Bonolis su berlusconi: "mediaset ha rimbambito gli italiani"

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14/06/2015

Una brigata del British Army per la guerra sul web

Una brigata del British Army per la guerra sul web - Analisi Difesa

COMMENTO NOSTRO: Il British Army istituirà a breve una nuova brigata per le Psy Ops (operazioni psicologiche) e Info Ops (information operations) il cui campo di battaglia è rappresentato dai social media. D'altronde non è una novità: servizi segreti e comunicazione sono sempre andati di pari passo. Negli ultimi anni le PsyOps si sono adeguate al web e ai social network. In questo caso l'esercito britannico ufficializza l'operazione, ma da anni sono attive vere e proprie "squadre" specializzate nella guerra psicologica di ultima generazione. C'è una guerra globale in atto, ma è una guerra non convenzionale: è la guerra dell'informazione, che al giorno d'oggi si combatte principalmente su internet. E' sufficiente analizzare il ruolo cruciale avuto dal web nella creazione e nella gestione delle rivoluzioni colorate e delle primavere arabe: tutte rivolte pilotate dal potere, che si è servito di interi "eserciti" di agenti di PsyOps attivi su internet e in particolare sui social network.
 
Attenti all’America, quella vera: è povera, sola e disperata

Scritto il 21/8/15 • nella Categoria: segnalazioni

Confesso: sono stato, in gioventù, un grande ammiratore degli Stati Uniti. Poi, da inviato speciale, ho iniziato a girare questo grande paese in lungo e in largo ma non nelle solite, note grandi città – New York, San Francisco, Boston, Washington – bensì nell’America profonda, quella, noiosissima, mai battuta dai turisti e dove i giornalisti si recano solo se costretti dai loro direttori. Un paio di anni fa con la mia famiglia abbiamo trascorso le vacanze negli Usa; lasciammo la Grande Mela per addentrarci nello Stato di New York, su verso Albany e Catskills Mountains, sedotti dalla descrizione, letta sulle guide turistiche, dei tipici, deliziosi villaggi, simbolo di una vecchia America. Bastarono poche decine di chilometri per restare sconcertati: i villaggi erano davvero vecchi ma tutt’altro che deliziosi. Erano angoscianti, costellati di case derelitte e talvolta piegate su se stesse; viaggiavamo su strade piene di buche da cui spuntavano erbacce che nessuno strappava più da tempo e intorno a noi vedvamo solo povera gente. I più fortunati vivevano in baracche di legno, gli altri vagavano trascinando i propri cenci nei carrelli della spesa.
Scoprimmo, allora, l’altro volto dell’America, quello che i turisti non vedono mai sulla Fifth Avenue o nel centro di San Francisco, ed è un’America molto più numerosa di quanto si immagini, isolata, ignorata da tutti, abbandonata a se stessa. Capii allora che erano veritiere le denunce di un commentatore molto coraggioso l’economista Paul Craig Roberts; non uno qualunque, ma uno dei principali collaboratori del presidente Reagan, docente universitario, pluripremiato. Craig Roberts sostiene che parte dei dati concernenti gli Usa, a cominciare da quelli sulla disoccupazione, non sono attendibili, in quanto manipolati alla fonte. Per intenderci: è uno di destra, un liberale. Ma con gli occhi aperti e un’autentica passione civica al servizio del proprio paese. Ora, grazie alla segnalazione di un amico, scopro uno studio di due docenti americani, Hershey H. Friedman e Sarah Hertz, intitolato: “Gli Stati Uniti sono il miglior paese al mondo? Ripensateci”, basato su una serie di statistiche internazionali, da cui trova conferma il ritratto di un paese in fase di evidente involuzione sociale, politica ed economica.
Qualche dato: nella classifica sulla percentuale della popolazione che vive in povertà, gli Usa sono al 35esimo posto su 153. Quella riguardante i bambini in povertà nei paesi occidentali è ancora più disastrosa: gli Usa sono 34esimi su 35, solo la Romania fa peggio. Sono il quarto paese al mondo con la maggior disuguaglianza reddituale, dietro a Cile, Messico e Turchia. E gli stessi americani non si sentono molto felici: sono appena al diciassettesimo posto della classifica mondiale. L’aspettativa di vita è bassa: gli Usa sono appena 42esimi, mentre battono tutti riguardo la popolazione carceraria: hanno 2,2 milioni di detenuti, molto più della Cina (1,6 milioni) che però ha una popolazione oltre 3 volte maggiore e della Russia dell’orribile Putin (600 mila). Secondo una fonte insospettabile, l’“Economist”, nemmeno Stalin raggiungeva queste cifre.
Potrei continuare ma mi fermo qui. Intuisco lo sconcerto del lettore, che si chiede: ma come? Io pensavo che l’America… Già, lo pensavamo tutti, ma per valutare davvero questo Paese non ci si può limitare agli annunci ufficiali, che descrivono solo una parte della realtà, ignorando tutto quello che non collima con la verità ufficiale, con il mito che Hollywood e le tv continuano ad alimentare. Quanti film avete visto sui 45 milioni di americani in povertà? Quante denunce giornalistiche? Chi solleva questo tema nei dibattiti televisivi? La risposta è sempre la stessa: nessuno. Tutti pavidi e conformisti, tranne pochi commentatori coraggiosi come Paul Craig Roberts. That’s America. Purtroppo.
(Marcello Foa, “Viva il modello americano! O forse no, questi dati dimostrano un’altra verità”, dal blog di Foa su “Il Giornale” dell’11 agosto 2015).




