Macroeconomia Crisi finanziaria e sviluppi

Dopo aver distrutto 40 mld con le loro banche gli islandesi vogliono entrare in europa. Io come cittadino europeo non li voglio, facciano l'unione monetaria con l'argentina e con l'ecuador

Islanda, premier: ingresso in Ue e in euro "opzione migliore"



REYKJAVIK (Reuters) - Il primo ministro islandese, Johanna Sigurdardottir, ha dichiarato che l'ingresso nell'Unione europea ed, eventualmente, nella zona euro è l'opzione migliore per lo stato islandese, pesantemente colpito dalla crisi. "A mio avviso l'opzione migliore è ancora entrare nell'Unione europea e adottare l'euro", ha affermato Sigurdardottir durante una conferenza stampa. Il premier ha aggiunto che il nuovo governo con i Verdi e la Sinistra, una coalizione tiepida nei confronti dell'ingresso nell'Ue, ha un comitato che studia diverse opzioni di politica monetaria per l'Islanda dopo il collasso del settore bancario e della valuta nel 2008.
index.asp


Da un punto di vista, come dire? moral-finanziario, sono d'accordo con te, Methos.
Ma in questo caso le considerazioni vanno ben oltre le pure analisi di tipo finanziario.
Mi spiego meglio: ancorchè essere gli Islandesi a fare pressing per entrare è l' establishment occidentale (bada bene: occidentale) a premere sull' Islanda affinchè entri nell' Euro: il motivo è rappresentato dalla posizione strategica dell'Islanda: è un dato di fatto che l' Artico continua a scongelarsi e mai come ora pullula di navi militari Russe e Nato; il Canadà ha rafforzato la propria presenza nel Nord estremo ampliando una base avanzata che aveva; i Russi mediante la loro lotta hanno stabilito un presidio pressochè fisso..il motivo di tutto questo affannarsi? semplice materie prime in primis, il controllo di aree strategiche in caso di conflitto in grado di mettere sotto scacco la Nato (blocco dell' Atlantico) o blocco della Russia(crea una linea Norvegia/Finlandia-Islanda-Groenlandia-Canadà-Usa, in grado di isolare la flotta russa dal contesto Atlantico.
E' talmente importante che addirittura se ricordo bene, è stato detto (Almunia ?) che l' Islanda in caso di volontà ad entrare nella Ue avrebbe una corsia preferenziale che in due/tre mesi max la traghetterebbe nelle strutture Ue.
Poco prima del meltdown delle banche isalndesi, i Russi diedero 4 mld di dollari ... per aiutare..
Quindi le valutazioni in questo caso esulano, davvero, da un contesto meramente economico e gli Islandesi ne sono consci di cio' a tal punto che l'entrata in Ue comporta quasi per automatismo la adesione alle strutture Nato che un po' di loro hanno manifestato bruciando le bandiere Nato Ue etc. ...solo che le alternative per loro sono: i Russi o la fame ergo...
 
omissis

..
Quindi le valutazioni in questo caso esulano, davvero, da un contesto meramente economico e gli Islandesi ne sono consci di cio' a tal punto che l'entrata in Ue comporta quasi per automatismo la adesione alle strutture Nato che un po' di loro hanno manifestato bruciando le bandiere Nato Ue etc. ...solo che le alternative per loro sono: i Russi o la fame ergo...


sottile e arguto
 
Io vorrei spostare un po l'attenzione su come ci immaginiamo le cose a crisi passata (perchè passerà, nevvero?). :)
Voglio dire che l'intervento degli stati all'interno del mondo della finanza e poi a cascata su quello dell'economia
stabilirà regole per cui la presenza dello stato si farà sentire. Questo per quanto? Diciamo che ci possiamo aggiornare a tra 5 anni?
Ma poi cosa succederà?
Si ricomincia tutto come prima con la finanza che negli ultimi tempi era diventata incontrollabile al punto da implodere?
Secondo me non dovrebbe essere di nuovo il liberismo assoluto, quel modello è fallito ed è improponibile.
Il libero mercato che si autoregolamenta forse esiste, la libera finanza no.
E anche ridimensionare il ruolo della finanza all'interno della società non mi parrebbe una cattiva idea.
Non dovrebbe esistere che un modello sociale sta in piedi solo se quelli che non hanno i soldi per farlo continuano a spendere.
Quando si fermano loro crolla tutto il modello.
Perchè, un po alla grossa, così è andata.
Sentir dire che per possedere un contratto di assicurazione
bisogna possedere il bene assicurato mi sembra un buon inizio (oddio, può anche apparire ovvio per altri punti di vista) idem per i Cds.
Ma io continuo ad avere paura che questa crisi non ci insegnerà abbastanza.
Mi piacerebbe conoscere altre opinioni :)
 
