Cris70
... a prescindere
Da dove partire?
In estrema sintesi e per iniziare:
l'Arte Concettuale mira a raccontare delle idee, tutte le altre raccontano storie.
Ma forse è meglio lasciarlo spiegare al padre contemporaneo dell'Arte Concettuale Joseph Kosuth e con calma poi risalire a Marcel Duchamp e divagare oltre
Massimo Donà, Arte e Accademia
Joseph Kosuth, Four Questions Answered
INTERVISTA
Joseph Kosuth, Quattro risposte a quattro domande
Joseph Kosuth è riconosciuto come l’esponente di punta dell’arte concettuale, una corrente delle avanguardie degli anni Sessanta che ha avuto molta fortuna anche come punto di riferimento per le ricerche artistiche degli ultimi due decenni. Lo scopo dell’arte concettuale, per come la intende Kosuth, è quello di trasformare la ricerca artistica in una ricerca sul significato stesso dell’arte, abbandonando così il terreno della semplice innovazione stilistica. In questo senso il concettuale sfuggirebbe anche alla nozione moderna di “avanguardia”, venendo a gettare le basi per un lavoro di indagine svincolato dalla dinamica del succedersi degli “ismi”. Nato a Toledo (USA) nel 1945, inizia a concepire le sue prime e fondamentali opere concettuali verso la metà degli anni Sessanta – opere come One and Three Chairs sono del 1965 – anche se il successo dell’arte concettuale giunge verso la fine degli anni Sessanta. L’arte di Kosuth si è sempre attenuta a un atteggiamento lucidamente analitico che è sempre rimasto in dialogo con il terreno della riflessione filosofica, a partire dai riferimenti a Wittgenstein fino a quelli al post-strutturalismo francese. Tra gli scritti teorici di maggior rilievo di Kosuth ricordiamo Art after Philosophy del 1969 (trad. it. 1987, L’arte dopo la filosofia).
D. Sig. Kosuth, lei è stato considerato come uno dei fondatori della cosiddetta “arte pubblica” poiché collocava già dagli anni Settanta delle frasi artistiche (o meglio delle frasi-opere) fuori dalle gallerie attraverso manifesti, inserzioni sui giornali e così via. Adesso molti artisti svolgono le loro operazioni artistiche in spazi pubblici e questo fenomeno è molto diffuso. Lei pensa che si tratti semplicemente di una moda oppure pensa che ci sia (in queste operazioni dei giovani artisti) un background teorico che è in continuità con la sua esperienza artistica?
R. Donald Judd una volta mi raccontò una storia di come lui arrivò alla forma “a scatola” come soluzione ai problemi che stava tentando di risolvere nei suoi dipinti. Il parallelepipedo era la soluzione formale a problemi che erano basilari ed interni al suo lavoro, e invero, era parte della sua evoluzione personale come artista. Probabilmente Judd, Robert Morris e Tony Smith erano arrivati del tutto indipendentemente a questa forma in un modo valido all’incirca nello stesso periodo. Ma quando il curatore della mostra Strutture Primarie al Jewish Museum di New York l’invitò a partecipare, Judd fu piuttosto scioccato nell’apprendere che il curatore aveva messo insieme un’esposizione intera di dodici o quindici artisti, in cui la maggior parte di loro proponevano parallelepipedi. Risultò che molti artisti avevano adottato la forma “a scatola” come necessario lasciapassare per partecipare all’ultima onda della nuova arte: il minimalismo. Quindi, mi è venuta in mente questa storia quando ho letto la sua domanda. La Seconda investigazione (1968/69) era parzialmente la mia stessa risposta critica al primo dei miei lavori che utilizzava fotografie sia nelle Protoinvestigazioni del 1965, con lavori come Una e tre sedie, sia nella Prima Investigazione, cominciata nel 1966, entrambe realizzate mediante l’uso della fotografia (ingrandimenti negativi di testi come definizioni del dizionario e voci etimologiche) che era, come forma di presentazione, intesa ad essere fatta e rifatta come uno strumento per sradicare l’aura e il carattere reliquiario della pittura, cosicché altre questioni avrebbero potuto essere poste sulla natura dell’arte e del linguaggio. Di conseguenza, la fotografia eventualmente emerse all’interno di ciò che più tardi fu percepito come una specie di pratica “d’avanguardia” e mi condusse ad abbandonarne l’uso nel 1968 per diversi anni a seguire, a cominciare La Seconda Investigazione e a dedicarmi con essa all’uso di mezzi di comunicazione pubblici ed anonimi. D’altronde era esistita una sorta di “belle arti della fotografia” in parallelo per qualche tempo con la pratica della pittura e aveva tutti i problemi della pittura. Era perciò sia vetero-conservatrice (con l’appellativo popolare di “il realismo”) sia neo-conservatrice (definito in base al medium, legata perciò al meglio e al peggio del modernismo).