Confesso: sono stato, in gioventù, un grande ammiratore degli Stati Uniti. Poi, da inviato speciale, ho iniziato a girare questo grande paese in lungo e in largo ma non nelle solite, note grandi città – New York, San Francisco, Boston, Washington – bensì nell’America profonda, quella, noiosissima, mai battuta dai turisti e dove i giornalisti si recano solo se costretti dai loro direttori.



Un paio di anni fa con la mia famiglia abbiamo trascorso le vacanze negli Usa; lasciammo la Grande Mela per addentrarci nello Stato di New York, su verso Albany e Catskills Mountains, sedotti dalla descrizione, letta sulle guide turistiche, dei tipici, deliziosi villaggi, simbolo di una vecchia America.



Bastarono poche decine di chilometri per restare sconcertati: i villaggi erano davvero vecchi ma tutt’altro che deliziosi.

Erano angoscianti, costellati di case derelitte e talvolta piegate su se stesse; viaggiavamo su strade piene di buche da cui spuntavano erbacce che nessuno strappava più da tempo e intorno a noi vedevamo solo povera gente. I più fortunati vivevano in baracche di legno, gli altri vagavano trascinando i propri cenci nei carrelli della spesa.


Scoprimmo, allora, l’altro volto dell’America, quello che i turisti non vedono mai sulla Fifth Avenue o nel centro di San Francisco, ed è un’America molto più numerosa di quanto si immagini, isolata, ignorata da tutti, abbandonata a se stessa.


Capii allora che erano veritiere le denunce di un commentatore molto coraggioso l’economista Paul Craig Roberts; non uno qualunque, ma uno dei principali collaboratori del presidente Reagan, docente universitario, pluripremiato. Craig Roberts sostiene che parte dei dati concernenti gli Usa, a cominciare da quelli sulla disoccupazione, non sono attendibili, in quanto manipolati alla fonte. Per intenderci: è uno di destra, un liberale. Ma con gli occhi aperti e un’autentica passione civica al servizio del proprio paese.
Ora, grazie alla segnalazione di un amico, scopro uno studio di due docenti americani, Hershey H. Friedman e Sarah Hertz, intitolato:
“Gli Stati Uniti sono il miglior paese al mondo? Ripensateci”, basato su una serie di statistiche internazionali, da cui trova conferma il ritratto di un paese in fase di evidente involuzione sociale, politica ed economica.
Qualche dato:
nella classifica sulla percentuale della popolazione che vive in povertà, gli Usa sono al 35esimo posto su 153.

Quella riguardante i bambini in povertà nei paesi occidentali è ancora più disastrosa: gli Usa sono 34esimi su 35, solo la Romania fa peggio.
Sono il quarto paese al mondo con la maggior disuguaglianza reddituale, dietro a Cile, Messico e Turchia.
E gli stessi americani non si sentono molto felici: sono appena al diciassettesimo posto della classifica mondiale.
L’aspettativa di vita è bassa: gli Usa sono appena 42esimi,

mentre battono tutti riguardo la popolazione carceraria: hanno 2,2 milioni di detenuti, molto più della Cina (1,6 milioni) che però ha una popolazione oltre 3 volte maggiore e della Russia dell’orribile Putin (600 mila).

