E ANCHE SE SONO UN LIBRO APERTO, MICA TUTTI SANNO LEGGERE! (1 Viewer)

Val

Torniamo alla LIRA
Tra i due, il più "pulito" è pieno di vermi...

Quando due miliardari si azzuffano in pubblico ne nasce uno spettacolo magari non edificante,
ma che è utile per capire come vanno le cose in realtà in una società.

David Einhorn, fondatore e gestore del Greenlight Capital, 1,54 miliardi di dollari di capitale personale,
ha più volte affermato come fosse necessario vendere Tesla, andando “Corto” sul titolo e vendendolo allo scoperto.

Questa posizione non ha portato particolarmente bene al fondo Greenlight, che ha chiuso lo scorso anno male,
ma non ha scoraggiato Einhorn che nella sua lettera agi investitori ha consigliato ancora di puntare contro la società di Elon Musk.

Questi ha reagito con una lettera pubblicata su Twitter dove lo ha chiamato “Mr Unicorn”, “Signor Unicorn:



La lettera è un po’ confusa, accusa Einhorn di aver fatto false affermazioni contro Tesla per svalutarla,
quindi di aver visto calare da 15 a 5 miliardi il proprio capitala amministrato ed invitandolo quindi a discutere il ruolo di Tesla
nell’innovazione tecnologica e nell’economia visitando gli impianti della società automobilistica.

A questa lettera provocatoria di Musk Einhorn ha risposto con una lettera, sempre pubblicata su Twitter, cortese, ma piena di contenuti:

I

Cortesemente, ma acidamente, Enihorn prima di tutto invita Elon Musk a mostrargli quali siano le falsità che avrebbe detto nelle comunicazioni agli investitori,
ed affermando che gli short su Tesla poi così male non sono andati, in un mercato in crescita.

Quindi si è detto disposto a visitare i suoi impianti, in modo da capire la differenza fra una fabbrica di “Incrociatori spaziali”
ed una di auto costruite sotto una tenda, dicendosi disposto ad iniziare da visita dall’impianto di Buffalo.

Quindi ecco, in cauda venenum: può Elon Musk rispondergli come mai, pur prendendo i soldi cash ogni volta che vende una macchina
(anzi prendendoli anticipati) poi abbia un miliardo di debiti verso i fornitori, in un mercato in cui si paga solitamente in due settimane?

Come mai le fluttuazione delle vendite seguono la scadenza dei trimestri, come se si volesse incrementare il fatturato?

Uno scambio interessante che, finalmente, potrebbe portare ad un po’ di verità in più su Tesla.
 

AndreaPas79

Nuovo forumer
Siamo su una strada in discesa, verso il declino, e la discesa si fa sempre più ripida.
Piccole e medie aziende con centinaia di migliaia di posti di lavoro sono scomparse.
E lo stato cosa fa ? Come cerca di porre un limite ? Con nuove tasse.

La risposta l'hai data tu...il problema è statale, non europeo..
il giustificare il nero può avere senso a livello umano ed emotivo, meno da un punto di vista economico. Se si fa nero e la maggior parte non riesce a pagare le tasse sarebbe meglio rivedere una legge invece di accettare tacitamente di infrangerla.

L'economia italiana è in crisi dal boom industriale...solo che li era mascherata da un ondata di benessere e consumismo sfrenato..ma è in quegli anni che sono state poste le basi per la devastazione che oggi stiamo vivendo.
Se non cambieranno a livello statale le leggi abbiamo poco di cui lamentarci con l'Europa..con o senza unione europea finiamo preso a gambe all'aria..
Ps: siamo stati assieme alla Spagna per un lungo periodo sovvenzionati e sommersi di fondi europei....loro hanno usato quei fondi sino all'ultimo centesimo..noi come Italia siamo riusciti a non sfruttare quei finanziamenti a fondo perduto, siamo riusciti a restituirli senza sfruttarli, siamo riusciti a far crollare molti dei nostri patrimoni storici, non riusciamo a valorizzare le bellezze che per secoli il nostro popolo ha costruito quando l'Europa ci ha pagato per farlo....ma la cosa peggiore è che non siamo neanche capaci di prenderci la responsabilità delle nostre azioni e ci limitiamo ad incolpare gli altri. Ora incolpiamo l'Europa per azioni che sono da ricercare decenni prima, e incolpiamo tutti fuorché noi stessi che non riusciamo a scuoterci da questo torpore.
Usciamo dall'Europa e poi chi incolperemo? Gli africani? Gli asiatici? il sud Italia? poi il Centro Italia? quelli della valle vicina? Quelli che stanno a Nord Est? O il nostro vicino di casa???
La colpa è solo nostra, prima lo ammettiamo, prima ci muoviamo per riattivarci e spazzare via la melma, prima riacquisteremo dignità come persone, come popolo e come Nazione. Se io sono fiero di me non ho paura di stare in squadra con altri.
 