L’arrivo dell’“arte concettuale”, così come la necessità dei land-artisti di avere qualcosa da esporre in galleria, fece sì che la fotografia fosse considerata sempre più parte di una pratica di avanguardia in un modo che non si vedeva più dai tempi di Man Ray e di altri dadaisti dei primi del secolo. Quindi, mentre questo era un periodo in cui gli altri poi stavano cominciando ad usare la fotografia nel loro lavoro, io giunsi invece alla conclusione che la fotografia stava cominciando a condividere molte delle limitazioni della pittura: definita formalmente e tecnicamente – sia nella percezione dei limiti che dell’innovazione – e basata su un a-priori che stabilisce il suo significato come arte attraverso l’autorità di tale forma. Mi sembrò che tutte le attività di arte definite tramite i media stavano cominciando a condividere questa caratteristica, e noi sappiamo che questo è un importante aspetto del modernismo. La natura dell’arte, per me era divenuta l’interrogazione sulla natura dell’arte e, così facendo, un riflettere sul contesto del farsi del significato. Tale visione della produzione di significato nella cultura ha implicazioni politiche e sociali. Ancora forme di autorità chiaramente ostacolano questo processo di interrogazione. E, attenendosi a come Clement Greenberg definì a suo tempo il modernismo, la visione istituzionale dell’arte del modernista era che essa fosse compresa nell’obiettivo kantiano di trovare i limiti del mezzo. Per me, la questione era comunque più vasta e cioè: come l’arte produce significato, prima rispetto a se stessa e poi come “se stessa” nel mondo? Per scoprire questo io sentii che dovevo chiedere: come fa l’arte a generare il significato di arte fuori da questo contesto formalmente legittimante? Era come “un’opera nel mondo” da cui noi non solo possiamo capire come l’arte produce il suo proprio significato, ma anche come la cultura stessa è prodotta.
Per me il ricorso ai media pubblici come strumento di presentazione era ovvio e necessario per diverse ragioni. Esso scindeva l’evento dell’opera dal tipo di forma fisica dell’arte che invece gli veniva associato con lo stile alto del modernismo. Siccome non ci si aspettava di trovare “l’arte” in uno spazio riservato alla pubblicità (come negli spazi per le affissioni o annunci di giornale) questa non era definita come arte a priori, come accadeva invece con la pittura, la scultura o la fotografia, che quindi bloccano il processo di interrogazione. Senza dubbio con opere di questo tipo un approccio da formalista sarebbe assurdo. Dunque è importante sottolineare che in questo modo non si poteva fare appello a delle forme ereditate per la sua legittimazione come arte. Nonostante questo, era ancora arte. Ciò che questo allora poteva dirci era che c’è qualcosa di più nell’attività artistica oltre alla manipolazione di forme e colori. Ciò mi consentiva di distinguere l’attività artistica dalla concezione convenzionale di ciò che potrebbe essere considerato arte. In questo modo l’opera consentiva di porre questioni dall’interno della pratica stessa, cosa che una forma più tradizionale di arte non permetteva. Questo rappresentava anche un importante contributo politico a questo processo. Io facevo parte di una generazione che, nel 1968, aveva importanti questioni da porre alle forme di autorità istituzionalizzate di ogni tipo. La pittura appariva insulare ed elitaria. Usare gli organi della cultura di massa senza blandire le masse (come fanno Walt Disney o le pubblicità dei prodotti) aveva un senso particolare per me, e sarebbe difficile per me disgiungerlo dal particolare interesse che nutrivo per l’attivismo politico in quel periodo, sebbene molti abbiano tentato di fare così da allora sia a destra che nell’autoproclamata sinistra.