Ma quanto durerà questa crisi e che cosa ci aspetta? Europe2020 (di cui non convido molte cose ma che comunque forse prima roubini hanno azzeccato la venuta della crisi in corso) a dicembre ha delineato questo scenario. Dunque cinture allacciate a marzo...

Geab. N. 30 (16 dicembre 2008) CRISI SISTEMICA GLOBALE: NUOVO PUNTO DI FLESSIONE NEL MARZO
2009.
Quando il mondo prenderà coscienza che questa crisi è peggiore di quella
degli anni 30

LEAP/E2020 ritiene che la crisi sistemica globale conoscerà nel marzo 2009 un
nuovo punto di flessione di importanza simile a quella del settembre 2008. Il nostro
gruppo considera, infatti, che questo periodo sarà caratterizzato da una presa di
coscienza generale dell’esistenza di tre processi destabilizzatori dell’economia
mondiale, cioè:
1. la presa di coscienza della lunga durata della crisi
2. l'esplosione della disoccupazione in tutto il mondo
3. il rischio di un crollo brutale dell’insieme dei sistemi pensionistici a
capitalizzazione
Questo punto di flessione sarà così caratterizzato da un insieme di fattori
psicologici, cioè la percezione generale delle opinioni pubbliche in Europa, in
America ed in Asia, che la crisi in corso è sfuggita al controllo di ogni autorità
pubblica, nazionale o internazionale, che essa riguarda tutte le regioni del mondo
anche se alcune saranno più colpite di altre (vedere GEAB N°28), che tocca
direttamente centinaia di milioni di persone del mondo 'sviluppato’ e che non fa che
peggiorare man mano che le conseguenze si fanno sentire nell’economia reale.
I governi nazionali e le istituzioni internazionali non hanno che un trimestre per
prepararsi a questa situazione che è potenzialmente portatrice di un rischio
maggiore di caos sociale. I paesi meno attrezzati a gestire socialmente l'aumento
rapido della disoccupazione ed il rischio che cresce sulle pensioni saranno i più
destabilizzati da questa presa di coscienza delle opinioni pubbliche. In questo
GEAB N°30, il gruppo di LEAP/E2020 espone nei dettagli questi tre processi
destabilizzatori (di cui due sono presentati in questo comunicato pubblico) e
presenta le sue raccomandazioni per fare fronte a questo aumento dei rischi.
D'altra parte, questo numero è anche come ogni anno, l' occasione per una
valutazione oggettiva dell'affidabilità delle anticipazioni di LEAP/E2020, che
permette di precisare anche alcuni aspetti metodologici del processo di analisi che
attuiamo. Nel 2008, il tasso di successo di LEAP/E2020 è stato pari all'80%, con
una punta dell’86% per le anticipazioni strettamente socioeconomiche. Per un anno
di grandi sconvolgimenti, è un risultato di cui siamo fieri.
La crise durera au moins jusqu'à la fin 2010
Evolution de la base monétaire des Etats-Unis et indication des crises majeures corrélées (1910 – 2008) - Source : Federal Reserve Bank of
Saint Louis / Mish's Global Economic Trends Analysis
Come abbiamo esposto dettagliatamente nel GEAB N°28, la crisi influirà in modo
differenziato sulle varie regioni del mondo. Tuttavia, e il LEAP/E2020 desidera
essere molto chiaro su questo punto, contrariamente ai discorsi attuali degli stessi
esperti che negavano l'esistenza di una crisi in gestazione tre anni fa, che
negavano che fosse globale due anni fa e che negavano fa che fosse sistemica
soltanto sei mesi, anticipiamo una durata minima di tre anni per questa fase di
decantazione della crisi (1). Essa non sarà terminata nella primavera del 2009, né
nell’estate 2009, né all'inizio del 2010. E’ soltanto verso la fine del 2010 che la
situazione inizierà a stabilizzarsi e migliorare un po' in alcune regioni del mondo,
cioè in Asia e nella zona euro, come pure nei paesi produttori di materie prime
energetiche, minerali o alimentari (2). Altrove, continuerà. In particolare negli Stati
Uniti e nel Regno Unito, e nei paesi più legati a quest'economie, dove essa s'iscrive
in una logica decennale. E’ soltanto verso il 2018 che questi paesi potranno
prevedere un ritorno reale alla crescita. D'altra parte, non si deve immaginare che il
miglioramento della fine 2010 segnerà un ritorno ad una crescita forte. La
convalescenza sarà lunga; ad esempio, le borse impiegheranno un decennio per
ritornare ai livelli del 2007, se mai vi ritorneranno un giorno. Occorre ricordarsi che
Wall Street impiegò 20 anni per ritornare ai livelli della fine degli anni 1920. Ma,
secondo LEAP/E2020 questa crisi è più profonda e duratura di quella degli anni
‘30. Questa presa di coscienza della lunga durata della crisi gradualmente si
concretizzerà nelle opinioni pubbliche, nel corso del trimestre a venire. Ed
inizieranno immediatamente due fenomeni portatori d'instabilità socioeconomica:
paura e panico per il domani e una più forte critica verso i dirigenti del paese.
Il rischio di crollo brutale dell’insieme dei sistemi pensionistici a
capitalizzazione
Infine, nel quadro delle conseguenze della crisi che colpiranno direttamente decine
di milioni di persone negli Stati Uniti, in Canada, nel Regno Unito, in Giappone, nei
Paesi Bassi ed in Danimarca in particolare (3), occorre integrare il fatto che a
partire da questa fine d'anno si moltiplicheranno le notizie sulle perdite massicce
degli organismi che gestiscono gli attivi con i quali vengono finanziate queste
pensioni. L' OCSE stima in 4.000 miliardi USD le perdite dei fondi di pensione per il
solo anno 2008 (4). Nei Paesi Bassi (5) come nel Regno Unito (6), gli organi di
sorveglianza dei fondi pensione hanno appena lanciato grida d'allarme per un
urgente aumento dei contributi obbligatori ed un intervento dello Stato. Negli Stati
Uniti, vi sono annunci multipli di aumento dei contributi e di diminuzione dei
pagamenti che sono emessi ad un ritmo crescente (7). Ed è soltanto nelle
settimane a venire che molti fondi potranno fare realmente il conto di ciò che hanno
perso (8). Molto s' ingannano ancora sulla capacità di ricostituire il loro capitale in
occasione di una prossima uscita dalla crisi. Nel marzo 2009, quando
simultaneamente i gestori dei fondi pensione, i pensionati e i governi prenderanno
coscienza che la crisi durerà, che essa coinciderà con l'arrivo massiccio dei
“babyboomers„ alla pensione e che le borse hanno poche chance di ritrovare prima
di molti anni i loro livelli del 2007 (9), il caos s’innesterà in questo settore ed i
governi si avvicineranno sempre più all’obbligo d'intervenire per nazionalizzare tutti
questi fondi. L' Argentina, che ha preso questa decisione alcuni mesi fa apparirà
allora come un precursore. Queste tendenze sono tutte già in corso. La loro
congiunzione e la presa di coscienza da parte delle opinioni pubbliche delle
conseguenze che portano con sé costituirà la grande scossa psicologica mondiale
della primavera 2009, cioè che tutti saremo immersi in una crisi peggiore di quella
del 1929; e che non vi sarà un'uscita possibile dalla crisi a breve termine.
Quest'evoluzione avrà un impatto decisivo sulla mentalità collettiva mondiale dei
popoli e dei decisori e modificherà dunque considerevolmente il processo di
decorso della crisi nel periodo che seguirà. Con più disillusioni e meno certezze,
l'instabilità socio-politica globale aumenterà considerevolmente.
 
vedono proprio tutto nerissimo questi analisti di E2020... non si sono pronunciati nello specifico sui nostri bond ?
Al momento i minimi (generalizzati) di settembre/ottobre non si sono più visti.
 
http://www.azione.ch/ee/azione/


SCENARI
La crisi della globalizzazione

La recessione mondiale scoppiata nel 2008 può segnare una svolta nella storia dei mercati internazionali


