Macroeconomia Crisi finanziaria e sviluppi

COMMENTO
La crisi, il mercato e i «subprime»
Tito Tettamanti *
Di questi tempi è di rigore dir peste e corna del mercato (e ovviamente del capitalismo).
I commenti negativi si sprecano e vanno dalla dichiarazione di decesso all’individuare nel mercato la fonte di tutti i possibili guai, alle richieste di regole che lo renderebbero irriconoscibile, al cercare di contrabbandare qualche cosa di diverso sotto il nome di economia di mercato e altro ancora.

I disastri ed ormai a livello globale i tempi duri per la vita economica sono sotto gli occhi di tutti. Comprensibile, visto l’aggancio tra vita economica e mercato, che emozionalmente e superficialmente si addossi a quest’ultimo ogni genere di responsabilità e colpa.

Che poi taluno che l’economia di mercato l’aveva dovuta accettare (senza digerirla) obtorto collo si rifaccia dalle frustrazioni passate non è giustificabile ma comprensibile. Stiamo ridiventando tutti – in testa coloro che pensano che essere pragmatici voglia dire non avere idee (o averle confuse) – interventisti, statalisti, dirigisti, confuso-keynesiani, fautori di super regole, super controlli.
Il bisogno ci rende inclini (con il riflesso pavloviano dei cani) a rivolgerci al vecchio buon caro Stato paterno e protettore. Torniamo ad illusioni del secolo passato.

Prima di passare all’esame di virtù e debolezze di singoli sistemi economici, molto più modestamente vediamo di esaminare se in particolari aspetti dell’attuale crisi il mercato si sia macchiato veramente di tutte le colpe che gli vengono attribuite. Analizziamo ad esempio il rapporto tra il mercato ed il sistema ipotecario americano, patria dei «subprime» (espressione usata per definire delle ipoteche carta straccia). Una delle caratteristiche che dà dignità alla politica è l’avere progetti che contribuiscano alla diffusione del benessere dei propri cittadini.

Uno di questi progetti è senz’altro l’accesso alla proprietà della casa, inteso anche come modo per ottenere una sempre maggiore integrazione, per combattere indirettamente forme delinquenziali contro la proprietà, dare un maggior senso di indipendenza.

Ora il sistema ipotecario per il finanziamento di case monofamiliari negli Stati Uniti, dai tempi di Roosevelt non può essere definito un vero mercato come da noi in Svizzera.

La più grossa banca ipotecaria è nata statale, poi solo apparentemente privatizzata, ma sempre politicizzata ed in concorrenza con una seconda grossa banca ipotecaria con gli stessi difetti, il tutto in un regime di oligopolio. Parlo dei due istituti conosciuti come Fannie Mae e Freddie Mac che controllano più del 50% del settore.

La conduzione politicizzata e parastatale dei due istituti li ha portati sull’orlo della bancarotta e sono stati salvati a suon di miliardi nel 2008 da una sostanziale rinazionalizzazione.

Negli anni Novanta l’amministrazione Clinton aveva ritenuto di dare un ulteriore slancio alla politica d’integrazione mediante l’accesso alla proprietà. Il Department of Housing and Urban Development ha iniziato allora un severo controllo nelle altre banche erogatrici di mutui convinto che discriminazioni razziali impedissero agli afroamericani di ottenere finanziamenti ai quali dovevano avere diritto.

Constatato che ciò non era il caso, con sistemi di pressione diversi si cercò di convincere le banche ad allargare i cordoni della borsa anche quando la situazione finanziaria del richiedente non avrebbe dovuto permetterlo. Una politica più generosa (cioè imprudente) veniva gratificata da un migliore punteggio nella valutazione della banca, valutazione che serviva allorché permessi statali e licenze (per fusioni, aperture di succursali, ecc.) venivano richiesti. Si è ridotta persino la quota di capitale proprio del debitore al 3% (decisione del 2004 della Federal Housing Administration).