Quindi, l’uso dei media pubblici nella Seconda Investigazione fu la mia risposta a questa situazione. Mentre sentivo che opere come Una e tre sedie avevano iniziato questo processo di messa in questione, ero preoccupato che esso non fosse sempre più limitato da una nuova interpretazione che veniva data alle opere che si servivano della fotografia. L’opera La Seconda Investigazione usava come sua “forma di presentazione” anonimi annunci nei media pubblici come riviste, giornali, cartelloni pubblicitari, volantini e anche spot televisivi. Come pure viene sostenuto nella sua domanda quest’opera è ritenuta uno dei primi usi noti del contesto per la produzione di opere d’arte, e, certamente, io credo che dovrebbe essere vista come qualcosa di specifico e completamente diverso dall’arte pubblicitaria che è seguita nella decade successiva e che continua tutt’oggi, dove questa strategia di presentazione è spesso usata come fine a se stessa, molto più in accordo con i principi del modernismo. Il contenuto degli annunci che ho utilizzato nel 1968 era basato su una “tassonomia del mondo” sviluppata da Roget come Sinossi delle categorieper usarla nel suo Thesaurus. Ogni annuncio era costituito da una voce tratta da questa sinossi, che in effetti immette nel mondo dei frammenti della sua stessa descrizione (a proposito, ciò riflette tre delle mie influenze di quel periodo: Wittgenstein, Benjamin e Borges). Ciò che ne scaturì, naturalmente, fu un’interrogazione sull’ontologia dell’opera d’arte: il ruolo del contesto, del linguaggio, della cornice istituzionale, della ricezione. Secondo me, la preoccupazione di quest’opera si concentrava chiaramente su ciò che doveva rimanere l’interesse centrale della mia arte.
Verso la metà degli anni Sessanta mi sembrava assolutamente ovvio che il problema degli artisti non era la materializzazione o la smaterializzazione dell’opera. Infatti quest’opera non era neanche interessata ai materiali. In ciò la mia opera aveva una collocazione completamente diversa rispetto all’arte povera. Il significato stesso divenne la questione che definiva la mia opera, come pure definiva questa attività che divenne nota più tardi con il nome di arte concettuale. Ci si potrebbe chiedere: quali sono le questioni manifestate nelle opere concernenti la funzione del significato nella produzione e ricezione delle opere d’arte? Qual è il limite del linguaggio come modello, e qual è la sua applicazione, sia nella teoria che nella produzione di opere effettive? Quindi, ci si potrebbe chiedere, qual è il ruolo del contesto, sia esso architettonico, psicologico o istituzionale, sulla lettura sociale, culturale e politica dell’opera? Il campo da gioco dell’opera non era la piatta superficie del quadro o il suo bordo, non era neanche collocato nei media, il contesto stesso era il campo da gioco e che organizzava il significato. Erano queste le questioni che separavano l’arte concettuale dall’agenda modernista che la precedeva, ed è questa pratica non-prescrittiva che è rimasta abbastanza flessibile da consentirle di durare e, ovviamente, di continuare a fornire la base della pertinenza dell’arte concettuale alla recente pratica artistica. In questo senso l’arte concettuale costituiva il punto di arrivo a una liberatoria post-modernità.."
