Curioso ...
THE JANUARY EFFECT
Una delle rare verità universali sui mercati è che “sapere ciò che sanno tutti è come non sapere nulla”. In altre parole, se fosse facile fare i soldi con i luoghi comuni, sarebbero tutti milionari in vacanza. Il cosiddetto “january effect” (“effetto gennaio”) è la convinzione diffusa che il mese di gennaio in borsa sia positivo e abbia un significato forte nel predire l’andamento del mercato azionario per il resto dell’anno solare. Questo fenomeno è particolarmente marcato nella prima settimana, o meglio tra l’ultimo giorno di contrattazione nel dicembre dell’anno precedente e il quinto giorno di borsa del nuovo anno nel mese di gennaio. L’ “effetto gennaio” ha origine sul mercato USA ed è semplicemente il risultato della vendita per ragioni fiscali delle posizioni in perdita, che induce gli investitori di Wall Street a vendere le loro posizioni in perdita alla fine di dicembre. L’ “effetto gennaio” è basato sull’idea che questi titoli, che sono stati venduti per realizzare i vantaggi fiscali sulle perdite, siano a sconto rispetto al loro valore di mercato. Questa apparente anomalia è stata notata all’inizio degli anni ’80 e ampiamente studiata e documentata, anche a livello accademico. In realtà, una semplice comparazione sugli indici americani evidenzia come questa stastitica non sia assolutamente significativa per Dow, S&P e NASDAQ, che registrano per la prima settimana e in generale per il mese di gennaio percentuali di chiusure positive esattamente in linea con la loro media globale (circa il 60%). In termini di salita percentuale, invece, il NASDAQ risulta di gran lunga la “scelta migliore” per chi vuole basarsi su questo singolo concetto. Una
seconda regoletta spesso applicata al gennaio borsistico è quella del “1-10-31”. Si prendono in considerazione il segno del primo giorno di contrattazioni (1) e la posizione rispetto a (1) sia della chiusura della seconda settimana (10) che di quella del mese (31). Se (1) è positivo, (10) è superiore a (1) e (31) è superiore a (10), allora è piena conferma statistica positiva. Altrimenti, scenari variabili di conseguenza. Per ora abbiamo un (1) di segno positivo, il che non è male.
Uscendo dal ristretto campo di indicazioni relative al mese di gennaio, si possono estrapolare per il 2020 (sempre basandosi sul mercato USA: l’Italia non risulta avere autonomia comportamentale significativa) alcune osservazioni interessanti e – forse – anche più utili per l’investitore. La prima riguarda il quarto anno del mandato presidenziale USA, che è statisticamente positivo anche se non il piu’ positivo (che è il terzo: quello appena finito). La seconda riguarda il ciclo quadriennale. Ebbene, dagli anni ‘60 ad oggi gli anni di “ritmo 4” con il 2020 (quindi: 2016, 2012, 2008, 2004, 2000, 1996, 1992 ecc.) hanno quasi sempre chiuso sul mercato USA (guardando l’indice S&P 500) con segno positivo. Le eccezioni, tuttavia, sono state solo due ma micidiali: 2000 (il Top del Bull Market ciclico e secolare degli anni ’90) e 2008 (la Grande Crisi). Entrambe queste eccezioni sono legate a triplo nodo con la conclusione di un ciclo economico e la conseguente recessione, con eccessi insostenibili e con una serie di eventi esogeni (quindi i tipici “Black Swans”, cioè gli eventi davvero imprevedibili). Questa è dunque la principale istanza dell’investitore nel 2020 sui mercati azionari: levarsi dal “noise” di breve periodo per concentrarsi sulle macrovariabili profonde, in primis il ciclo economico USA che resta il motore trainante. Giusto per capirci: l’Europa 20 anni fa generava il 30% del PIL mondiale, oggi è scesa al 15%. E la “decade facile”, quella della easy money per tutti, è finita. Prendiamone atto, senza drammi ma con il coraggio di cambiare atteggiamento di fronte alla volatilità, che da nemica – vista la situazione - si è fatta amica.