Val

Torniamo alla LIRA
Eh no. Il problema sono le imposizioni di bilancio che ci vengono poste dall'Europa, perchè sanno molto bene
che non riusciremo mai a rientrare in quanto ci viene imposto. E così facendo sanno perfettamente che andremo
allo sfacelo. E loro rideranno. Come hanno riso con la Grecia. Per cosa ? Per salvare le banche tedesche.
Fantastico.

Io non ci sto. Diceva qualcuno.

Il Giappone ha un debito statale superiore al 200% del PIL, ma se ne frega, fa espansione, fa investimenti.
Perchè il debito è in mano loro.

Noi invece ci facciamo infinocchiare dagli speculatori, il primo e più eclatante fu quello posto in atto da Soros.

Fai espansione, fai investimenti. Rilancia l'edilizia che sta alla base della generazione di PIL.
E poi me ne faccio un baffo di questa europa. Dove paghiamo più di quello che ci viene restituito
(e che non utilizziamo) ma questo è un altro discorso.
 

Val

Torniamo alla LIRA
La Cina sta espandendosi in tutto il mondo, soprattutto nei paesi in via di sviluppo o del terzo mondo.
La sua espansione è però diversa da quella coloniale europea, almeno nella sua fase finale, o anche americana.
Si basa poco sull’uso della forza militare, e molto di più sul credito e sulla penetrazione degli investimenti.

In questa mappa mostriamo i paesi che hanno un debito verso la Cina rilevante.
Più alto il debito, più intenso il colore rosso:



Ci sono paesi come Niger, Congo Brazzavile, Djibuti, Laos, Cambogia, Mauritius
dove il debito esterno verso la Cina è superiore al 25%.

Ci sono però anche paesi europei, come la Bosnia, dove il debito verso la Cina è superiore al 10%.


Vediamo come paesi strategicamente e militarmente importanti, come ad esempio il Pakistan,
che è anche un potenza nucleare in opposizione all’India, è un forte debitore di Pechino.

Per quanto si tratti di stati sovrani i debiti pesano, perchè spesso legati a clausole che portano all’esproprio delle opere pubbliche finanziate,
come ha imparato lo Sri Lanka che ha perso la proprietà del proprio sistema portuale.

La cosa curiosa è che questo espansionismo cinese è finanziato anche dall’occidente.

Il 10% del debito esterno è concentrato in portafoglio tedeschi ed olandesi, mentre il 5% è in mani americane.


Alla fine la Cina è uno strumento del grande capitalismo.
 

Val

Torniamo alla LIRA
Il premier Conte si è recato a Taranto, incontrando gli operai e quindi compiendo un gesto apprezzabile.

Nello stesso tempo ha dimostrato di non aver capito assolutamente nulla del perchè della crisi e delle sue soluzioni.

Parlando nella città pugliese ha affermato:
Si può fare impresa se si crea un rapporto solido con gli stakeholders in un clima convincente, persuasivo sotto tutti i punti di vista.
Il nostro interlocutore va via perché dice che non c’è sostenibilità sul piano economico e noi dobbiamo creare le premesse
per un’attività produttiva perfettamente consonante con la comunità locale. Ma non significa che diciamo a Mittal
che può andare tranquillamente e ce la vediamo noi. Se andrà via, comunque, ci sarà una battaglia legale e saremo durissimi


Se volessimo fare solo polemica potremmo dire che in realtà l’insostenibilità economica è solo stato un passo successivo alla cancellazione dello scudo penale,
un’utile ed inopportuna provocazione dal momento che già sussisteva ed era parte dell’accordo firmato dall’allora responsabile del MISE Di Maio.