Federico Rampini

Le diseguaglianze sociali sono cresciute quasi ovunque nel mondo, e in misura sensibile, ne­gli ultimi decenni. Questo non è un risultato dell’apertura delle nostre economie alla competizio­ne globale, bensì una conse­guenza del progresso tecnologi­co che ha creato un «divario digi­tale » tra mestieri ad alta qualifi­cazione e lavori sempre meno re­munerati. Il consenso tra la mag­gioranza degli studiosi punta in direzione di questa diagnosi: nei paesi industrializzati si soffre per un deficit di investimenti nella formazione, e per politiche di mobilità sociale insufficienti. Gli economisti li­beral
negli Sta­ti Uniti aggiun­gono che le po­litiche fiscali del periodo Clinton-Bush hanno accen­tuato questa tendenza favo­rendo i profitti contro i salari.
In Europa un effetto per­verso della concorrenza fi­scale tra Stati è quello di ac­centuare il pre­lievo fiscale sui redditi da lavoro (che non possono sfuggire al fi­sco nazionale) riducendo invece l’imposizione sulle rendite finan­ziarie e innescando così una re­distribuzione alla rovescia. Tutti questi argomenti però non costi­tuiscono una risposta definitiva sugli effetti sociali della globaliz­zazione. Anche se fosse vero che è il progresso tecnologico ad ave­re impoverito le fasce dei lavora­tori più dequalificati nei nostri paesi, resta pur vero che questo calo del loro potere contrattuale è amplificato dal fatto che oggi essi sono in concorrenza con
centinaia di milioni di lavoratori asiatici, o con la manodopera immigrata dai paesi emergenti che si stabilisce in Europa o negli Stati Uniti.
In quanto agli effetti pernicio­si delle politiche fiscali degli ul­timi decenni, è evidente una re­lazione con la libertà di movi­mento dei capitali. Un nesso con la globalizzazione esiste comun­que. La percezione di questo nesso è molto forte anche negli Stati Uniti, dove gli appelli al protezionismo vengono regolar­mente dalle zone di maggior concentrazione dei colletti blu, della classe operaia tradizionale, roccaforti del movimento sinda­cale e del partito democratico.
Un altro mo­do per affron­tare questo problema è analizzare l’al­ternativa tra economie fon­date sulle bas­se retribuzioni, o economie la cui competiti­vità è basata sull’alta spe­cializzazione.
Questo è un tema partico­larmente acu­to in Italia. Per la sua storia e per la natura del suo tessuto in­dustriale, l’Italia si è sentita più vulnerabile di fronte all’ascesa dei paesi emergenti, che l’hanno incalzata in alcuni dei suoi setto­ri tipici: il tessile-abbigliamento, il calzaturiero, il mobilio. Si è diffusa una «vulgata» della glo­balizzazione, per esempio nei li­bri di Giulio Tremonti: l’idea che noi affrontiamo la concorrenza di Cina, India, e altri, « con le mani legate dietro la schiena » perché abbiamo troppe regole da rispettare. I diritti dei lavora­tori e le leggi a tutela dell’am­biente sono citati come un far­dello.
In realtà proprio quei pae­si che hanno regole ancora più severe delle nostre – e le rispet­tano più di noi, vedi il caso della Germania – sono stati stimolati a inventare soluzioni avanzate che riescono a vendere alle na­zioni emergenti. Il business delle tecnologie verdi nasce laddove l’ingegno imprenditoriale è pun­golato da legislazioni severe.
Oltre al Nordeuropa un caso lampante è, negli Stati Uniti, quello della California. Dunque il teorema della «concorrenza ine­guale », quello secondo cui è im­possibile competere ad armi pari con sistemi che non hanno gli stessi vincoli, va esattamente ca­povolto: le nostre regole sono una ricchezza, perché ci costrin­gono già oggi a trovare soluzioni avanzate per i problemi dei paesi emergenti (come l’inquinamento che devasta Cina e India). Dai sondaggi dell’Eurobarometro si scopre che i paesi più spaventati dalla globalizzazione sono Italia e Francia. La visione più ottimi­sta della globalizzazione invece contraddistingue Svezia, Dani­marca, Finlandia. Sono i paesi che hanno investito di più nel­l’istruzione. Nei test di matemati­ca di fronte ai giovani finlandesi devono inchinarsi perfino i bra­vissimi studenti di Singapore, Hong Kong, o Bangalore.
