Argentina: torna l’incubo del default sul debito, e oggi dovrebbe pagare 410 milioni di interessi
Il presidente argentino eletto Alberto Fernandez e il vicepresidente Cristina Fernandez de Kirchner (ex presidente dal 2007 al 2015 ed ex first lady, come moglie del presidente Nestor Kirchner, dal 2003 al 2007) salutano i sostenitori presso la sede del partito a Buenos Aires dopo la vittoria alle elezioni presidenziali argentine. Alejandro Pagni/AFP via Getty Images
Ci sono volute 15 ore di dibattito
non stop alla Camera Bassa argentina prima di trovare l’accordo per far passare le legge finanziaria d’emergenza che conferisce al neo-presidente, Alberto Fernandez,
il mandato per rinegoziare con i creditori internazionali i termini del debito. E che il carattere del provvedimento fosse davvero emergenziale, lo dimostra il fatto che lo stesso Fernandez abbia inaugurato ufficialmente il suo mandato solo il 10 dicembre scorso. Detto fatto, la scrittura di quella manovra è stata la sua immediata e unica proprietà. Passata il 20 dicembre per 134 voti a 110 e ora al vaglio del Senato per gli emendamenti, soprattutto quelli al discusso articolo che vedrebbe il presidente poter operare con mano libera sui vertici delle aziende a controllo e partecipazione statale, già ridimensionato come
conditio sine qua non per ottenere la fine dell’ostruzionismo dell’opposizione.
Insomma, un’altra volta Buenos Aires si trova costretta a ristrutturare il proprio debito.
Questa volta, però, la situazione appare differente. Sia a livello tecnico e procedurale che, soprattutto, politico.
Il dato di fatto principale sta tutto in una data, quella appunto del
23 dicembre, quando l
‘Argentina dovrebbe pagare gli interessi per 410 milioni di dollari legati a un bond che va a maturazione. Ma il ministro delle Finanze, Diego Bastourre, ha già reso noto che
la scadenza non verrà onorata e ha avanzato una proposta di roll over alternativo ai detentori di quella carta,
fra cui il gigante mondiale dell’obbigazionario, Pimco: in sostituzione del dovuto in capitale, otterranno nuovi bond con uno spread che dovrebbe essere del 2% superiore al Badlar, il tasso benchmark applicato in Argentina ai certificati di deposito. Non proprio una proposta irrinunciabile.
E la questione diventa dirimente, perché l’esito di questa negoziazione potrebbe influenzare pesantemente
anche le altre scadenze attese da qui alla fine dell’anno, quando Buenos Aires sarebbe contrattualmente chiamata a onorare pagamenti su debito a maturazione per 66 miliardi di pesos, circa 1,1 miliardi di dollari. E non basta. Perché se in Italia il dibattito sulle oscure clausole Cac (quelle che regolamentano la possibilità di azione collettiva a fronte di un default obbligazionario), inserite nei bond dal 2014 come risposta alle crisi dei debiti sovrani e alle conseguenti ristrutturazioni, è rimasto confinato al
can can propagandistico sul Mes, Buenos Aires fa leva proprio sul discrimine interpretativo legato a quel meccanismo per costringere i creditori privati ad accettare il proprio “ricatto” per una dilazione su tempi e modi.
Alla base di tutto ci sono due parole chiave, quasi una formula magica:
uniformly applicable. E’ questa regola che garantisce
forza alle clausole di azione collettiva, visto che se il governo interessato decide di siglare un singolo accordo con i detentori, questo principio implica che tutti gli investitori debbano ricevere il medesimo trattamento, a prescindere da quale bond detengano e per quale valore facciale. Si tratta del cosiddetto
single-limb vote, il quale richiede l’approvazione del 75% di chi detiene il debito in oggetto: nel caso dell’Argentina, all’atto pratico significa che chiunque abbia in portfolio titoli con maturazione che va dal 2021 al 2117 riceverà il medesimo trattamento in sede di ristrutturazione del debito.
E, paradossalmente, in molti potrebbero essere tentati o “forzati” dall’offrire tempo al governo argentino. Non tanto per il ricasco finanziario, quanto perchè
quello di Buenos Aires rappresenterebbe il primo caso di applicazione pratica delle Cac dalla loro introduzione. A far paura, quindi, non sarebbe tanto un
déjà vu legato ai 95 miliardi di dollari di debito su cui l’Argentina fece default nel 2001, salvo rinegoziarne la gran parte nel 2005 e 2010, quanto
il fallimento pratico di quello che doveva essere invece un meccanismo di tutela e garanzia degli obbligazionisti. Il rischio di un impasse legale, in parole povere, fa più paura dell’ipotesi di un rinvio delle scadenze debitorie. E, forse, anche di un potenziale haircut sui rendimenti.