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In estrema sintesi e per iniziare:
l'Arte Concettuale mira a raccontare delle idee, tutte le altre raccontano storie.
Ma forse è meglio lasciarlo spiegare al padre contemporaneo dell'Arte Concettuale Joseph Kosuth e con calma poi risalire a Marcel Duchamp e divagare oltre
Massimo Donà, Arte e Accademia
Joseph Kosuth, Four Questions Answered
INTERVISTA
Joseph Kosuth, Quattro risposte a quattro domande
Joseph Kosuth è riconosciuto come l’esponente di punta dell’arte concettuale, una corrente delle avanguardie degli anni Sessanta che ha avuto molta fortuna anche come punto di riferimento per le ricerche artistiche degli ultimi due decenni. Lo scopo dell’arte concettuale, per come la intende Kosuth, è quello di trasformare la ricerca artistica in una ricerca sul significato stesso dell’arte, abbandonando così il terreno della semplice innovazione stilistica. In questo senso il concettuale sfuggirebbe anche alla nozione moderna di “avanguardia”, venendo a gettare le basi per un lavoro di indagine svincolato dalla dinamica del succedersi degli “ismi”. Nato a Toledo (USA) nel 1945, inizia a concepire le sue prime e fondamentali opere concettuali verso la metà degli anni Sessanta – opere come One and Three Chairs sono del 1965 – anche se il successo dell’arte concettuale giunge verso la fine degli anni Sessanta. L’arte di Kosuth si è sempre attenuta a un atteggiamento lucidamente analitico che è sempre rimasto in dialogo con il terreno della riflessione filosofica, a partire dai riferimenti a Wittgenstein fino a quelli al post-strutturalismo francese. Tra gli scritti teorici di maggior rilievo di Kosuth ricordiamo Art after Philosophy del 1969 (trad. it. 1987, L’arte dopo la filosofia).
D. Sig. Kosuth, lei è stato considerato come uno dei fondatori della cosiddetta “arte pubblica” poiché collocava già dagli anni Settanta delle frasi artistiche (o meglio delle frasi-opere) fuori dalle gallerie attraverso manifesti, inserzioni sui giornali e così via. Adesso molti artisti svolgono le loro operazioni artistiche in spazi pubblici e questo fenomeno è molto diffuso. Lei pensa che si tratti semplicemente di una moda oppure pensa che ci sia (in queste operazioni dei giovani artisti) un background teorico che è in continuità con la sua esperienza artistica?
R. Donald Judd una volta mi raccontò una storia di come lui arrivò alla forma “a scatola” come soluzione ai problemi che stava tentando di risolvere nei suoi dipinti. Il parallelepipedo era la soluzione formale a problemi che erano basilari ed interni al suo lavoro, e invero, era parte della sua evoluzione personale come artista. Probabilmente Judd, Robert Morris e Tony Smith erano arrivati del tutto indipendentemente a questa forma in un modo valido all’incirca nello stesso periodo. Ma quando il curatore della mostra Strutture Primarie al Jewish Museum di New York l’invitò a partecipare, Judd fu piuttosto scioccato nell’apprendere che il curatore aveva messo insieme un’esposizione intera di dodici o quindici artisti, in cui la maggior parte di loro proponevano parallelepipedi. Risultò che molti artisti avevano adottato la forma “a scatola” come necessario lasciapassare per partecipare all’ultima onda della nuova arte: il minimalismo. Quindi, mi è venuta in mente questa storia quando ho letto la sua domanda. La Seconda investigazione (1968/69) era parzialmente la mia stessa risposta critica al primo dei miei lavori che utilizzava fotografie sia nelle Protoinvestigazioni del 1965, con lavori come Una e tre sedie, sia nella Prima Investigazione, cominciata nel 1966, entrambe realizzate mediante l’uso della fotografia (ingrandimenti negativi di testi come definizioni del dizionario e voci etimologiche) che era, come forma di presentazione, intesa ad essere fatta e rifatta come uno strumento per sradicare l’aura e il carattere reliquiario della pittura, cosicché altre questioni avrebbero potuto essere poste sulla natura dell’arte e del linguaggio. Di conseguenza, la fotografia eventualmente emerse all’interno di ciò che più tardi fu percepito come una specie di pratica “d’avanguardia” e mi condusse ad abbandonarne l’uso nel 1968 per diversi anni a seguire, a cominciare La Seconda Investigazione e a dedicarmi con essa all’uso di mezzi di comunicazione pubblici ed anonimi. D’altronde era esistita una sorta di “belle arti della fotografia” in parallelo per qualche tempo con la pratica della pittura e aveva tutti i problemi della pittura. Era perciò sia vetero-conservatrice (con l’appellativo popolare di “il realismo”) sia neo-conservatrice (definito in base al medium, legata perciò al meglio e al peggio del modernismo).