Fino alla recessione del 2008, la Germania ha conosciuto una fase di boom delle sue esporta­zioni, ha consolidato le sue posi­zioni sul mercato cinese e in tut­ta l’Asia. Questi successi premia­no un modello di sviluppo che – in Germania come nell’area nor­dica – non è basato né sui bassi salari né su uno scarso rispetto dei diritti dei lavoratori. Al con­trario si tratta delle nazioni più avanzate del mondo in termini di conquiste sociali. Da questo punto di vista non c’è dubbio che la scelta da fare è un modello di sviluppo fondato sull’alta specia­lizzazione. Quei miracoli econo­mici
basati sui bassi salari sono fasi iniziali, tipiche del decollo dei paesi emergenti, inevitabil­mente transitorie.
Gli stessi dirigenti cinesi ne so­no consapevoli, visto che da al­cuni anni hanno cercato di sti­molare una riconversione della loro regione più industrializzata, il Guangdong, verso settori a maggiore valore aggiunto. Pechi­no proprio alla vigilia della crisi mondiale aveva iniziato a intro­durre elementi di legislazione del lavoro e regole dell’ambiente più severe, in uno sforzo per pre­pararsi ad una nuova tappa della sua crescita.
Un’altra alternativa è quella tra i sistemi economici a bassa pressione fiscale, e quelli ad alta redistribuzione del reddito, non­ché più generosi nell’erogazione dei servizi pubblici. America con­tro Europa. Per essere più chiari, America contro Germania, il mo­dello liberista anglosassone e il
modello renano di una «econo­mia sociale di mercato». Questa sfida sembra aver conosciuto uno spettacolare ribaltamento proprio per effetto della grande crisi del 2008-2009. E tuttavia la sfida in questione appariva ben più netta vent’anni fa.
Proprio ora che il disastro del sistema finanziario globale suo­na come una condanna senz’ap­pello contro il modello iperfinan­ziarizzato del capitalismo an­gloamericano, si scopre che quel­lo tedesco ha smesso nel frattem­po di credere in se stesso. La Germania non credeva più al modello renano. Le sue banche hanno scopiazzato i comporta­menti di Wall Street, finendo spesso in guai simili. Il suo esta­blishment capitalista ha scim­miottato quello americano. An­che se Angela Merkel di fronte alla crisi ha tirato fuori con orgo­glio il suo ethos luterano, e ha condannato con vigore il « capita­lismo fondato sui debiti » di Wall Street, gli industriali tedeschi si erano messi a giocare anche loro al casinò dei titoli derivati.
La presidenza Obama sembra indirizzare gli Stati Uniti verso una riforma consistente del pro­prio modello. L’America divente­rà un po’ più europea, nel senso di un aumento dell’intervento pubblico nell’economia, non fos­s’altro che per le vaste risorse statali mobilitate in operazioni di salvataggio del sistema creditizio e di alcuni settori industriali. Tuttavia la distanza da percorre­re perché l’America diventi «re­nana », per esempio in termini di generosità del suo Welfare State, è considerevole. Resterà aperto il confronto tra una società ameri­cana più flessibile, e disposta ad accettare dosi di rischio superiori (per esempio nella mobilità del lavoro) ed una società europea abituata a godere di livelli di protezione superiori.
Come la Germania ha tradito in parte il suo modello renano, però, anche l’Europa intera ha perso per strada alcuni pezzi del­la sua tradizione sociale. IlWelfa­re State continentale è meno pro­tettivo nei confronti dei giovani, dei precari, degli immigrati. La riluttanza di Obama a importare in America pezzi di assistenziali­smo europeo – per esempio l’as­sistenza sanitaria universale ero­gata dallo Stato – deriva dal fatto che i limiti del nostro modello so­no reali. La diffusa presenza del­lo Stato come erogatore di servi­zi ha fatto crescere in Europa bu­rocrazie pletoriche e parassitarie, che nessun paese riesce più a di­sciplinare per assoggettarle ai bi­sogni dei cittadini. C’è un’etica del servizio pubblico che va rico­struita, ed è forse proprio questa la sfida più interessante del New Deal di Obama.
 
