interessante articolo sulla borsetta nostra
Piazza Affari, la carica dei fondi esteri
VITTORIA PULEDDA
Anche per loro, per i fondi esteri, la mannaia dei riscatti si è abbattuta abbastanza duramente, facendo dimagrire i patrimoni e costringendo ad alleggerire le posizioni per far fronte ai riscatti. Inoltre, nel corso del 2008 qualche vendita ha avuto spesso una ragione di altra natura, legata ai cambi: chiunque abbia investito in euro, e poi abbia fatto i conti in dollari, infatti, ha guadagnato fino al 25%, a seconda del momento scelto per le operazioni. Per questo, rispetto ad un paio di anni fa, la presenza degli investitori professionali stranieri a Piazza Affari si è un po’ ridotta, ma comunque il "listino degli altri" è ancora corposo e nutrito.
Anzi nelle ultime settimane lo shopping sembra abbia subito un’accelerazione: non solo quello dei fondi sovrani, invocati e temuti in periodi di forte carenza di capitali; non solo quello di fondi aggressivi e determinati a trarre il massimo dalle società in cui investono (da Algebris, nelle Generali, al più istituzionale Amber) ma anche un nutrito gruppetto di fondi comuni "tradizionali", da sempre presenti sul mercato italiano, un plotoncino di operatori molto attivo, che a sentire gli intermediari rappresenta grosso modo l’80% dei volumi quotidianamente scambiati alla Borsa italiana.
Molto alta è anche la percentuale di possesso azionario stabile o quantomeno continuativa (sempre stime di mercato parlano, in media, di seiotto mesi di permanenza nello stesso investimento): ebbene, gli esperti ritengono che, ragionando in termini di flottante, grosso modo il 65% di Piazza Affari sia in mano a fondi comuni e sicav esteri. Togliendo la parte di listino bloccata dalle famiglie (e dalle holding) che hanno il controllo delle società, la cifra si ricava per differenza, valutando intorno al 15% la quota di flottante controllata dai fondi italiani (inclusi quelli esterovestiti) altrettanto quella dei privati e un 5% in media conservato negli scrigni di quei pochi fondi pensione attivi e delle assicurazioni.
Il resto del listino parla quasi esclusivamente inglese: tradizionalmente era Fidelity la più presente a Piazza Affari. Ora, a consultare il sito della Consob, è presente solo in due società, ma ci sono moltissime segnalazioni nell’ultimo anno e mezzo di posizioni prese e poi ridotte sotto la soglia del 2%; bisogna tener presente infatti per Fidelity come per molti altri operatori che tutto quello che è fermo all’1,99% non viene censito dalla Consob. Sopra la soglia del 2%, comunque, i nomi attivi non sono pochi: a partire dagli spagnoli di Bestinver (appena saliti in Cofide), o dell’inglese Barclays. Quest’ultima ha partecipazioni a Piazza Affari di tutto rispetto: complessivamente, ha quote per 2,146 miliardi di euro (ai valori della settimana scorsa). A parte Mediaset, la partecipazione più grossa, nel carnet di Barcalys ci sono molti titoli finanziari, da Unicredit al Banco Popolare, passando per Mps e Popolare di Milano, oltre al 2% più una manciatina di azioni Generali.
Non manca nemmeno qualche utility, come l’Enel; del resto, le società ex pubbliche sono generalmente molto apprezzate da questo genere di investitori: quote di Acea, Eni, Saipem, Enia e Iride (nonché di Telecom) sono nei portafogli di molti fondi esteri. Fino al caso di Terna, che non compare in questo elenco perché al momento non ha singoli investitori sopra la quota del 2%, ma di cui circa il 34% è in mano ai fondi comuni e sicav esteri. La ragione è abbastanza intuitiva: in genere le società privatizzate hanno un larghissimo flottante e capitalizzazioni importanti, quindi è più agevole prendere partecipazioni e soprattutto venderle senza far ballare troppo i prezzi o ancora peggio restare incastrati, senza poter più uscire dell’investimento; inoltre, spesso le regole di governance di questo genere di società sono più vicine alle concezioni dei mercati anglosassoni (dal voto di lista alla rappresentanza delle minoranze, ai consiglieri indipendenti), per cui sono piuttosto gettonate nelle scelte di questi soggetti.
Un altro investitore istituzionale di peso è Capital research, che custodisce nei suoi scrigni quasi il 5% della Fiat e altrettanto di Astaldi, Geox, Mediaset e Saipem; insieme alla quota Eni (poco più del 2%) e a qualche altra scelta tra società a minore capitalizzazione, Capital research ha quote per 2,312 miliardi di euro.
E ancora banche, cementieri e grandi lavori (Astaldi è piuttosto apprezzata da questo genere di investitori, insieme a Permasteelisa) per Jp Morgan, che aggiunge ai "soliti" nomi anche la Recordati. Tra gli altri tradizionali frequentatori del listino di Piazza Affari troviamo Templeton, Schroder, Credit Suisse e Goldman Sachs mentre sul versante dei titoli a mediopiccola capitalizzazione ha molto seguito Azimut, anch’essa società del risparmio gestito relativamente da poco a Palazzo Mezzanotte (è stata quotata nel 2004).
Un discorso a parte merita Amber. La società si è spesso messa in evidenza per la sua gestione "attiva" delle partecipazioni: non quanto il fondo Algebris, ma in genere la sua presenza nel capitale non passa inosservata. Il caso forse più clamoroso è proprio quello che non è compreso nell’elenco Consob: la quota nella Popolare di Milano. Una scelta che alcuni sostengono anche piuttosto corposa dal punto di vista delle quote che ha sollevato polemiche e un deciso braccio di ferro, per la negata iscrizione al libro soci (come previsto nelle banche Popolari). Dopo aver accusato infatti la banca di miopia e scarsa trasparenza decisionale (a causa del peso esorbitante dei sindacati nella gestione), gli uomini di Amber sono stati a loro volta accusati di scarsa trasparenza perché avevano la sede sociale in un paradiso fiscale e perché, secondo l’interpretazione della banca, non avevano un assetto societario chiaramente individuabile. Una polemica definitivamente superata una manciata di giorni fa, ora che le regole interne sono cambiate e Amber verrà "promosso" al rango di azionistasocio a tutti gli effetti.