Però dato che non vogliamo fare altra polemica, ci fermiamo qui su questo punto.

Il problema reale e principale è che Conte , parlando di “Battaglia legale” mette il problema tutto e solo dal punto di vista giuridico.

Come avvocato non vede altro che il problema “Legale”, il contratto secondo lui non rispettato, e manca completamente il motivo di per cui il contratto fu concluso.

Perchè l’acciaieria è stata mantenuta in vita? Perchè è stata ceduta malamente a Mittal?


La domanda è tutt’altro che filosofica nel momento in cui proprio l’azienda che si vuole prosegua nella gestione Arcelor Mittal,
sta semplicemente facendo morire d’inedia l’impianto, non comprando più le materie prime necessarie per produrre.

Del resto si chiama “Arcelor”, cioè ha il nome anche di un gruppo francese dello stesso settore,
ed ogni tonnellata di acciaio non prodotto a Taranto è una tonnellata di acciaio in più prodotto in Francia
.

Arcelor Mittal può tranquillamente far chiudere l’ìmpianto, e guadagnarci, nel tempo in cui l’avvocato Conte anche solo legge le carte della causa.


Quindi parlare solo del problema legale è molto, incredibilmente, riduttivo e dimostra una visione miope del problema.

La vera domanda dovrebbe essere:

  • quale visione abbiamo del sistema economico ed industriale italiano per il futuro?
da cui discendono altre domande:

  • abbiamo bisogno della produzione di acciaio? Quanto e di che tipo?
  • possiamo produrlo in un modo economicamente sensato ed ambientalmente sopportabile?
  • quali partner DI MINORANZA potrebbero aiutarci in questa missione, e sottolineaiamo di minoranza, perchè se l’acciaio è necessario, la sua produzione diventa strategica e non può essere affidata agli sghiribizzi di un magnate straniero, e neppure italiano. Un partner tecnico e commerciale può invece essere utile, anche garantendogli un leggero privilegio di remunerazione;
Perchè queste domande sono il vero prologo per l’assunzione di decisioni sensate.

Invece tutto questo è mancato e manca.

Si pensa giorno per giorno, senza una visione strategica.

Negli anni trascorsi da quando l’acciaieria è stata sottratta ai Riva poteva essere parzialmente ricostruita da zero.

Invece si sono rincorse soluzioni tampone, si sono indette gare inutile, senza farsi le domanda essenziali.

Una politica uguale a quella perseguita in Italia negli ultimi 30 anni, in cui si è pensato di lasciare la gestione dell’economia un po’ alla politica giorno per giorno,
un po’ a Bruxelles ed agli altri paesi europei, lavandosi le mani dalle responsabilità.

Però una classe politica non può farlo, oppure può anche andare a casa.
 

Val

Torniamo alla LIRA
Nella vicenda dell’Ilva e di Arcelor Mittal si concentrano tutte le contraddizioni di un quarantennio di storia italiana
nel corso del quale l’Italia ha fatto sistematicamente le scelte sbagliate, al momento sbagliato e nel modo sbagliato:
dal divorzio Tesoro-Bankitalia del 1981
alla svendita del polo industriale pubblico dei primi anni Novanta,
dalla firma del Trattato di Maastricht del 7 febbraio 1992
all’ingresso nell’euro del primo gennaio 2002,
dal trattato di Lisbona del 2007
a quello sul Fiscal Compact del 2012.

Questo filotto strepitoso di decisioni masochistiche ci ha portato con le spalle al muro.

Se Cristo si era fermato a Eboli, l’Italia si è fermata a Taranto. De-fi-ni-ti-va-men-te.

Nelle dichiarazioni puerili di questi giorni (da destra e da sinistra), nelle invettive reciproche dei nostri politici di ogni colore che cosa c’è, in fondo in fondo e dopotutto?