Io vorrei spostare un po l'attenzione su come ci immaginiamo le cose a crisi passata (perchè passerà, nevvero?). :)
Voglio dire che l'intervento degli stati all'interno del mondo della finanza e poi a cascata su quello dell'economia
stabilirà regole per cui la presenza dello stato si farà sentire. Questo per quanto? Diciamo che ci possiamo aggiornare a tra 5 anni?
Ma poi cosa succederà?
Si ricomincia tutto come prima con la finanza che negli ultimi tempi era diventata incontrollabile al punto da implodere?
Secondo me non dovrebbe essere di nuovo il liberismo assoluto, quel modello è fallito ed è improponibile.
Il libero mercato che si autoregolamenta forse esiste, la libera finanza no.
E anche ridimensionare il ruolo della finanza all'interno della società non mi parrebbe una cattiva idea.
Non dovrebbe esistere che un modello sociale sta in piedi solo se quelli che non hanno i soldi per farlo continuano a spendere.
Quando si fermano loro crolla tutto il modello.
Perchè, un po alla grossa, così è andata.
Sentir dire che per possedere un contratto di assicurazione
bisogna possedere il bene assicurato mi sembra un buon inizio (oddio, può anche apparire ovvio per altri punti di vista) idem per i Cds.
Ma io continuo ad avere paura che questa crisi non ci insegnerà abbastanza.
Mi piacerebbe conoscere altre opinioni :)


