i cittadini e alle istituzioni di realizzare transazioni finanziarie con la criptomoneta venezuelana Petro, prima che questa venga commercializzata nel mercato delle criptomonete. Una decisione unica nel suo genere. Il 27 marzo, il governo di Panama (paese dei paradisi fiscali...) pubblica una lista di 16 compagnie venezuelane accusate (senza prove) di lavare denaro sporco e di finanziare il terrorismo.
Il 19 aprile, Steven Mnuchin, Segretario del Tesoro statunitense, si riunisce con i rappresentanti di Argentina, Brasile, Canada, Colombia, Francia, Germania, Guatemala, Spagne, Italia, Giappone, Messico, Panama, Paraguay, perù e Regno Unito, per “esigere azioni concrete atte a restringere la capacità dei funzionari venezuelani corrotti e delle loro reti di appoggio”. L'obiettivo è quello di bloccare finanziariamente il Venezuela, il cui presidente – dice l'amministrazione Usa – non ha la legittimità per chiedere crediti a nome del suo paese. A maggio vengono congelati 9 milioni di dollari, destinati dallo Stato venezuelano al trattamento dei pazienti in dialisi. Nello stesso mese, Banca Intesa San Paolo blocca il denaro per il padiglione venezuelano alla XVI Biennale di Architettura di Venezia.
Il 21 maggio, dopo l'elezione alla presidenza di Nicolas Maduro per un secondo mandato e la nuova vittoria del chavismo, Trump rincara la dose: proibisce ai cittadini statunitensi e alle imprese di acquistare proprietà appartenenti al governo bolivariano in territorio Usa. Il 25 giugno, il Consiglio Europeo approva la risoluzione 2018/901 che sanziona i membri dell'amministrazione venezuelana, inclusi quelli che operano nel settore alimentare, in linea con quella Usa del 9 novembre 2017, tesa a impedire l'acquisto di alimenti da parte del governo bolivariano.
L'11 novembre, Trump firma un nuovo decreto che autorizza il Dipartimento del Tesoro a confiscare le proprietà di quegli operatori del settore aurifero che agiscano in Venezuela, senza che vi siano accuse di illeciti. L'obiettivo è quello di impedire che l'arco minerario dell'Orinoco, dov'è custodita la seconda riserva di oro al mondo, serva al recupero dell'economia venezuelana.
Con la consueta cinica ipocrisia da parte di un governo che promuove il fracking e calpesta ogni giorno i diritti delle minoranze, il sottosegretario al Tesoro statunitense Marshall Billingslea, dice che, anziché protestare per questa misura, “bisognerebbe indignarsi per il danno causato all'ambiente e ai popoli indigeni”. L'11 settembre, la Banca Centrale del Regno Unito rifiuta di restituire al Venezuela 14 tonnellate di oro, sottraendo così al paese l'equivalente di 550 milioni di dollari: con l'arrogante movitazione coloniale che un “governo corrotto e narcotrafficante” potrebbe farne un uso improprio.
A dicembre, Maduro denuncia alla stampa internazionale un dettagliato piano, ideato dall'Assessore alla sicurezza Usa, John Bolton, per assassinarlo, e mostra campi di addestramento mercenari allestiti in Colombia. Bolton, uno dei falchi del Pentagono, ha promesso più volte di voler cancellare la “troika dei governi dittatoriali di Cuba, Venezuela e Nicaragua”.
Da una parte le forze reazionarie, che cercano di impedire l'assunzione d'incarico di Maduro, il 10 gennaio, dall'altra le forze del potere popolare, che si sono manifestate per tutto l'anno nei vari congressi realizzati da tutti i settori in Venezuela: donne, operai, studenti, giovani, contadini, popoli indigeni... Una maturità dimostrata nel IV Congresso del PSUV, che ha messo al centro il rilancio politico, teorico, ideale della militanza bolivariana, e anche l'organizzazione della solidarietà internazionale.
A concludere l'anno ( e in risposta alle critiche di quanti, nel Gran Polo Patriotico temono una deriva moderata del proceso bolivariano), è arrivata l'occupazione della fabbrica di pneumatici Goodyear da parte degli operai, accompagnati dal ministro per il Processo sociale del Lavoro, Eduardo Piñate. La multinazionale aveva chiuso la sede di Valencia (nello Stato Carabobo) lo scorso 10 dicembre, ma la vicenda ha avuto un esito opposto a quello che avrebbe avuto in un paese capitalista d'Europa.
Di questo, però, la grande stampa mondiale non darà notizia, così come si è guardata bene dal diffondere una sentenza con la quale, pochi giorni fa, il quotidiano di opposizione El Nacional è stato obbligato a scusarsi con il presidente dell'Assemblea Nacional Constituyente, Diosdado Cabello