Retorica e impotenza.

Retorica laddove lorsignori tutti, improvvisamente, si scoprono sovranisti cianciando di rilanciare il sistema paese,
di proteggere l’economia nazionale, di fare squadra, di tutelare i cittadini italiani, di cautelarsi sull’indotto macro-regionale
e via discorrendo in un diluvio di petizioni di principio.

Impotenza nel momento in cui lorsignori si accorgono non solo di non avere i soldi per realizzare manco una virgola dei loro interminabili libri dei desideri patriottici,
ma si avvedono di non poter neppure governare il processo attraverso cui quei soldi potrebbero essere generati e messi sul piatto:
alla faccia di Arcelor Mittal, di Bruxelles e di Francoforte.

Guardatele le loro facce sbigottite quando strillano contro l’inadempimento contrattuale di una multinazionale indiana.

Fanno tenerezza perché – proprio come i traumatizzati cronici – non riescono ad ammettere a se stessi la verità.

E cioè che il “Sistema paese” è nelle condizioni di fare “politica industriale” solo se “attrae investimenti” dall’estero,
solo se il grande capitale straniero è disposto a “scommettere sulla crescita”.

Altri soldi non ce ne sono: salvo aumentare la pressione fiscale o tagliare la spesa pubblica.

Ma ce ne sarebbero a iosa – di denari – se non fossero state compiute le scelte autolesionistiche e scellerate di cui abbiamo parlato in apertura.

Infatti, uno Stato sovrano se ne fotte – se vuole – degli inadempimenti contrattuali e delle bizze di una corporation asiatica.

Uno Stato sovrano fa quello che vuole. Al limite, nazionalizza senza scrupoli, e senza pietà (come previsto dall’articolo 43 della nostra Carta)
i “servizi pubblici essenziali” o le “fonti di energia” o le “situazioni di monopolio che abbiano carattere di preminente interesse generale”.

Ma oggi anche solo pensarlo è diventato un tabù.

Lo Stato, in ossequio ai “dieci comandamenti” criminali dei famosi trattati, non può fare più niente.

Se non indebitandosi sui mercati col rischio di farsi fucilare dallo spread.

E l’aspetto più fastidioso in assoluto dell’intera faccenda è che – dopo aver tradito (con voti unanimi!) –
la Repubblica Italiana nel corso di quattro decenni, adesso la classe politica fa il gioco dello scemo.

Sono preoccupati ma non capiscono.

Non capiscono perché non c’erano.

E se c’erano dormivano.

E se anche dormivano, non è colpa loro.

E se qualcuno glielo spiega, fanno pure gli indiani.
 

Val

Torniamo alla LIRA
Cosa può c’entrare la Germania, Evo Morales, la Bolivia e questo luogo quasi extra-terrestre che potete vedere qui:



Questo luogo incredibile è il Salar de Uyuni, la più grande pianura di sale del mondo, che si trova proprio in Bolivia, con oltre 10500 km di superficie.
Si trova vicino all’antica città mineraria di Potosi, quello che fu il più importante centro minerario del Sud America in epoca spagnola

Ecco una visione dal satellite



Questa piana salata è la produzione di diversi laghi prosciugatisi in diverse epoche preistoriche.
Quando vi cadono le magre precipitazioni la piana si trasforma nel più grande specchio al mondo.



Questa grande piana di sale, oltre che l’estrazione di materiali come magnesio, potassio e sodio,
ha la caratteristica di contenere il 47% delle riserve mondiali calcolate di Litio, il petrolio del XXI per le auto elettriche, secondo le attuali tecnologie.

Il litio si trova sia nelle rocce al di sotto del ghiaccio sia, in una percentuale dello 0,3%, nell’acqua fortemente salata che si trova appena al di sotto della superficie.



Naturalmente, visti i prezzi del Litio che si aggirano fra i 7500 e gli 8000 dollari alla tonnellata
(per curiosità, ormai è più semplice trovarli espressi in yuan che in dollari)
si tratta di un valore enorme, che non può non suscitare interessi a livello mondiale.