Si è fatto di tutto per fare accedere alla proprietà anche chi non ne aveva i mezzi. Non mi dilungo perché tutto quanto ho detto sopra è documentato ed ampiamente commentato in diversi scritti pubblicati negli USA. Ciò che voglio qui suggerire è che:

n Il sistema ipotecario americano non poteva e non può venir definito un mercato nel senso classico della parola, o se vogliamo era un mercato falsato dalla volontà e dall’ingerenza della politica.

Nulla contro la generosa idea dell’accesso alla proprietà, ma non mettiamo sul banco degli accusati il mercato per responsabilità che non gli competono. n La generosità politica tende spesso a dimenticare le esigenze della vita economica. L’accesso alla proprietà passa attraverso il risparmio: il dimenticarlo crea le premesse per i disastri ai quali assistiamo.

Che in una situazione falsata dalla pressione politica e dall’intervento statale una serie di avidi, furbastri o disonesti signori si siano precipitati a pesce per fare i loro affari non deve stupire.

Da che mondo è mondo l’intervento statale (chi non ricorda la Cassa del Mezzogiorno o gli scandali connessi a finanziamenti dell’UE) crea possibilità di arbitraggio (con espressione meno elegante di abusi, arbitrii, privilegi e corruzione) dei quali singoli, società, operatori economici approfittano per arricchirsi.
Ma questo non è né mercato né libera concorrenza.

Non voglio santificare o idealizzare il mercato. Diamo però ad ognuno il suo e non chiamiamo mercato un sistema ipotecario spurio originato dalla politica che ha portato ai «subprime».

* Finanziere
23.01.09 07:47:50
 
Siamo all'inizio, ma non si può certo dire che non si stiano impegnando :pozione::

23.01.09 18:03 - Usa: Commissione Senato presenta piano stimolo da 455 mld usd
WASHINGTON (MF-DJ)--La Commissione Finanze del Senato ha presentato un pacchetto di stimolo economico da 455 mld usd, che include 275 mld usd di benefici fiscali a favore di cittadini ed imprese

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In particolare, il programma del Senato permetterebbe ALLE AZIENDE DI CONVERTIRE
le perdite nette :jolly:IN RIMBORSI FISCALI
(dalla disposizione si escludono, pero', le imprese che hanno ricevuto fondi appartenenti al Tarp)
E DI RICEVERE DENARO DAL Governo per la ricerca O TIPOLOGIE alternative di credito fiscale.
La Commissione Finanze del Senato votera' il piano il prossimo 27 gennaio. red/est/dar
 
Accanto alla bolla finanziaria c'è anche una bolla di sovrapproduzione..

Perchè è particolarmente diffiicile uscire da questa crisi e certamente lascerà il segno anche nelle generazioni future:Quello che non è detto è che accanto alla bolla creta da una finanza selvaggia c'è una bolla enorme creata da una sovrapproduzione mondiale a cui non corrisponde oramai da tempo una adeguata domanda.
Cosa succede in soldoni: sinteticamente le Banche oltre ad essere in difficoltà di loro tendono a non dare + soldi alle imprese perchè a loro volta hanno a causa del massiccio import asiatico i margini ultracompressi con una scarsità di ordini per lo stesso motivo e spesso sfocia nel mancato pagamento di fornitrori banche e quant' altro.
Quindi le imprese saltano.Poi entrano in gioco le acquisizioni folli con leve allucinanti che hanno determinato quello che abbiamo visto di questi tempi.
In mezzo a tutto cio' si innestano la politica scellerata dei fondi sovereign cinesi che ancorchè essere ad esempio impiegati piu' saggiamente per creare un consumo interno per cercare creare un backup di fronte alla prevedibile diminuizione della domanda estera, sono stati impiegati per comprare pezzi di banche il cui valore è noto (essendo virtualmente insolventi) è prossimo allo zero...per foraggiare la granduer militare (ricordo le spese folli per creare il caccia di 4 generazione)...
A seguire un post interessante pubblicato da Santini che parla di un nuovo ordine mondiale:

