https://www.wired.it/internet/web/2020/04/03/revenge-porn-network-telegram/
Wired fa un'altra inchiesta sul revenge porn dentro le chat di Telegram. Quello che ne emerge è sconvolgente: Oltre 43mila iscritti in due mesi, 21 canali tematici collegati e un volume di conversazioni che si aggira sui 30mila messaggi ogni giorno. Un’enorme chat accessibile a tutti, contenente foto e video di atti erotici e sessuali pubblicati senza il consenso o la consapevolezza delle vittime e utilizzati per mettere in scena il rito dello stupro virtuale di gruppo. Si trovano numeri di telefono e recapiti social, richieste esplicite di “rendere la vita impossibile” alle ex partner, inviando loro gli stessi scatti intimi di cui hanno perso il controllo. Una spirale perversa, che culmina in alcuni casi nella pubblicazione di materiale pedopornografico: video di minori (talvolta anche di 8-12 anni) che diventano oggetto di trattativa privata. “Chi ha dodicenni?” esordisce “Ragazzo”, che come quasi tutti i membri del gruppo partecipa alla discussione con un account fake, non collegato a un numero di telefono. “Magari” gli risponde 77gg77, prontamente accontentato da “booh” che digita solo “cercami”. Dove il sottinteso è: accordiamoci in privato. “Mentre il 90% mette m*rd@, io metto una bella tredicenne”, rilancia Amon, allegando l’immagine di un selfie allo specchio che con tutta evidenza sarebbe dovuto restare privato. Armando annuncia di voler “scambiare pedo”, un utente chiamato “46” lo accontenta e pubblica un video che sembra girato nei bagni di una scuola media. Dal 19 gennaio questo branco è di nuovo su Telegram, in una chat il cui titolo presenta un chiaro riferimento allo stupro. Il gruppo nasce, raggiunge il picco di utenti e viene infine cancellato da Telegram perché “utilizzato per diffondere contenuti pornografici”, fanno sapere gli amministratori della piattaforma. Però un messaggio fissato nella parte superiore della chat reindirizza a un “gruppo di riserva”, quello da ripopolare in caso di cancellazione. Gli utenti del gruppo sono molto attivi circa il profilo delle proprie vittime. Ci sono molti adolescenti, qualcuno scrive persino di essere un bambino, così da giustificare il suo interesse per la pedopornografia. I più giovani sono tendenzialmente i più accorti dal punto di vista della privacy, mentre i pochi account con nome, cognome e foto reale appartengono immancabilmente a persone adulte e uomini di mezza età. Ci sono i padri di famiglia, come Alfonso, che pubblica una foto di sua figlia ricevendo i complimenti del gruppo. “Grz”, risponde lui, e rimanda alla chat privata per ulteriori immagini. O come Joe Goldberg che, nascondendosi dietro uno pseudonimo, chiede al gruppo: “Come faccio a stuprare mia figlia senza farla piangere? ...tanto avrà voglia pure lei, le ragazzine di oggi sono talmente p*rch@ che si sc*perebber* pure i padri... se costringo mio figlio di 10 anni e mia figlia di 9 a sc*p@re con me, lo devo fare un video? ...tanto avrà voglia pure lei”. Lyne65 cerca di qualcuno che faccia “un tributo di mia figlia quindicenne, possibilmente adulti…gli ho rubato il cell”. Laddove per “tributo” si intende un’immagine che provi l’avvenuta masturbazione su supporto fisico (in genere tablet o carta stampata) che riproduce la foto della vittima. Una sorta di rito collettivo, per questo gruppo, che si rinnova a ogni singola richiesta, puntualmente esaudita. È qui che l’espressione stupro virtuale assume una connotazione completamente diversa, dolorosamente reale. Non c’è nulla di astratto in questa violenza: c’è il sesso utilizzato come mezzo per affermare dinamiche di potere, ci sono i carnefici e ci sono le vittime. Tutto accade su internet, ma le conseguenze hanno ben poco di virtuale. Le vittime sono tormentate da gogna e insulti: “Mi hanno scritto in privato su Instagram. All’inizio era solo una persona, poi sono diventate tre. Nel giro di un fine settimana avevo dieci richieste di messaggi e ho capito che forse qualcosa non andava”. Serena ha 21 anni, studia fuori sede e da qualche giorno ha sospeso tutti i suoi account social: “Qualcuno ha preso delle foto dal mio profilo Instagram e le ha pubblicate sul gruppo. Non mi vergogno di quelle immagini, è tutta roba pubblica, ma è stato un po’ come gettare un pezzo di carne in un gabbia di cani affamati”. “Non ho fatto troppo caso ai primi messaggi arrivati, non è raro che qualcuno ci provi sui social. Poi però sono passati agli insulti, di quelli che di solito vengono riservati alle donne. Uno di loro mi ha detto: fai la tr*i@ e poi non ci stai? Sono felice che ti abbiano messa su Telegram”. E poi le ha mandato un link per invitarla a partecipare al gruppo. Secondo Amnesty International, in Italia almeno una donna su cinque ha subito molestie e minacce online e sebbene il caso di Serena non si configuri propriamente come revenge porn, non vuol dire che faccia meno male: “Penso sempre a chi possa aver deciso di pubblicare le mie foto, le mie generalità. Potrebbe essere chiunque, è vero, ma se fosse stato un mio amico?”. Nel gruppo, composto per la stragrande maggioranza da uomini, le foto delle ex ci finiscono di solito per vendetta o come moneta di scambio. Da queste parti vige infatti una economia del baratto, dove il valore di una foto è dato dalla sua capacità di essere percepita come intima e reale. Le foto prese da Instagram avranno dunque un valore relativamente basso, ma le storie, se opportunamente registrate, nel giro di 24 ore diventano delle piccole reliquie. Ai vertici di questa piramide della mercificazione ci sono tre oggetti di culto: le foto delle ex, alcuni video amatoriali particolarmente difficili da reperire e la mitologica “Bibbia 5.0”, un enorme file contenente gli scatti di migliaia di vittime di revenge porn, catalogate per provenienza (le foto arrivano perlopiù dai gruppi Facebook segreti de La Fabbrica del Degrado e Sesso, Droga e Pastorizia) ed esposte con nome, cognome e volto visibile. Sul gruppo c’è quindi chi, come Leo, vende foto intime della sua amica a 50 centesimi al pezzo, oppure “Cliccami”, che è intenzionato a pubblicarle gratis, per ripicca. Troviamo Dani, che scambia “foto con viso e Insta” della sua ex, ma solo “se avete pari materiale” e Max the Max, pronto a cedere “nome, cell e nudi” di quella che un tempo era la sua ragazza. Da luglio 2019, grazie ad una petizione promossa anche da noi, l’Italia si è dotata di una legge per contrastare il fenomeno del revenge porn, che prevede una reclusione fino a 6 anni e multe da 5mila a 15mila euro. Uno strumento giuridico utile per riconosce la necessità di tutelare le vittime di violenza su internet. Tuttavia non è sufficiente per fermare questo crimine disgustoso, diventato quasi una “moda” soprattutto tra i più giovani. Servono campagne di sensibilizzazione forti, corsi specifici nelle scuole e misure ancora più dure per contrastare la pedofilia. Abbiamo lanciato una petizione per contrastare tutto questo, oltre alla violenza sulle donne. Vi chiediamo di firmarla e diffonderla il più possibile:
Signez la pétition Non si può più stare zitte di fronte a tutto questo.