mostromarino
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IL COMMENTO,cdt,oggi
PER NON FARE LA FINE DELL’ISLANDA
FRANCO AMBROSETTI *Presidente della Camera di commercio
D’ accordo.
Non siamo ancora usciti dalla recessione, ma i guru delle previsioni sembrano meno pessimisti, perfino l’OECD, dopo due anni rivede verso l’alto le stime di crescita economica, situandole allo 0,7% nel 2010 per i 30 Paesi industrializzati (Economist, 27.06.09). Questa leggera brezza di ottimismo ci lascia abbastanza indifferenti, perché il futuro è per sua natura imprevedibile. Non nutriamo una cieca fiducia nelle previsioni economiche, spesso aleatorie o peggio, ideologiche e strumentali con un grado di utilità pari a quello di un vecchio pianoforte scordato.
Ma la crisi c’è.
È una recessione più severa di quelle passate e, come le precedenti, passerà lasciando un panorama economico desolante.
Gli imprenditori (quelli veri) hanno, rispetto alla prognosi economica, opinioni non dissimili da quelle della teocrazia iraniana riguardo all’opera di Voltaire; perciò vanno per la loro strada, con il buon senso, la concretezza e la lungimiranza, che li caratterizza.
A loro poco importa se le recessioni siano causate da difetto di domanda aggregata come sostiene la teoria di Keynes, che, di fatto, non riesce a spiegare la «stagflation» degli anni Settanta, oppure da una combinazione di milioni di decisioni prese da consumatori e operatori economici in base alle preferenze e alla realtà tecnologica vigente.
Il dibattito tra i fautori di questo approccio microeconomico, dal basso all’alto, (che a noi piace molto) e i difensori della «general Theory» che tendono a vedere l’economia piuttosto come dalla cima di una montagna, in termini aggregati, è cosa per i ricercatori accademici che ben fanno a preoccuparsi sulle origini degli sbalzi nei cicli economici; sempre che un giorno, non troppo lontano, ci svelino l’arcano.
Ma a una cosa gli imprenditori credono tenacemente: alla «consistency» della politica economica, specie in materia monetaria e fiscale.
La credibilità di una politica economica nel tempo è premessa fondamentale, indispensabile per ogni imprenditore che se ne fa un baffo dei modelli econometrici con le loro simulazioni, delle squisite e sottili diatribe accademiche, delle visioni sfuocate di istituti di previsione, delle affermazioni pelose delle agenzie di rating (Lehmann Bros. il giorno prima di fallire era valutata AAA), dei consulenti aziendali, che in nome dell’efficienza taglierebbero anche le riprese nella nona sinfonia di Beethoven.
Alla fine del mese l’imprenditore deve versare i salari ai suoi dipendenti, l’attivo più importante di cui dispone un’azienda. Per lui ciò che conta è la sicurezza di sapere che vive in un Paese in cui la politica economica è coerente, credibile, duratura.
Ci puoi contare.
C’è stabilità anche se cambia il contesto politico. Questa caratteristica è una grande forza della Svizzera. E il Ticino, nonostante le difficoltà finanziarie che sappiamo, ha mantenuto fondamentalmente una linea di coerenza e affidabilità a dispetto di chi pensa che la politica economica possa essere volubile come Nerone.
Ora facciamo un passo avanti e chiediamoci come potremo mantenere questa credibilità quando l’inevitabile riduzione del gettito fiscale creerà grossi scompensi al bilancio statale.
Noi da anni andiamo sostenendo davanti a una platea di sordi che senza vere, profonde riforme strutturali lo Stato non uscirà dal pantano dei debiti. Alla domanda se sia questo il momento di tirare in ballo riforme, rispondo che non c’è mai un momento ideale per azioni dolorose. Ma quando il debito è aumentato per aiutare l’economia in sofferenza, aggiungendosi a quello precedentemente accumulato, sarebbe saggio approfittare del clima generale di crisi per introdurre quelle riforme di struttura che, una volta per tutte, farebbero partire un circolo virtuoso, e agendo sulle finanze nel lungo periodo renderebbe loro la stabilità necessaria.