In primis, alle istituzioni sovranazionali che spinsero per l’introduzione delle Cac e la loro implementazione, ovviamente solo teorica, proprio al fine di evitare le battaglie che caratterizzarono la prima ristrutturazione del debito argentino, quella dei
tango bonds. Se infatti si arrivasse a un muro contro muro, Buenos Aires
dovrebbe negoziare quasi singolarmente con i detentori di bond in base alla classe della carta che detengono, il cosiddetto
limb vote, processo che trascinerebbe all’infinito una ristrutturazione che invece richiederebbe tempi rapidi e certezze legali.
Per tutti. Insomma, in palio c’è la credibilità e la fiducia nel mercato obbligazionario sovrano globale, non tanto e non solo l’insolvenza argentina.
E anche i numeri giocano la loro parte in commedia, visto che Buenos Aires deve fare fronte a un carico debitorio di circa 332 miliardi dollari, incluso il prestito
monstre da oltre 50 miliardi ottenuto dal Fondo Monetario Internazionale la scorsa primavera, di fatto in quelli che si sono rivelati
gli ultimi mesi di gestione di Christine Lagarde prima dell’approdo alla guida della Bce. I detentori privati fanno capo a circa 148 miliardi di bond e già oggi, di fatto,
la legislazione d’urgenza varata il 20 dicembre dal Parlamento argentino rimanda ogni pagamento di quelli denominati in dollari in scadenza nella prima metà del 2020 (un controvalore di circa 9,1 miliardi)
ad almeno dopo il 31 agosto 2020.
Ma tecnicalità a parte, come anticipato, è
il rischio tutto politico del precedente storico a rendere la scadenza di oggi decisamente importante.
A seguito della decisione della Camera Bassa di rinviare i pagamenti sui bond in scadenza, infatti, sia Fitch che Standard&Poor’s hanno
declassato il debito argentino a livello da pre-default. La prima ha tagliato la valutazione di due gradini, portandola da CC al livello
restricted default, mentre la seconda è scesa da CCC- a
selective default. E come ha reagito il mercato, al netto dei fusi orari rispetto alle contrattazioni?
Fonte: Bloomberg
Questo grafico mostra come, paradossalmente, subito dopo le comunicazioni il credit default swap a 5 anni sul debito argentino – contratto derivato per coprirsi proprio dal rischio di insolvenza sulla controparte – è sceso, mentre il prezzo del bond a 100 anni emesso – non senza una certa spocchia – da Buenos Aires dopo la chiusura del maxi-prestito con l’Fmi,
è salito del 4,4% rispetto alla settimana precedente, arrivando a un valore facciale di 46,4 centesimi sul dollaro.
Il mercato è impazzito, premia chi non onora il servizio del proprio debito e anzi punta a una ristrutturazione di tutto favore?
Anche perché lo scorso agosto, prima delle presidenziali, fu proprio
la decisione di Fitch e Standard&Poor’s di tagliare il rating di credito argentino – a seguito del rinvio del pagamento di 7 miliardi di interessi su obbligazioni a breve termine da parte del gabinetto guidato dall’ex presidente, Mauricio Macri – a spedire i rendimenti alle stelle e il peso sotto terra, rimettendo Buenos Aires nel mirino del mercati dopo mesi di relativa calma. Comprata, però, a caro prezzo dall’Fmi.
Ora, i nodi vengono al pettine. Per tutte le parti in causa, però, non soltanto per l’Argentina.
Chi, in un momento simile per l’economia globale e con
il rischio sempre presente di tensioni sociali (visto anche quanto sta già accadendo nel vicino Cile), si assumerà il rischio di mostrare al mondo come, potenzialmente,
il Re delle lungimiranti Cac sia in realtà nudo, ovvero assolutamente incapace di evitare rischi ai detentori obbligazionari all’atto pratico? Già una volta, lo scoperchiamento del vaso di Pandora rispetto alla palese e un po’ affrettata messa in discussione del concetto di
risk free legato alle obbligazioni sovrane, stava per dare vita a un disastro di proporzioni globali.
Chiedere ad Angela Merkel e Nicolas Sarkozy, riuniti in quel di Deauville il 19 ottobre 2010, per referenze.
Come andrà a finire?
Un trader con lunga esperienza nell’obbligazionario sovrano e una passione giovanile mai sopita per il punk rock, sintetizza così la situazione: “E’ appena passato il quarantennale dall’uscita di
London calling dei Clash. Un capolavoro assoluto. Al suo interno, c’era una vera e propria perla, misconosciuta ai più:
Rudie can’t fail. Bene, diciamo che oggi, traslando il concetto al debito argentino,
Christine can’t fail. Pena
far precipitare a zero non solo la residua fiducia degli investitori nell’Fmi ma, ora, anche nella gestione della Legarde della più sistemica e delicata Bce.
Le Cac, poi, sono come i fili dell’alta tensione. Chi le tocca, rischia”.