L’arrivo dell’“arte concettuale”, così come la necessità dei land-artisti di avere qualcosa da esporre in galleria, fece sì che la fotografia fosse considerata sempre più parte di una pratica di avanguardia in un modo che non si vedeva più dai tempi di Man Ray e di altri dadaisti dei primi del secolo. Quindi, mentre questo era un periodo in cui gli altri poi stavano cominciando ad usare la fotografia nel loro lavoro, io giunsi invece alla conclusione che la fotografia stava cominciando a condividere molte delle limitazioni della pittura: definita formalmente e tecnicamente – sia nella percezione dei limiti che dell’innovazione – e basata su un a-priori che stabilisce il suo significato come arte attraverso l’autorità di tale forma. Mi sembrò che tutte le attività di arte definite tramite i media stavano cominciando a condividere questa caratteristica, e noi sappiamo che questo è un importante aspetto del modernismo. La natura dell’arte, per me era divenuta l’interrogazione sulla natura dell’arte e, così facendo, un riflettere sul contesto del farsi del significato. Tale visione della produzione di significato nella cultura ha implicazioni politiche e sociali. Ancora forme di autorità chiaramente ostacolano questo processo di interrogazione. E, attenendosi a come Clement Greenberg definì a suo tempo il modernismo, la visione istituzionale dell’arte del modernista era che essa fosse compresa nell’obiettivo kantiano di trovare i limiti del mezzo. Per me, la questione era comunque più vasta e cioè: come l’arte produce significato, prima rispetto a se stessa e poi come “se stessa” nel mondo? Per scoprire questo io sentii che dovevo chiedere: come fa l’arte a generare il significato di arte fuori da questo contesto formalmente legittimante? Era come “un’opera nel mondo” da cui noi non solo possiamo capire come l’arte produce il suo proprio significato, ma anche come la cultura stessa è prodotta.
Per me il ricorso ai media pubblici come strumento di presentazione era ovvio e necessario per diverse ragioni. Esso scindeva l’evento dell’opera dal tipo di forma fisica dell’arte che invece gli veniva associato con lo stile alto del modernismo. Siccome non ci si aspettava di trovare “l’arte” in uno spazio riservato alla pubblicità (come negli spazi per le affissioni o annunci di giornale) questa non era definita come arte a priori, come accadeva invece con la pittura, la scultura o la fotografia, che quindi bloccano il processo di interrogazione. Senza dubbio con opere di questo tipo un approccio da formalista sarebbe assurdo. Dunque è importante sottolineare che in questo modo non si poteva fare appello a delle forme ereditate per la sua legittimazione come arte. Nonostante questo, era ancora arte. Ciò che questo allora poteva dirci era che c’è qualcosa di più nell’attività artistica oltre alla manipolazione di forme e colori. Ciò mi consentiva di distinguere l’attività artistica dalla concezione convenzionale di ciò che potrebbe essere considerato arte. In questo modo l’opera consentiva di porre questioni dall’interno della pratica stessa, cosa che una forma più tradizionale di arte non permetteva. Questo rappresentava anche un importante contributo politico a questo processo. Io facevo parte di una generazione che, nel 1968, aveva importanti questioni da porre alle forme di autorità istituzionalizzate di ogni tipo. La pittura appariva insulare ed elitaria. Usare gli organi della cultura di massa senza blandire le masse (come fanno Walt Disney o le pubblicità dei prodotti) aveva un senso particolare per me, e sarebbe difficile per me disgiungerlo dal particolare interesse che nutrivo per l’attivismo politico in quel periodo, sebbene molti abbiano tentato di fare così da allora sia a destra che nell’autoproclamata sinistra.