Non è una misura anticiclica, che sarebbe prematura e pericolosa, ma l’inizio di un lavoro che comunque avrebbe tempi lunghi.
Si inizia dai compiti dello Stato: vogliamo continuare a essere banchieri, garagisti, commercianti di energia, immobiliaristi, agenzie di pulizia e quant’altro?
Noi pensiamo che sia giunto il momento per una seria riflessione sul ruolo dello Stato con l’obiettivo di privilegiare la sussidiarietà tra Stato e privato. Lo Stato agisca ove sa fare meglio del privato lasciando al privato ciò in cui è più capace.
Definiti quali compiti lo Stato vorrà tenere, seguiranno le riduzioni di organico, inevitabili, ma necessarie e attuabili senza traumi e licenziamenti se sapientemente preprogrammate. Oggi più che mai le aziende si interrogano sul loro «core business», eliminando ciò che non lo è.
E riducono i costi parallelamente alle attività che tagliano. Forse è giunto il momento che anche la Repubblica del Cantone Ticino rifletta su cosa vuol fare, con quali mezzi finanziari affrontare le sfide globali, nell’ambito di una strategia economica di lungo periodo rivolta a ridurre i costi strutturali.
Il ruolo di un CEO non si limita a gestire l’esistente ma deve essere in primis rivolto a creare nuove opportunità di successo e sviluppo duraturo.
Ciascun consigliere di Stato è CEO nel suo settore, ha la stessa missione.
Certo, l’assemblea, alla quale deve rendere conto, è molto più ostica, critica e spesso contro il progresso, se confrontata alle nostre assemblee degli azionisti.
Ma ciò non deve scoraggiare. Entrambi lavoriamo per il bene e il futuro delle nostre imprese, con rischi e opportunità analoghe. Sfatiamo il luogo comune che lo Stato possa indebitarsi come e quanto gli aggrada.
Anche gli Stati finiscono in bancarotta quando divengono insolventi. Successe, fra gli altri, alla potentissima Spagna di Filippo II nel 1575 e all’Islanda, meno di un anno fa.
PER NON FARE LA FINE DELL’ISLANDA
FRANCO AMBROSETTI *Presidente della Camera di commercio
D’ accordo.
Non siamo ancora usciti dalla recessione, ma i guru delle previsioni sembrano meno pessimisti, perfino l’OECD, dopo due anni rivede verso l’alto le stime di crescita economica, situandole allo 0,7% nel 2010 per i 30 Paesi industrializzati (Economist, 27.06.09). Questa leggera brezza di ottimismo ci lascia abbastanza indifferenti, perché il futuro è per sua natura imprevedibile. Non nutriamo una cieca fiducia nelle previsioni economiche, spesso aleatorie o peggio, ideologiche e strumentali con un grado di utilità pari a quello di un vecchio pianoforte scordato.
Ma la crisi c’è.
È una recessione più severa di quelle passate e, come le precedenti, passerà lasciando un panorama economico desolante.
Gli imprenditori (quelli veri) hanno, rispetto alla prognosi economica, opinioni non dissimili da quelle della teocrazia iraniana riguardo all’opera di Voltaire; perciò vanno per la loro strada, con il buon senso, la concretezza e la lungimiranza, che li caratterizza.
A loro poco importa se le recessioni siano causate da difetto di domanda aggregata come sostiene la teoria di Keynes, che, di fatto, non riesce a spiegare la «stagflation» degli anni Settanta, oppure da una combinazione di milioni di decisioni prese da consumatori e operatori economici in base alle preferenze e alla realtà tecnologica vigente.
Il dibattito tra i fautori di questo approccio microeconomico, dal basso all’alto, (che a noi piace molto) e i difensori della «general Theory» che tendono a vedere l’economia piuttosto come dalla cima di una montagna, in termini aggregati, è cosa per i ricercatori accademici che ben fanno a preoccuparsi sulle origini degli sbalzi nei cicli economici; sempre che un giorno, non troppo lontano, ci svelino l’arcano.
Ma a una cosa gli imprenditori credono tenacemente: alla «consistency» della politica economica, specie in materia monetaria e fiscale.