La mia opinione, almeno una parte :

Innanzi tutto il nodo banche e banchieri.

Indipendentemente di come verrà risolto il credit crunch e i problemi della patrimonializzazione esiste un problema gestionale dei rischi e dei profitti che, come abbiamo visto , non è ancora stato affrontato.

insomma l'attuale modello di una Banca dedita ai profitti come una qualsiasi azienda industriale è un falzo mito. Il RoE è un falso mito (se si parla di banche), il controllo dei Rischi non esiste, il management ha pieni poteri sul CdA e sui Sindaci, ci sono problemi di governance dove gli azionisti non contano e la public company non garantisce nessuno se non lo stesso management.

per cui : fare piazza pulita. Azzerare valore azioni. Nuovi aumenti capitale con nuovi statuti ed organi di vigilanza. Controlli ferrei sugli attivi patrimoniali (che sono garanzia di solidità e sono il futuro di lungo termine di una economia).

Poi il nesso management bancari e politici. Inssoma, ed è qui che la vedo dura, mandare via il management significa ridurre o annullare il potere che ancora oggi vige.

Secondo, il modello di economia reale e i consumi

Abbiamo una sovraproduzione su scala mondiale di beni non durevoli, durevoli e di lusso.

Una sovraproduzione agevolata dalla tecnologia in continuo fermento.

Ne sono nate delle spinte consumistiche che hanno portato ad indebitare l'unico soggetto che non può e non deve indebitarsi oltre-misura, cioè : le famiglie.

Uno Stato può fare deficit, tanto le imprese e le famiglie che lavorano pagheranno

Una azienda può fare debiti, perchè genererà ricavi elevati che permetteranno la remunerazione del capitale e la restituzione dei finanziamenti.

la famiglia non può anticipare i consumi futuri. grande errore pensare che il PIL sarebbe sempre aumentato del 3% minimo l'anno. La famiglia non può fare il passo più lungo della gamba. Ci rimette la nazione stessa.

Quindi come la vedo ?

Nera, non per la situazione come è e per come è grave.

ma per Chi la deve gestire. Ossia gli stessi che l'hanno generata.
In pratica, solo una grossa rivoluzione sociale (con tutti irischi di perdita di democrazia per i prossimi cinquanta anni che essa comporta) cambierà tutto

Saluti

Pierluigi
 
Qualcuno di ottimista alla fine c'è...

WALL STREET HA IN SERBO GLI EFFETTI SPECIALI
di Marco Sabella
Kostin (Goldman Sachs): a fine anno indici su del 26%. Il mercato premierà chi non taglierà i dividendi. Lo strategist azionario vede un 2009 in forte recupero...