Quindi, l’uso dei media pubblici nella Seconda Investigazione fu la mia risposta a questa situazione. Mentre sentivo che opere come Una e tre sedie avevano iniziato questo processo di messa in questione, ero preoccupato che esso non fosse sempre più limitato da una nuova interpretazione che veniva data alle opere che si servivano della fotografia. L’opera La Seconda Investigazione usava come sua “forma di presentazione” anonimi annunci nei media pubblici come riviste, giornali, cartelloni pubblicitari, volantini e anche spot televisivi. Come pure viene sostenuto nella sua domanda quest’opera è ritenuta uno dei primi usi noti del contesto per la produzione di opere d’arte, e, certamente, io credo che dovrebbe essere vista come qualcosa di specifico e completamente diverso dall’arte pubblicitaria che è seguita nella decade successiva e che continua tutt’oggi, dove questa strategia di presentazione è spesso usata come fine a se stessa, molto più in accordo con i principi del modernismo. Il contenuto degli annunci che ho utilizzato nel 1968 era basato su una “tassonomia del mondo” sviluppata da Roget come Sinossi delle categorieper usarla nel suo Thesaurus. Ogni annuncio era costituito da una voce tratta da questa sinossi, che in effetti immette nel mondo dei frammenti della sua stessa descrizione (a proposito, ciò riflette tre delle mie influenze di quel periodo: Wittgenstein, Benjamin e Borges). Ciò che ne scaturì, naturalmente, fu un’interrogazione sull’ontologia dell’opera d’arte: il ruolo del contesto, del linguaggio, della cornice istituzionale, della ricezione. Secondo me, la preoccupazione di quest’opera si concentrava chiaramente su ciò che doveva rimanere l’interesse centrale della mia arte.
Verso la metà degli anni Sessanta mi sembrava assolutamente ovvio che il problema degli artisti non era la materializzazione o la smaterializzazione dell’opera. Infatti quest’opera non era neanche interessata ai materiali. In ciò la mia opera aveva una collocazione completamente diversa rispetto all’arte povera. Il significato stesso divenne la questione che definiva la mia opera, come pure definiva questa attività che divenne nota più tardi con il nome di arte concettuale. Ci si potrebbe chiedere: quali sono le questioni manifestate nelle opere concernenti la funzione del significato nella produzione e ricezione delle opere d’arte? Qual è il limite del linguaggio come modello, e qual è la sua applicazione, sia nella teoria che nella produzione di opere effettive? Quindi, ci si potrebbe chiedere, qual è il ruolo del contesto, sia esso architettonico, psicologico o istituzionale, sulla lettura sociale, culturale e politica dell’opera? Il campo da gioco dell’opera non era la piatta superficie del quadro o il suo bordo, non era neanche collocato nei media, il contesto stesso era il campo da gioco e che organizzava il significato. Erano queste le questioni che separavano l’arte concettuale dall’agenda modernista che la precedeva, ed è questa pratica non-prescrittiva che è rimasta abbastanza flessibile da consentirle di durare e, ovviamente, di continuare a fornire la base della pertinenza dell’arte concettuale alla recente pratica artistica. In questo senso l’arte concettuale costituiva il punto di arrivo a una liberatoria post-modernità.."
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