La credibilità di una politica economica nel tempo è premessa fondamentale, indispensabile per ogni imprenditore che se ne fa un baffo dei modelli econometrici con le loro simulazioni, delle squisite e sottili diatribe accademiche, delle visioni sfuocate di istituti di previsione, delle affermazioni pelose delle agenzie di rating (Lehmann Bros. il giorno prima di fallire era valutata AAA), dei consulenti aziendali, che in nome dell’efficienza taglierebbero anche le riprese nella nona sinfonia di Beethoven.
Alla fine del mese l’imprenditore deve versare i salari ai suoi dipendenti, l’attivo più importante di cui dispone un’azienda. Per lui ciò che conta è la sicurezza di sapere che vive in un Paese in cui la politica economica è coerente, credibile, duratura.
Ci puoi contare.
C’è stabilità anche se cambia il contesto politico. Questa caratteristica è una grande forza della Svizzera. E il Ticino, nonostante le difficoltà finanziarie che sappiamo, ha mantenuto fondamentalmente una linea di coerenza e affidabilità a dispetto di chi pensa che la politica economica possa essere volubile come Nerone.
Ora facciamo un passo avanti e chiediamoci come potremo mantenere questa credibilità quando l’inevitabile riduzione del gettito fiscale creerà grossi scompensi al bilancio statale.
Noi da anni andiamo sostenendo davanti a una platea di sordi che senza vere, profonde riforme strutturali lo Stato non uscirà dal pantano dei debiti. Alla domanda se sia questo il momento di tirare in ballo riforme, rispondo che non c’è mai un momento ideale per azioni dolorose. Ma quando il debito è aumentato per aiutare l’economia in sofferenza, aggiungendosi a quello precedentemente accumulato, sarebbe saggio approfittare del clima generale di crisi per introdurre quelle riforme di struttura che, una volta per tutte, farebbero partire un circolo virtuoso, e agendo sulle finanze nel lungo periodo renderebbe loro la stabilità necessaria.
Non è una misura anticiclica, che sarebbe prematura e pericolosa, ma l’inizio di un lavoro che comunque avrebbe tempi lunghi.
Si inizia dai compiti dello Stato: vogliamo continuare a essere banchieri, garagisti, commercianti di energia, immobiliaristi, agenzie di pulizia e quant’altro?
Noi pensiamo che sia giunto il momento per una seria riflessione sul ruolo dello Stato con l’obiettivo di privilegiare la sussidiarietà tra Stato e privato. Lo Stato agisca ove sa fare meglio del privato lasciando al privato ciò in cui è più capace.
Definiti quali compiti lo Stato vorrà tenere, seguiranno le riduzioni di organico, inevitabili, ma necessarie e attuabili senza traumi e licenziamenti se sapientemente preprogrammate. Oggi più che mai le aziende si interrogano sul loro «core business», eliminando ciò che non lo è.
E riducono i costi parallelamente alle attività che tagliano. Forse è giunto il momento che anche la Repubblica del Cantone Ticino rifletta su cosa vuol fare, con quali mezzi finanziari affrontare le sfide globali, nell’ambito di una strategia economica di lungo periodo rivolta a ridurre i costi strutturali.
Il ruolo di un CEO non si limita a gestire l’esistente ma deve essere in primis rivolto a creare nuove opportunità di successo e sviluppo duraturo.
Ciascun consigliere di Stato è CEO nel suo settore, ha la stessa missione.
Certo, l’assemblea, alla quale deve rendere conto, è molto più ostica, critica e spesso contro il progresso, se confrontata alle nostre assemblee degli azionisti.
Ma ciò non deve scoraggiare. Entrambi lavoriamo per il bene e il futuro delle nostre imprese, con rischi e opportunità analoghe. Sfatiamo il luogo comune che lo Stato possa indebitarsi come e quanto gli aggrada.
Anche gli Stati finiscono in bancarotta quando divengono insolventi. Successe, fra gli altri, alla potentissima Spagna di Filippo II nel 1575 e all’Islanda, meno di un anno fa.