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell' autore e non necessariamente rappresenta la linea editoriale di Wall Street Italia, che rimane autonoma e indipendente.
(WSI) – L' indice S&P 500 della Borsa americana raggiungerà quota 1.100 entro la fine del 2009. Un valore che implica un potenziale di rialzo di circa il 26% rispetto alle quotazioni di oggi». È la previsione, coraggiosa, di David Kostin, strategist azionario per il mercato di Wall Street di Goldman Sachs, la grande banca d'affari sopravvissuta, insieme a pochissime altre, alla crisi epocale del sistema finanziario americano.
Kostin non nega le difficoltà e l'estrema incertezza del momento. «Non si può escludere, infatti, che nel corso del primo trimestre 2009 l'indice possa tornare temporaneamente sui minimi di 750 punti raggiunti alla fine dello scorso novembre», avverte.
Su quali elementi si basa questo relativo ottimismo? «Prima di tutto sugli effetti attesi dal piano di rilancio dell'economia, che prevede una spesa di 780 miliardi di dollari. Un intervento che prenderà la forma di una riduzione dell'imposizione fiscale, di uno stimolo alla spesa dei consumatori e che si sostanzierà nell'avvio di investimenti in grandi infrastrutture per un valore di circa 285 miliardi di dollari».
Tuttavia ci vorrà del tempo prima che questi effetti si manifestino... «In realtà siamo convinti che il ciclo economico abbia già toccato il suo punto più basso nel quarto trimestre del 2008 con una contrazione del Pil di circa il 5%. I prossimi due trimestri saranno ancora negativi, quindi, anche per effetto del piano di rilancio, si manifesterà una debole crescita dell'1% a trimestre nella seconda metà del 2009».
Quale sarà l'impatto della recessione sui profitti delle aziende? «Il ciclo dei profitti non ha ancora toccato il fondo. Anzi, se si escludono i titoli finanziari gli utili aziendali stanno ancora continuando a salire. Detto questo prevediamo che gli utili delle imprese subiranno un calo del 20% in più rispetto alle stime, già negative, formulate dagli analisti. In pratica, considerando tutte le aziende dell'indice S&P 500 come un'unica grande società i profitti aggregati caleranno da 65 a 53 dollari per azione entro la fine del 2009».
Quali settori saranno parzialmente esenti dalla crisi? «Gli utili nel corso di quest'anno cresceranno del 4% nel comparto del largo consumo e del 3% nel settore della salute inteso in senso lato: case farmaceutiche, biotech, case di cura. Non a caso abbiamo sovrapesato nettamente questi due comporti, così come abbiamo un leggero sovrappeso anche sui materiali di base e sulle telecomunicazioni».
In pratica, ancora una volta, vincono i settori difensivi... «In realtà siamo molto attenti anche al tipo di aziende che mettiamo in portafoglio. Abbiamo per esempio una netta preferenza per i gruppi poco indebitati e con bilanci molto solidi».
Quanto pesa il tema dei dividendi? «Pesa molto perché siamo convinti che il modo in cui le imprese utilizzeranno i loro flussi di cassa farà la differenza dal punto di vista delle quotazioni di Borsa. In sintesi le aziende che saranno in grado di pagare agli azionisti elevati dividendi avranno un andamento migliore della media di mercato».
Qualche esempio? «I casi sono numerosi e vanno da Philip Morris nel tabacco, uno yield del 5,2% nel 2009, a Eli Lilly nel farmaceutico (5,7%) a Honeywell nelle tecnologie (4,9%), a Mc Donald's (3,5%). Queste società, insieme a molte altre, registreranno nel biennio 2009-2010 una crescita a doppia cifra del dividendo pagato agli azionisti».
Quali altri criteri adottate per selezionare i titoli migliori? «Preferiamo le aziende che realizzano la maggior parte del loro fatturato negli Stati Uniti rispetto a quelle orientate all'esportazione. Infatti, sebbene i tassi di crescita dell'economia nel 2009 siano più bassi negli Usa che altrove, il deterioramento delle condizioni generali è particolarmente veloce negli altri paesi, a cominciare dall'Europa».
In base a questo criterio quali società hanno il maggior potenziale di Borsa? «Pensiamo a nomi come Humana e United Health Group nella salute, Nucor nei materiali di base, At&T nelle telecomunicazioni. Tutti gruppi che realizzano dal 90 al 100% del loro giro d'affari negli Stati Uniti». Nella scelta tra piccole e grandi capitalizzazioni qual è la vostra preferenza? «Siamo nettamente a favore delle blue chip, che possono accedere più facilmente al credito rispetto alle piccole e che sono meno sensibili alle vendite innescate dalle operazioni di ricopertura degli hedge fund».
index.asp
 
Occhio :Dalla Cina e poi ;)all'Asia,
un discreto indicatore :

The Baltic Dry Index, which tracks the cost of shipping commodities like iron ore, added 4.5 percent in London yesterday, extending :eek:its best start to a year since at least 1986 on demand to haul iron to China.

http://www.bloomberg.com/apps/news?pid=20601080&sid=aatXAztapFc4&refer=asia
 

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