Nel 2016 sono iniziate le operazioni di estrazione commerciale, con le prime 60 tonnellate inviate in Cina sotto forma di litio carbonato o litio idrossido.

Però Morales non si accontentava di esportare la materia prima, voleva esportare anche il prodotti finito tenendo internamente il processo di produzione.

Ecco allora l’accordo con la ACI System di Berlino per la realizzazione a Potosi di un impianto
per la realizzazione di batterie direttamente con il litio che si trova nel lago, accordo concluso nel gennaio 2019.

La realizzazione del progetto si è però ufficialmente interrotta il 4 novembre con un altro decreto presidenziale
che ha cancellato l’autorizzazione al progetto, indispettendo sia il governo locale, sia l’industria incaricata,
sia il governo tedesco perchè questa mossa mette in dubbio il futuro della mobilità elettrica tedesca.

Ora non voglio difendere Morales, che era un personaggio già di suo semi-golpista,
ma certo che la coincidenza dei tempi è per lo meno interessante e sarebbe da approfondire….

 

Val

Torniamo alla LIRA
Eccolo qui il solito "servo sciocco".

i proponiamo l’estratto di un articolo di Giovanni Polillo, nel quale viene messa in evidenza l’estrema,
per lo meno inopportunità dei commenti e dei giudizi del responsabile del MEF Gualtieri che,
parlando della situazione finanziaria e dell’esponente della Lega Savini, ha affermato che
“Gli investitori non vogliono sentir parlare della possibilità di un ritorno di chi, come Salvini,
tifa per Vox e ha messo in discussione l’ancoraggio europeo dell’Italia”.
Questa affermazione presenta da un lato un certo disprezzo per la democrazia che ha portato Salvini dove è,
dall’altro è ancora più pericolosa perchè viene ad ignorare i veri problemi dell’economia italiana,
della sua situazione di bilancio, e viene ad impedire un vero dibattito sul paese del nostro paese.
Sarebbe opportuno che questo dibattito sull’economia, l’industria e lo sviluppo italiano fosse aperto, appena dopo le scuse del Ministro.



Non sappiamo se il ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, si sia reso conto, nelle sue confidenze a La Repubblica, dell’abnormità delle sue affermazioni.

“Più che la preoccupazione – ha riferito – in Europa ho registrato sorpresa per il dibattito politico italiano.
C’è il pericolo di una percezione di instabilità che rischiamo di pagare sui mercati.
Gli investitori non vogliono sentir parlare della possibilità di un ritorno di chi, come Salvini, tifa per Vox e ha messo in discussione l’ancoraggio europeo dell’Italia”.

In questo modo il tradizionale “vincolo esterno” (lo sprono a fare le riforme) cambia pelle.
E si trasforma in un’inaccettabile interferenza politica. Cosa che non appartiene alla tradizione italiana.

Anche nel periodo più duro della “guerra fredda”, come lo stesso Gualtieri da storico attento potrà confermare,
la collocazione a fianco degli alleati americani fu una libera scelta, seppure contrastata, della maggioranza del popolo italiano.

Il voto parlamentare che portò all’adesione della Nato, solo per ricordare un episodio, fu marcato da uno scontro in Aula
che è rimasto indelebile nella storia istituzionale del Paese. Ma, alla fine, quella volontà collettiva prevalse sui fautori dell’internazionalismo proletario.

L’alibi dell’euroscetticismo, imputato al principale partito politico italiano, va, quindi, fatto cadere rapidamente.

La Lega deve far saltare quel tappo, non avendo più quella forza residuale che fu tipica dell’ultima gestione del “senatur”, Umberto Bossi,
ma avendo assunto una dimensione nazionale. Il problema è vedere se esistono i presupposti per una diversa presenza nelle istituzioni europee.
Se cioè quel “vincolo”, che ha assunto una dimensione non solo economica ma politica, possa essere messo in discussione.

Per rispondere, va ricordato che la sua esistenza è soprattutto legata all’incapacità dei vari ministri dell’Economia
(da Pier Carlo Padoan allo stesso Gualtieri, senza dimenticare Giovanni Tria) di leggere correttamente i dati della situazione italiana,
alla luce delle stesse elaborazioni della Commissione europea.