Secondo una fonte insospettabile, l’“Economist”, nemmeno Stalin raggiungeva queste cifre.
Potrei continuare ma mi fermo qui. Intuisco lo sconcerto del lettore, che si chiede: ma come? Io pensavo che l’America… Già, lo pensavamo tutti, ma per valutare davvero questo paese non ci si può limitare agli annunci ufficiali, che descrivono solo una parte della realtà, ignorando tutto quello che non collima con la verità ufficiale, con il mito che Hollywood e le tv continuano ad alimentare.
Quanti film avete visto sui 45 milioni di americani in povertà?
Quante denunce giornalistiche?

Chi solleva questo tema nei dibattiti televisivi?

La risposta è sempre la stessa: nessuno.

Tutti pavidi e conformisti, tranne pochi commentatori coraggiosi come Paul Craig Roberts. That’s America. Purtroppo.
(Marcello Foa, “Viva il modello americano! O forse no, questi dati dimostrano un’altra verità”, dal blog di Foa su “Il Giornale” dell’11 agosto 2015).
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il ricatto

Maurizio Blondet 3 settembre 2015 0
il ricatto - Blondet & Friends



Quando il Corriere, La Stampa, e Il Manifesto pubblicano la stessa foto in prima pagina, il lettore avvertito capisce che è in corso un’operazione. Non che la foto non sia straziante; deve esserlo. Il Manifesto quasi ha scoperto il gioco col suo titolo rivoltante, cinico : “Niente Asilo”. Una battuta ‘di spirito’ – chissà che risate – sul corpicino, venuta sù come vomito dal peggior rigurgito romanesco, dimostra che i compagni del Manifesto, quando l’hanno escogitata e trovata buona, non stavano pensando al piccolo Aylan, o come si chiamava; stavano pensando a Salvini. E come con quella foto lo stavano inc***do.
Perché quello è il motivo della foto, dell’operazione: stroncare ogni obiezione politica e razionale sulla “accoglienza senza limiti”, ogni ragionamento sul perché e sul come. E mobilitare il sentimentalismo della massa che vive nell’irrealtà (quella che su Facebook si scambia immagini di gattini), orripilarla, farla reagire di fronte a questa intrusione della realtà: “Bisogna fare qualcosa! Subito! Accoglierli!”.
Il più untuoso è stato il direttore de La Stampa, Mario Calabresi. Ha postato la foto con un commento in cui raccontava come si è macerato ed ha sofferto: non voleva pubblicarla, troppo cruda; poi “Ho cambiato idea…E’ l’ultima occasione per vedere se i governanti europei saranno all’altezza della Storia. E l’occasione per ognuno di noi di fare i conti con il senso ultimo dell’esistenza”.
Il suo commento è piaciuto alla cosca di RaiTre, che l’ha chiamato, il Calabresi, a lacrimare sulla necessità di accogliere. Ebbene: in un’ora, il direttore di uno dei maggiori giornali italiani, esperto di politica estera e americana, è riuscita a non dire chi sono i responsabili della tragedia che si è rovesciata sul popolo siriano. E’ riuscito a non pronunciare mai la parola “Stati Uniti”, a non dire che i terroristi in guerra contro Assad sono alimentati dai sauditi, addestrati dagliamericani, e sostenuti dalla Turchia, e i feriti dell’ISIS, sono curati negli ospedali israeliani.

Una disinformazione disonorevole, ma evidentemente Calabresi fa’ il suo lavoro per queste operazioni. Perché il pubblico avvertito – ma non quello di Facebook – deve capire che foto atroci arrivano ogni giorno ai giornali, dalla Siria: impiccati, decapitati dai “ribelli anti-Assad”.
Quelle non si pubblicano, si ha rispetto del vostro stomaco, vi si lascia ad intenerirvi coi gattini. “Non le possiamo pubblicare”, ha sempre ripetuto Calabresi.
Dunque, il pubblico avvertito deve intuire che, se “questa” l’hanno pubblicata, è per suscitare un effetto. Un effetto psichico collettivo, su di voi. Convincervi che “la politica deve fare qualcosa, subito”.
E infatti la politica, sulla spinta della vostra emozione sapientemente provocata, “farà qualcosa”. Era già pronta a fare qualcosa, fra poche settimane il problema dei profughi sarà affrontato all’ONU…era tutto previsto. Ci mancava la foto che vi avrebbe fatto accettare quel che hanno già deciso.
Perché non dovete credere che Calabresi abbia il cuore tenero verso tutti i bambini.
Ha scelto di “non” pubblicare la foto che vedete qui:
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Un bambino di 5 anni, Raed Mohammed Sari, ucciso mentre giocava sulla spiaggia di Gaza da un aereo israeliano, senza motivo alcuno, il 16 luglio del 2014.

