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Tutto il dibattito sull’utilizzo ucraino dei missili occidentali a lunga gittata ruota attorno alla rischiosa ricerca, da parte degli USA e dei paesi europei, di una impossibile quadratura del cerchio
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Esercitazioni militari congiunte Shabla 19 in Bulgaria, 2019 (
U.S. Army, Sgt. Thomas Mort,
Public Domain)
David Ignatius, storica firma del Washington Post, noto per i suoi legami con l’establishment USA e
con la CIA, è certamente un buon metro di paragone per investigare gli schemi di pensiero che l’élite politica americana applica al conflitto ucraino.
Ignatius si è recato spesso in Ucraina per seguire da vicino l’evoluzione della guerra, e osservarne l’impatto sulla società del paese.
Recentemente ha visitato i centri di riabilitazione dove ha potuto osservare di persona le terribili conseguenze (amputazioni, invalidità permanenti) che le armi moderne infliggono ai corpi di migliaia di giovani, spesso mandati a combattere senza alcuna esperienza né consapevolezza di ciò che li attende.
Egli
scrive che, ascoltando le storie di questi ragazzi, “ci si rende conto che l’Ucraina si sta dissanguando”, che “il suo esercito è esausto”, che il paese “non ha abbastanza soldati per combattere una guerra di logoramento a tempo indeterminato”.
Di fronte a simili constatazioni, ci si attenderebbe che aprire un tavolo negoziale per porre fine a un ormai inutile spargimento di sangue, e alla crescente distruzione del paese, sarebbe la giusta conclusione da trarre.
Ma Ignatius (e con lui la schiacciante maggioranza dell’establishment USA) segue una logica differente: Kiev deve alzare il livello dello scontro, intensificare il conflitto, “per essere abbastanza forte da raggiungere un buon accordo”.
Egli ha assistito a una conferenza promossa dal gruppo
YES (Yalta European Strategy) dell’oligarca ucraino Victor Pinchuk, presenziata dallo stesso presidente Volodymyr Zelensky, e svoltasi all’insegna dello
slogan “La necessità di vincere”.
Celebrando i martiri ucraini del conflitto, l’incontro lanciava il messaggio secondo cui, senza una maggiore potenza di fuoco, Kiev sarebbe stata obbligata ad accettare le condizioni del presidente russo Putin per porre fine alla guerra.
I partecipanti alla conferenza, e lo stesso Ignatius, apparentemente non avevano alcuna intenzione di ammettere che questa logica è stata costantemente applicata durante tutti i due anni e mezzo del conflitto: Kiev ha ottenuto armi via via più potenti dai suoi alleati occidentali, i quali hanno progressivamente alzato il livello dello scontro con Mosca.
Ma l’Ucraina non ha ottenuto altro (eccettuata la breve parentesi dell’autunno 2022) che una lenta ma costante perdita di territorio, e una continua emorragia di uomini e mezzi.
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L’Occidente ha spinto l’Ucraina verso il baratro
La posizione negoziale di Kiev si è costantemente e inesorabilmente deteriorata fin dal sabotaggio degli accordi di Minsk del 2015. Essi avrebbero garantito l’integrità territoriale del paese in cambio del riconoscimento di un certo grado di autonomia alla regione orientale del Donbass.
Come
ricorda la BBC, nell’agosto del 2015 una netta maggioranza di 265 parlamentari ucraini su 450 aveva appoggiato la prima lettura del disegno di legge volto a riconoscere l’autonomia del Donbass. Ma, dopo le violente proteste di piazza dell’estrema destra nazionalista, che provocarono un morto e oltre 100 feriti, l’allora presidente Poroshenko cominciò ad abbandonare gli sforzi di implementare gli accordi di Minsk.
D’altra parte, tali accordi furono boicottati perfino da Francia e Germania, i due paesi che li avevano precedentemente negoziati. L’allora cancelliera Angela Merkel avrebbe rivelato che essi servivano solo a permettere a Kiev di
guadagnare tempo per rafforzarsi in un conflitto che, a suo giudizio, era semplicemente sospeso.
L’allora presidente francese François Hollande avrebbe
confermatole parole della cancelliera tedesca (“Sì, Angela Merkel ha ragione su questo punto”), aggiungendo che lo scontro si sarebbe risolto militarmente: “Ci sarà una via d'uscita dal conflitto solo quando la Russia fallirà sul campo”.
Gli accordi di Minsk furono boicottati sebbene l’attuale presidente ucraino Zelensky fosse stato eletto nel 2019, con il 73% dei voti, sulla base di un programma di pacificazione che prevedeva proprio l’implementazione di tali accordi, prima di
capitolare anch’egli di fronte alle intimidazioni della destra nazionalista.
Allo stesso modo i negoziati di Istanbul, avviati subito dopo l’inizio dell’invasione russa del febbraio 2022, furono sabotati dall’Occidente, come ha
lasciato intendere recentemente la stessa Victoria Nuland, ex sottosegretario di Stato USA per gli affari politici.
La Nuland ha confermato che alle potenze occidentali non piacevano le condizioni che avrebbero posto un limite all’arsenale militare ucraino. La bozza di accordo prevedeva lo status neutrale dell’Ucraina e la risoluzione delle questioni del Donbass e della Crimea attraverso trattative separate. Le pressioni esercitate da Londra e Washington sul governo di Kiev avrebbero portato al fallimento di una negoziazione che stava per essere coronata dal successo.
Quella della Nuland è solo l’ultima di una serie di testimonianze di alto livello, come le dichiarazioni dell’ex primo ministro israeliano
Naftali Bennett e del politico ucraino
Davyd Arakhamia, che hanno attestato che i negoziati fallirono a causa dell’intervento occidentale.
Come scrissi in un precedente
articolo,
Fonti americane
confermano che i vertici statunitensi e britannici volevano che “la guerra andasse avanti” per “dissanguare Putin” e possibilmente “porre fine al suo regime”.
Non solo, anche
fonti governative turche hanno sostenuto che alcuni membri della NATO volevano prolungare il conflitto per indebolire Mosca. “Dopo i colloqui di Istanbul, non pensavamo che la guerra si sarebbe prolungata così tanto”,
dichiarò il ministro degli esteri Cavusoglu, “ma vi sono alcuni fra i membri della NATO che vogliono che la guerra continui e la Russia si indebolisca. A loro non importa molto della situazione in Ucraina”.