Qualcuno sta soffiando sul fuoco della crisi economica globale? Se la "crisi terminale del capitalismo" sembra essere stata scongiurata con la socializzazione delle perdite del sistema finanziario internazionale e il suo essere riversata in termini di recessione sulla economia reale (ovvero su imprese e lavoratori), dal punto di vista geopolitico dinamiche parallele appaiono altrettanto chiare.
La globalizzazione, negli ultimi quindici anni, ha avuto questo motore fondamentale: la Cina produceva e gli Stati Uniti consumavano; la Cina vendeva e gli Stati Uniti compravano a debito. Il fenomeno è estremamente più complesso e con molti altri attori, ma questa sintesi essenziale ne svela il meccanismo più vero e cruciale.
Il risultato è che il colosso asiatico è stato il protagonista assoluto della crescita mondiale in questi anni, al punto che l'Asia (o più precisamente la "Cindia" come la chiama Federico Rampini) potrebbe essere il motore dell'umanità di questo secolo e soppiantare la civiltà occidentale.
Ma c'è un rovescio della medaglia. La Cina è diventata anche il più grande creditore degli Stati Uniti, avendo sopravanzato in termini assoluti il Giappone nel corso del 2008 detenendo 1.200 miliardi di dollari del debito pubblico americano (seguono in questa classifica, dopo il paese del Sol Levante, i paesi arabi produttori di petrolio del Golfo). Questo elemento apparentemente di forza è in realtà il punto debole centrale della Cina. L'economia di Pechino è legata a filo doppio con Washington e il collasso degli Usa non farebbe che trascinare con sé il Paese del Dragone. Non è un caso che i cinesi abbiano promesso 600 miliardi di dollari, il 20% del PIL, per salvare il sistema monetario internazionale (il piano Paulson americano ne prevede 700 e la BCE ne ha erogati 550).
La Cina, dunque, nel momento di sua massima espansione si trova anche nel momento di sua massima vulnerabilità e debolezza. Gli americani hanno tutto l'interesse strategico a mantenere legato, e dunque in una dimensione di controllo e dipendenza, l'amico/nemico cinese; questi non può fare altro che cercare di sfuggire alla tutela a stelle e strisce per provare a giocare la sua sfida al mondo voluta dalla sua odierna leadership.
La partita si delinea attualmente su due livelli nevralgici: Pechino ha assoluta necessità di avere un accesso stabile, sicuro ed indipendente, alle materie prime, in particolare alle fonti energetiche. Questo aspetto viene contrastato dagli americani sul piano militare con l'occupazione diretta di Asia centrale e Medio Oriente di cui le guerre di Afghanistan e Iraq sembrano essere solo il preludio.
Sotto un altro aspetto, la crisi economica mondiale sta avendo effetti dirompenti sul fragile equilibrio della società cinese. Nel paese si è innescata una bomba sociale che ora rischia di deflagrare.
Il capitalismo di stato si era retto finora su alcune variabili molto vantaggiose rispetto l'occidente. Da una parte una grande disponibilità di manodopera a basso prezzo, con livelli di produttività altissimi e una possibilità quasi illimitata di sfruttamento. D'altro lato pochi vincoli ambientali e conseguente abbattimento dei costi di produzione, almeno dal punto di vista strettamente economico. Infine, il mantenimento del valore della moneta nazionale, lo yuan, artificialmente basso rispetto al dollaro per favorire l'esportazione.
Ma l'equilibrio si è rotto. Il risultato dello sviluppo tumultuoso di questi anni è stato lo spopolamento delle campagne. Si calcola ormai che la migrazione interna, l'inurbamento dei contadini che divengono operai, assommi a 230 milioni di persone. In termini assoluti, se 730 milioni di cinesi vivono ancora nelle zone rurali, sono ormai 570 a vivere e lavorare in città. In settori come l'edilizia ed il tessile, i nuovi migranti rappresentano il 70-80% della forza lavoro.