Nel database, che accompagna le sue Previsioni periodiche, vi sono tanti di quegli elementi che sono in grado di rovesciare un approccio più che convenzionale.
Che l’Italia ha assorbito rinunciando a qualsiasi riflessione critica. Ma limitando la sua osservazione, quasi esclusivamente,
ai dati della situazione finanziaria: soprattutto andamento del deficit di bilancio e del rapporto debito-Pil.
Come se fosse questo il cuore della questione e non il riflesso di sottostanti processi di carattere economico e sociale.
Che lo Stato, con le sue scelte, condizioni la situazione più generale, è un dato di fatto.
Che dagli altri elementi, che compongono il quadro, si possa prescindere è un’assurdità.

Oltre che un errore di prospettiva.


Se si guarda a questo orizzonte più ampio, lo storico problema del “che fare?” diventa più semplice da risolvere.

La prima variabile è il tasso di crescita.

L’Italia è vittima di una stagnazione che data dall’inizio del Terzo millennio, ed anche oltre.
L’ultimo dato positivo, salvo una sola eccezione, risale al 1988. Il governo Craxi.

Da allora è stato un lento e continuo declinare, che l’ha sempre collocata all’ultimo posto delle classifiche internazionali.
Se l’economia non cresce a un ritmo soddisfacente, non sono solo le famiglie ad entrare in sofferenza.
Le stesse entrate dello Stato diminuiscono, facendo venir meno le risorse che sono indispensabili per garantire servizi e copertura delle altre spese.
Quindi, essendo queste ultime difficilmente comprimibili, il deficit aumenta.
E di conseguenza il debito pubblico, specie in rapporto ad un Pil che non fa crescere il denominatore.

C’è poi l’aggravante di prezzi eccessivamente contenuti: riflesso di una stagnazione, che vira continuamente verso la deflazione.
Se Mario Draghi ha giustificato la sua politica monetaria, inseguendo il target di un’inflazione al 2 per cento, non si capisce, perché, in Italia non si dovrebbe fare altrettanto.

La dimostrazione sta nel fatto che dal 2000 al 2008, grazie a questa spinta, il rapporto debito-Pil, per la prima volta,
dopo molti anni, aveva raggiunto una soglia inferiore al 100 per cento. Oggi siamo al 135,7.

A dimostrazione che, se l’economia non cresce, tutto il resto va in malora.

L’aspetto più drammatico di questa situazione è la persistenza del relativo tasso di disoccupazione.
Specie giovanile, di cui, a sinistra, ci si riempie la bocca, salvo poi incrociare le braccia. Cornuti e mazziati.

Dagli inizi degli anni 2000, l’Italia si è collocata al quart’ultimo posto nel range costituito dai 30 Paesi, analizzati dalla Commissione: Europa a 27, più Stati Uniti, Giappone e Regno Unito.

Peggio dell’Italia stanno solo Grecia, Spagna ed Ungheria.

Ma dal 2018 in poi la situazione di questi ultimi è migliorata di circa 3 punti percentuali.
In Italia la disoccupazione è scesa solo dello 0,6 per cento di media all’anno.
Con l’aggravante che tutte queste realtà presentano un attivo delle partite correnti della bilancia dei pagamenti ben più contenuto rispetto all’Italia.
Dati che mostrano, comunque, un uso improduttivo del risparmio disponibile.

Se questo è il quadro, il cambiamento di prospettiva è nelle cose.

L’Italia, nel confronto con l’Europa, deve rovesciare l’ordine delle priorità.

Non partire dalla preventiva fissazione di un deficit di bilancio o di rapporto debito-Pil, ma da un tasso di sviluppo programmatico,
per poi rivederne le ricadute sugli assetti complessivi di finanza pubblica.

Ed accompagnare questa previsione con la puntuale esplicitazione delle riforme che intende perseguire.

A partire da quella fiscale, che è la madre di tutte le battaglie.

Ci saranno resistenze? Certo che ci saranno.

Ma se Mario Draghi avesse abbandonato la partita, forse, oggi, l’euro sarebbe solo un ricordo del passato.
 