Come sapete, ce ne sono a dozzine di foto così da Gaza. Calabresi ha scelto di “non” pubblicarle. Per non farvi reagire all’orrore che Israele sta commettendo a Gaza, per non farvi gridare, di pancia, che “bisogna fare qualcosa”.





Dunque, se Calabresi, e quelli del Manifesto dalla battuta odiosa, e quelli del Corriere, hanno “scelto”, questa volta, di pubblicare quella foto, è perché vogliono esercitare il ricatto morale contro di voi.
Non vi dicono che cosa davvero succedere alla povera Siria, da cosa fuggono i siriani.



La rete tedesca Deutsche Welle ha mostrato centinaia di camion carichi di materiali per l’ISIS in attesa, in lunga fila, nel posto di frontiera turco di Oncupinar, per poi scaricare i loro rifornimenti al Califfato; basterebbe che la Turchia fosse obbligata a smettere questo traffico, e la guerra finirebbe.



Time Magazine ha raccontato in un reportage come equalmente Tal Abyad, la cittadina siriana di confine con la Turchia, era vitale per i rifornimenti dell’ISIS, e come la perdita di questa cittadina attaccata dai curdi avrebbe ridotto drasticamente la capacità combattiva dei decapitatori. Era giugno, e la AP vantava che i curdi avanzavano grazie agli intensi bombardamenti americani contro le posizioni del Califfato… quando per gli Usa, che hanno la base ad Incirlik in Turchia, non fanno nulla per tagliare le linee di rifornimento che dalla Turchia partono per il Califfo, sul confine dove operano commandos Usa e gente della Cia.





Le forze curde e quelle di Assad stanno sforzandosi entrambe di tagliare le linee di rifornimento del nemico. Ma sono entrambe limitate da una “zona di sicurezza” che gli Stati Uniti e i suoi alleati regionali hanno creato in territorio siriano alla frontiera, e che continuano ad allargare; quando l’armata siriana ha provato ad attaccare, l’aviazione turca e quella israeliana hanno aggredito le forze siriane, evidentemente per difendere questi “santuari” creati allo scopo di proteggere i terroristi jihadisti.
Gli Usa potrebbero eliminare l’ISIS in un mese – tagliando i rifornimenti – senza nemmeno entrare con alcuna truppa in territorio siriano. I profughi siriani tornerebbero a casa loro, l’orrore finirebbe…è vero,



noi italiani resteremmo con il problema degli africani che non fuggono da nessuna guerra, i cui paesi sono in tumultuoso sviluppo – ma almeno Calabresi avrebbe finalmente fatto qualcosa per la pace – se avessero detto quel che continuano a tacere. I nomi dei colpevoli, e l’appello a “fare qualcosa”.
 
Video mostra come media vi fanno il lavaggio del cervello

12 novembre 2015, di Daniele Chicca


LONDRA (WSI) – In soli quattro minuti un video riesce a mettere a nudo tutte le tecniche subdole con cui i media mainstream fanno il lavaggio del cervello. Le televisioni con la loro audience passiva e i giornali e i siti con le storie più scandalose che attirano lettori e clic: disastri, sesso e cronaca.


Un video educativo della serie “School of Life” dal titolo “Cosa c’è che non va nei media?” mostra come le televisioni e le grandi testate di informazione distraggono il 99,99% della popolazione dai fatti che contano, favorendo l’élite dello 0,01% che controlla il potere, i soldi e le guerre del mondo.
Lo scopo dei pochi eletti è quello di continuare a mantenere il controllo delle ricchezze a disposizione in uno scenario distopico di Orwelliana memoria. “Siamo cresciuti con l’idea che i media sono educativi e ci insegnano cosa succede nel mondo intorno a noi”.
Niente rimane una priorità a lungo per i grandi media.
Con notizie di esplosioni, epidemie, scandali a sfondo sessuale stuzzicano le fantasie degli utenti, illudendo il pubblico di essere tra i “normali”.
Anche la semantica è rivelatrice.
Le informazioni si chiamano “news” in inglese, perché i media sono ossessionati da quello che è nuovo, che dovrebbe avere maggiore importanza di quello che non lo è.
Appena passato l’interesse virale iniziale, la notizia passa in fretta nel dimenticatoio e non abbiamo aggiornamenti. Le notizie pretendono di darci le informazioni di cui abbiamo bisogno ma coprono solo quanto accaduto nelle ultime 24 ore. A volte i media pubblicano analisi fatte bene o reportage di denuncia, ma solo una manciata di lettori o spettatori presta attenzione. Perché sono contenuti giudicati troppo ‘seriosi’.
I media sono ossessionati inoltre dall’idea di dover rendere una storia eccitante per forza. Come se fosse l’unica maniera di creare un’audience. Le celebrità di cui si parla sono poi quelle sbagliate, secondo The School of Life. Anziché parlare delle starlette, attori e altri VIP del mondo dello spettacolo, bisognerebbe parlare delle persone che stanno cambiando il mondo. E ci vuole più varietà.