Questo ha determinato la creazione di grosse sacche di povertà e disagio sociale. Nel 2009 saranno oltre 40 milioni i cittadini che beneficeranno del programma di aiuto statale per gli indigenti nonostante i parametri della soglia di povertà siano un terzo di quelli fissati dalla Banca mondiale (0,31 euro giornalieri contro 0,90). E nonostante tutto, la migrazione interna non si arresta poiché se un contadino guadagna mediamente 425 euro l'anno, un operaio impiegato nei cantieri dei giochi olimpici arrivava ad oltre 200 al mese.
Nelle province rurali ad est del paese si moltiplicano le manifestazioni di rivendicazione di condizioni di vita più eque e contro la corruzione. L'affermazione di un ceto sociale di nuovi miliardari contro l'impoverimento complessivo attuale è sempre più avvertito come profondamente ingiusto. Negli ultimi venticinque anni, da quando Deng Xiao Ping annunciò che arricchirsi non era più un peccato contro il socialismo, lo scarto tra ricchi e poveri è aumentato del 50% e in questo campo le politiche del governo per un maggiore bilanciamento del benessere sono fallite. Un rapporto di polizia di inizio dicembre lanciava l'allarme: "I rischi di sommosse su larga scala sono reali".
Mentre nella regione più produttiva del paese, il Guangdong, le fabbriche chiudono e si licenzia massicciamente, il governo cerca di correre ai ripari. Il presidente della Commissione economica, massimo organo del partito comunista nel settore, ha chiesto alle imprese di stato di non licenziare nessuno nel corso del nuovo anno, le imprese "dovranno mantenere la stabilità dei propri effettivi". Gli ha fatto eco il presidente della Commissione per le riforme: "Se non gestiremo al meglio le difficoltà attuali, potremmo correre dei seri rischi".
È la situazione dell'occupazione che si fa grave, ed in modo paradossale. Il tasso di sviluppo per il 2009 è previsto all'8%, straordinario rispetto agli altri paesi industrializzati ma in netto calo rispetto alle due cifre cui era abituata la Cina. Questo non permetterebbe al sistema economico di svilupparsi per assorbire tutti i lavoratori di cui avrebbe bisogno e che potenzialmente potrebbe impiegare. E i nodi vengono al pettine tutti insieme. Le imprese lamentano i lacci anti-inquinamento dovuti alle riforme ambientali che non erano più rinviabili e l'export frena perché lo yuan si sta apprezzando sul dollaro come richiesto dal Fondo Monetario Internazionale. A questo si deve aggiungere che la crisi recessiva in occidente potrebbe anche determinare politiche protezionistiche nei confronti della Cina: il partito democratico americano, tornato alla Casa Bianca, ha tra i suoi massimi esponenti dei noti fautori di questa linea (come Nancy Pelosi e Hillary Clinton).
La crisi economica del colosso asiatico è dunque strutturale e rischia di esplodere in crisi sociale anti-sistema. La situazione internazionale può diventare così una formidabile arma di destabilizzazione ed eventualmente ricatto nei confronti della classe dirigente cinese da parte di forze che sapessero controllare e indirizzare la crisi mondiale. La domanda da cui siamo partiti si colora di una luce rivelatoria: qualcuno sta soffiando sul fuoco della crisi per ottenerne un vantaggio geopolitico di straordinario valore? Alcuni analisti prevedono che il nuovo equilibrio del pianeta post-guerra fredda, che prevedeva la divisione ideologica tra occidente ed oriente del blocco eurasiatico sotto il controllo della "isola" nordamericana, sarà determinato dalla integrazione tra il grande debitore (gli Usa) e i grandi creditori (Cina e Giappone). Ovvero, dal secolo Atlantico al secolo Pacifico, in cui la zona eurasiatica non sarà più tenuta sotto controllo attraverso la divisione ma attraverso l'accerchiamento. E, ovviamente, questa architettura, come la precedente, sarà plasmata dal potere finanziario transnazionale: il caos economico mondiale, dunque, come fucina del nuovo ordine mondiale.

