baleng
Per i tuoi meriti dovrai sempre chiedere scusa
E qui inserisco una frase sul "feticcio", anch'esso di un anno fa e anch'esso tratto dalla degenerata palude, argomento: Beuys come seguace di Steiner perfidocome si potrebbe riconoscere un falso? [a proposito di arte concettuale]
siamo piuttosto a livello dei falsi Fendi o Cartier, con l'aggravante che non possiamo nemmeno aggrapparci a superiori qualità del materiale o dell'esecuzione. Pertanto, ricordando le migliaia di reliquie sorte nel medioevo (la croce di Gesù risultava avere così tanti chiodi, sparsi nelle varie chiese, da potersene riempire tre grosse botti, così da far assimilare il Salvatore piuttosto ad un portaspilli che al Crocifisso; e così tante erano le schegge di legno della vera croce da poterci costruire un maestoso riparo per il Signore, i soldati e tutta la folla accorsa all'evento), dicevo che siamo ridotti a valutare i prodotti dell'AC come un feticcio, un - impossibile - autografo, una reliquia per cui varrà piuttosto la testimonianza dell'"io c'ero" che l'autorevolezza del pezzo in sé.
Che poi è la storia dell'orinatoio di Duchamp: quelli buoni son quelli che portano una sua firma. Il gesto dadaista dall'impeto incendiario e distruttore, vita e protesta, caso e senso del nulla, sì è rapidamente metamorfosato in un archivio storico artificialmente implementato.
Resta da vedere se una produzione dell'orinatoio-fontana per il popolo, in piccolo formato, un po' come con le torri di Pisa in resina o i David di Michelangelo in gesso e le torri Eiffel in miniatura, potrebbe ottenere il giusto successo e, soprattutto, se costituirebbe o meno un plagio.
L'aspetto "feticcio" dell'arte è legato alle sue origini più antiche. Anche in Steiner abbiamo un riunirsi degli aspetti religiosi e scientifici con quelli artistici, ma attraverso una evoluzione, una metamorfosi che produca oggetti favorevoli alla vita. Il feticcio è invece un'autorità morta, anzi, l'autorità della morte stessa.
Insomma, quando diamo più peso alla firma che alla qualità del lavoro, alla storia più che all'espressione, all'idea più che al valore intrinseco, al "magico" di un qualunque feticcio (fosse pure la banale realizzazione in serigrafia di una semplice frase paradossale) piuttosto che alla forza interna e formale di un lavoro, stiamo adorando divinità morte invece che riscaldarci al sole della vita. In realtà divinizziamo un cadavere, ed è questo il frutto forse più perverso del materialismo in arte. Per riallacciarmi al post precedente, stiamo preferendo la morte alla vita, o, se mi si concede l'espressione, l'autorità del morto a quella del guaritore.
Noto infine, a proposito di @giustino, che cercando di esprimere arte come vista nell'aspetto vitale, soprattutto vitale o vitalistico, il rischio, anche per lui, è che, mancando l'elemento pensiero creativo unitario, ci si ritrovi alla fine in mano un feticcio, cioè il semplice segno di un passaggio umano, per quanto questo segno possa essere più allegro e vivace di un barattolo o un feltro grigi di Beuys.