https://www.youtube.com/watch?v=NwPdAZPnk7k


Il calo dell’attenzione è un altro problema della società contemporanea e come i media fanno informazione non fa che accentuarlo. Così, conclude il video, non miglioriamo la nostra esistenza e il nostro sapere. Anzi, ne usciamo solo rintontiti.
I media sono liberi nella maggior parte dei paesi democratici, ma non funzionano come dovrebbero. Come dovrebbero essere allora? Come era già ai tempi di Platone, dovrebbero essere improntati in modo da inseguire giustizia, verità e saggezza.


Il ruolo dei media dovrebbe essere quello di informarci su quello che succede nel mondo. Ma allora perché, dopo che trascorriamo intere giornate bombardati da notizie, siamo così disorientati, frastornati, sovraccarichi e non riusciamo a concentrarci sulle cose che veramente hanno importanza per la nostra civiltà e per il suo sviluppo sano e progressivo?
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nov 15 Visto? Non era solo la Russia a dopare. Altri 11 Paesi sotto accusa. Ma è ancora una volta spin



Ricordate lo scandalo del doping? Sembra appartenere a un’altra epoca. La notte di sangue di Parigi ha modificato la nostra memoria e di fatto cancellato qualunque altra notizia, come avviene sempre in queste circostanze. E’ una delle regole del giornalismo e non c’è da stupirsene.
Ora che, almeno in parte, l’emozione per il dramma del 13 novembre inizia ad affievolirsi, è buona cosa verificare se ci siamo persi qualche notizia importante negli ultimi dieci giorni. E la risposta è sì. Lo avete indovinato: una di queste riguarda proprio il doping.
Forse ricorderete che il sottoscritto è stato uno dei pochissimi giornalisti a evidenziare come – stando ai resoconti di fonti autorevoli – l’inchiesta sul doping non riguardava solo la Russia ma anche altri Paesi, di cui tuttavia nulla si sapeva perché la parte del rapporto che li concerneva era stata secretata dall’agenzia anti-doping WADA. E questo rendeva molto plausibile il sospetto che lo scandalo fosse stato gestito per screditare la Russia e Putin, anteponendo ragioni politiche al desiderio di ripulire in maniera oggettiva e senza altri fini il mondo dell’atletica. Così attraverso l’uso selettivo delle fonti, una mezza verità diventava l’unica, devastante verità.
La mia tesi era così originale e controcorrente che è stata ripresa da alcune agenzie internazionali e due televisioni russe mi hanno intervistato. Poi la strage al Bataclan ha spazzato via tutto.
Ora scopriamo che quella vicenda non è affatto finita. Lo scorso 19 novembre la WADA ha pubblicato la parte secretata del rapporto e – lo avreste mai detto? – scopriamo che altri cinque Paesi sono risultati non conformi: Andorra, Israele, Argentina, Bolivia e Ucraina. E altri sei sono sotto osservazione. Mica Paesi qualunque. Trattasi di Francia, Spagna, Belgio, Grecia, Brasile e Messico.
Scopriamo voi, cari lettori, il sottoscritto e pochi altri. Non il grande pubblico, perché nessuno dei grandi media il 19 novembre ha pubblicato la notizia, che è scivolata via. La WADA in fondo ha compiuto il proprio dovere, le opinioni pubbliche di questi 11 Paesi non hanno saputo che anche le loro federazioni molto probabilmente dopavano gli atleti o comunque truccavano le carte.
Ma nella memoria collettiva la Russia resta l’unico, grande cattivo. Il timing di questa operazione di spin è risultato ancora una volta perfetto.
Capito come va il mondo, se sai gestire l’informazione?

Visto? Non era solo la Russia a dopare. Altri 11 Paesi sotto accusa. Ma è ancora una volta spin ? il Blog di Marcello Foa
 

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