In realtà ci sarebbe da scrivere per dei mesi su questo tema che ritengo veramente interessante e che merita veramente qualcosa di piu' questo post.
 
ciao Lorenzo
molto interessante
sono convinto che la bolla del credito (di cui i subprime sono solo una delle facce), sia il motore della sovraproduzione (ritengo questa una conseguenza, non una causa)
sovraproduzione? e chi se ne frega? direi proprio di no:
come accadde all'africa, ora la storia si ripete: paesi poveri in cui installare fabbriche che richiamano i contadini (è dura lavorare la terra), dargli un salario che gli permette di vivere il sogno dei ricchi occidentali che si circondano di oggetti inutili... e nel frattempo le vecchie terre desertificano o comunque trascurate saranno incoltivabili per anni... impossibile tornare indietro
un tempo c'era la tratta degli schiavi, ma è diventata immorale e poi quella moderna è molto più semplice da gestire
quella povera gente era schiava della terra, della natura, e a dire il vero era la natura dell'uomo. una cosa invece è certa, che quelle persono ora sono schiave del denaro (e del sistema economico che si è costruito intorno ad esso)
anche in un'altra occasione mi è capitato di dire che io sia convinto che questa non è una crisi casuale a in parte architettata perchè oggi le guerre non si combattono più con le armi, ma con i soldi... il campo di battaglia è quello finanziario
e fino a quando il dollaro sarà la moneta di riferimento mondiale... gli usa non perderanno mai (non finiranno mai le armi)
 
Fortis Bank faces $18 billion loss
3:41 AM ET, Jan 23, 2009 - By Simon KennedyLONDON (MarketWatch) -- Fortis Banque, the former Belgian banking arm of Fortis and now controlled by the Belgian government, said late Thursday that it made a net loss of 14.1 billion euros ($18.2 billion) in the first nine months of 2008. The bank also said it will lose between 4 billion euros and 5 billion euros in the final quarter of the year. France's BNP Paribas had agreed to some Fortis assets and banking operations, but that deal has been put on hold after a court ruled shareholders must be given a say in the plans.
 
Below we highlight CDS prices for sovereign debt. These prices measure the cost of protection against default for 38 countries around the world. Specifically, the CDS prices represent the cost per year to insure $10,000 worth of sovereign debt for five years.
As shown, Argentina and Venezuela have the highest default risk, followed by Iceland, Kazakhstan, Russia, and Egypt. While the UK and US have relatively low default risk compared to most other countries, their CDS prices are getting worrisomely high. At the start of 2008, it cost about $8 to insure $10,000 of UK and US debt. It now costs $135 to insure UK debt and $75 to insure US debt. Japan has the lowest default risk of all of the countries highlighted, followed by Germany and France.



We also provide a chart of the year to date percentage change in default risk for the 38 countries. As shown, default risk has already risen 58% this year for Ireland, 53% for Belgium, 52% for Spain, and 51% for Portugal.

 
E' molto interessante, Paolo (e Buona Giornata:D); aldilà del fatto che sono strumenti che si prestano anche discorsi + meramente speculativi, comunque danno, come per l' appunto il voto numerico in una pagella, immediatamente la fotografia dello stato di salute di un Paese, di una obbligazione etc.
E l' Italia ha un bel febbrone.:(
 
buona giornata a tutti e buon week end prima di tutto ....

non riesco a capire come interpretare la seconda tabella di paolo:
indica l'aumento percentuale del rischio default nell'ultimo anno?

se così fosse, il rischio è aumentato più per la germania (29%) che per l'italia (17%) ???
 

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