Val

Torniamo alla LIRA
E questo paese qualcuno lo vuole in europa ........

I piani trapelati ufficiosamente dalla Turchia alla vigilia dell’invasione della Siria sono stati confermati da un report filtrato al New York Times da fonti diplomatiche USA.

La Turchia sta effettuando una pulizia etnica sistematica dei villaggi abitati da curdi o da arabi nelle aree da lei occupate durante la recente missione “Primavera di Pace”.

L’operazione non è ovviamente compiuta direttamente da militari turchi, ma avviene attraverso l’uso di milizie armate ed organizzate da Ankara
che terrorizzano e scacciano gli abitanti dei villaggi di confine che non siano di nazionalità turca, lasciando quindi spazio a nuovi insediamenti di quell’etnia.

Paradossalmente sono stati proprio gli USA, secondo lo stesso report, a far si che le milizie curde del SDF
venissero viste come una minaccia e quindi a spingere all’azione in Siria le milizie e l’esercito di Erdogan
: infatti traspare che fino al 2015, cioè sino alla battaglia di Kobane, le milizie curde, poco organizzate ed armate e strettamente collegate alla difesa territoriale,
non fossero mai avvertite come una seria minaccia, nonostante l’ala più politicizzata del PYG fosse conosciuta per avere dei contatti con il PKK.

Al contrario è stato poi l’intervento massiccio di Washington nell’area con anche un flusso di rifornimenti e di armi a queste milizie
a farle ritenere più pericolose e quindi a far decidere l’intervento turco, contro il quale sinora, sempre secondo il report, gli Stati Uniti sono stati fin troppo timidi.

Il report fornisce anche alcune indicazioni circa le azioni che gli USA dovrebbero prendere nella regione per non far finire tutto in un disastro a carico delle popolazioni locali e dell’autorevolezza di Washington:

  • rendere ben chiaro ad Ankara che pagherà tutto il peso politico, militare ed economico del proprio intervento, questo senza timidezze, anche perchè la Turchia di questi problemi non ne ha;
  • utilizzare il tempo rimasto e valutare i tempi di uscita, proprio sulla possibilità di organizzare in modo adeguato il SDF affinchè possa essere un elemento di stabilizzazione locale.Insomma gli USA dovrebbero ritirarsi definitivamente solo quando i curdi si trovassero in una situazione tale da potersi difendere;
  • rendersi conto che comunque qualsiasi situazione transita per Mosca e che attraverso Mosca si può trovare una soluzione adeguata nella regione.
 

Val

Torniamo alla LIRA
L'ho già scritto. Con 12000 abitanti della città di DiMaio che prendono il reddito di cittadinanza dove sta il problema ?
In fondo dare 30 euro al giorno ai 10.000 operai Ilva sono "solo" 110/mln all'anno e ci leviamo sto problema.

Lo stabilimento ILVA di Taranto è un enorme rebus economico, ambientale e sociale.

La crisi aziendale suscitata dagli indiani ha portato in evidenza questo contrasto,
che sembra nascere dalla questione dello “Scudo Penale” unito alla crisi mondiale del settore dell’acciaio.

Però questo è solo l’ultimo capitolo di una storia lunga, di cui può essere interessante ripercorrere alcuni passaggi precedenti.
Quando l’acciaieria fu tolta all’ILVA, in modo giusto o scorretto lo deciderà la magistratura, furono espressi dei piani aziendali .

Quando l’ILVA fu tolta ai Riva vi fu una figura di congiunzione nel passaggio fra la vecchia e la nuova gestione, il noto manager e risanatore aziendale Enrico Bondi.

Il noto personaggio del’economia fu nominato Amministratore Delegato dalla Riva nell’aprile 2013,
poco prima il sequestro dell’impianto e di fondi per 8,1 miliardi complessivi, per poi essere scelto come commissario da parte del governo Letta.
Bondi lavorò quindi alla predisposizione dell’ultimo vero piano aziendale per l’acciaieria
come società autonoma economicamente ed ambientalmente gestibile, e punto tutto sull’applicazione delle nuove tecnologie.

Il suo piano di ristrutturazione prevedeva una riforma profonda del ciclo produttivo, con l’abbandono completo, o quasi, del’utilizzo del carbone.
La tecnologia la spiega bene questo articolo de l’Espresso, in cui il professore milanese di siderurgia Mapelli lo descrive in modo semplice :
si tratta di un procedimento chimico, il minerale di ferro viene esposto all’azione di monossido di carbonio e di idrogeno.
Si ottiene così un prodotto con una più elevata concentrazione di ferro metallico, che può essere caricato nell’altoforno con un minore impiego di coke
(il combustibile derivato dal carbone, ndr), oppure utilizzato nei forni elettrici al posto del rottame».
Si tratta di una tecnologia che permette, volendolo, di eliminare completamente il carbone e di procedere con altre tecnologie.

Bondi è laureato in chimica, quindi in grado di cogliere gli aspetti tecnici del processo in modo attento.
Si tratta di un procedimento che richiede la disponibilità di una grande quantità di gas naturale in quel momento di non immediata disponibilità,
ma ora il problema non si pone, dato che la TAP arriva proprio in Puglia. Bondi lavorava su un piano che permettesse il ritorno in utile,
con un impianto efficiente al 2020 con un costo complessivo di circa 4,3 miliardi di euro, ed aveva il vantaggio di conservare la produzione
in modo efficiente ed ambientalmente accettabile. Il piano era molto complesso, una vera e propria scommessa che poteva essere vincente o perdente,
e che si basava anche su un sostegno del sistema bancario e su fondi che dovevano essere recuperati dall’ILVA.

Una situazione molto complessa, ma in quel momento l’unica percorribile.

Poi, ci fu il cambiamento.

La fine del governo Letta ed il subentro di Matteo Renzi portò ad un completo cambio di rotta.

Enrico Bondi viene dimissionato ed il 6 giugno 2014 gli subentra Pietro Gnudi, ex IRI, che mette a parte il piano di Bondi
per la decarbonizzazione e si dedica subito alla ricerca di un partner a cui vendere l’azienda,
proseguendo nel frattempo con un piano aziendale che andava avanti con la produzione di acciaio su via ordinaria, pur nel rispetto dei limiti ambientali.

Il piano ha condotto alla copertura dei depositi minerali ed alla cessione ad Arcelor Mittal, ma ci ha anche condotto alla chiusura dell’impianto.

Il piano industriale Gnudi era già un piano industriale perdente in prospettiva perchè tollerabile solo in una situazione di mercato dell’acciaio in crescita,
cosa che già nel 2016 sembrava improbabile, data la concorrenza cinese, e che ora sembra impossibile, stretti fra crisi del settore auto
e concorrenza dell’acciaio turco che, non esportando più negli USA, ci invade a prezzi assurdi, nonostante le quote.

Il piano Bondi era rischioso ed in quel momento costoso, ma puntava al futuro.
La critica riguardo l’utilizzo del Gas Naturale si è rivelata miope per almeno tre motivi:

  • la disponibilità già all’epoca di contratti take or pay a costi di fornitura molto bassi;
  • l’andamento dei prezzi mondiali del gas naturale, in forte ribasso;
  • la realizzazione della TAP e presto anche del nuovo gasdotto sud mediterraneo, che renderanno la Puglia un hub europeo nella fornitura di gas naturale
Bondi fu sacrificato perchè:

  • lo stato voleva risparmiare un po’ di liquidità;
  • era in contrasto con la famiglia Riva che lo vedeva come un traditore.
Appare però evidente che la situazione attuale è figlia della scelta del governo Renzi,
di dismettere lui ed il suo piano a favore di un piano molto più semplice , ma che dopo soli 4 anni rivela la sua completa, totale fallacia.

Renzi volle l’uovo subito, qualche investimento in meno, e rinunciò alla gallina di un settore siderurgico moderno, ed ambientalmente tollerabile.

Ora si straccia le vesti perchè l’ILVA rischia di chiudere, anzi quasi sicuramente chiuderà a fine settimana, ma il responsabile è, soprattutto, lui.
 

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