La propaganda come strumento di politica estera: il caso della Russia di Putin

Come si lavora nelle fabbriche dei troll di Putin

di Micol Flammini
30 Ottobre 2017 alle 17:41

“Era postmodernismo puro. Postmodernismo, dadaismo, surrealismo”, dice Alan Baskayev alle telecamere dell’emittente russa Dozhd Tv. Pelato, occhiali da vista e una maglietta rossa con la bandiera a stelle a strisce e al centro la scritta “Top Out”, Baskayev è il primo impiegato di una fabbrica di troll che ha rivelato la sua identità e ha spiegato come attraverso i social media i russi sono riusciti a interferire nelle le presidenziali americane. “Ci divertivamo, ci chiedevano cose assurde e noi ci passavamo la notte”, dice l’ex troll che ha lavorato per la Internet Research Agency di San Pietroburgo, l’agenzia accusata di aver lanciato una massiccia campagna attraverso le piattaforme social per fomentare le tensioni razziali durante le elezioni del 2016. Alan non ha smentito nulla e durante l’intervista si è cimentato in un dettagliato racconto sulla vita dei troll all’interno dell’agenzia: “Avevo bisogno di soldi, come tutti”, dice senza l’intento di scusarsi. “Guadagnavo cinquantamila rubli, circa 860 dollari, ben al di sopra della media”.

L’intervistatrice non fa domande, non servono, l’ex troll è immerso nel suo monologo. “Subito ho pensato che fosse un buon affare, non ero obbligato a fare i conti con la mia coscienza perché questo lavoro non aveva nulla a che fare con la coscienza”. Baskayev ha ammesso di aver lavorato per l’agenzia russa tra il novembre del 2014 e l’aprile del 2015, fa i nomi, cita i luoghi e le strategie, non smentisce nessuna accusa e soprattutto lo fa con leggerezza. Durante l’intervista esce fuori anche il nome di Yevgeny Prigozhin, l’uomo d’affari russo noto come chef di Putin, che secondo i racconti di Baskayev sarebbe “il nostro uomo, è lui che ci dava i soldi”.

La confessione è molto diversa rispetto alle scene alle quali avevamo assistito finora: Baskayev non si presenta incappucciato, non viene ripreso alle spalle, non ha la voce modificata. Guarda dritto la telecamera e ammette: “Il mio compito era quello di partecipare a discussioni in forum che parlassero di politica”, e spiega, “se tu digitavi la parola ‘politics’ in un forum, i primi risultati e probabilmente anche quelli sulla seconda pagina, erano nostri. Il compito dei troll era quello di monopolizzare le discussioni, in modo che uscissero solo risultati mirati”. Stessa cosa se l’utente scriveva “politics forum U.S.”. Dozhd Tv cita tre ex troll che hanno collaborato in passato e che, preferendo rimanere anonimi, avevano rivelato il nome di Dzheykhun Aslanov, un ragazzo di ventisette anni di origine azerbaigiana che si faceva chiamare “Jay Z“. ...

Dopo aver lasciato la Internet Research Agency, l’ex troll si è trasferito in Thailandia, dove lavora come insegnante di russo, e da lì ha spiegato all’emittente russa come veniva fatto il lavoro. “Interpretavo vari personaggi, ero uno zotico del Kentucky, poi assumevo il ruolo di un uomo bianco del Minnesota che per tutta la vita non aveva fatto altro che lavorare, pagare le tasse e ora era ridotto in povertà, poi, quindici minuti dopo mi trasformavo e iniziavo a scrivere nello slang usato dai neri di New York”. Così i troll prendevano il controllo dei forum. “Usavamo dei proxy server, ossia dei server che facevano da intermediari, per evitare di essere localizzati”,
...
 
Per chi fa il tifo davvero Vladimir Putin

Salvatore Vassallo
11 dicembre 2017

Per il Cremlino, poco importa quale sia l’ideologia specifica di candidati o movimenti; l’obiettivo più importante è indebolire e dividere internamente le democrazie occidentali.
L’atto di accusa di Joe Biden va ben oltre i riferimenti al referendum costituzionale italiano. Mette nero su bianco, con il peso dell’ex vice di Barack Obama, un problema geopolitico di prima grandezza, che in realtà finora non ha visto solo chi non voleva vedere. “Il governo russo sta sfacciatamente assaltando le fondamenta della democrazia occidentale in tutto il mondo. Sotto il Presidente Vladimir Putin, il Cremlino ha lanciato un attacco coordinato attraverso molti strumenti – militare, politico, economico, informativo – utilizzando una varietà di mezzi, in modo palese e segreto”. Ha invaso Georgia e Ucraina per evitare che si avvicinassero alla Nato. Ma “in maniera più frequente e insidiosa, ha cercato di indebolire e sovvertire le democrazie occidentali dall’interno usando come armi le informazioni, la rete, l’energia e la corruzione”.

Non stiamo parlando solo della disinformazione teleguidata sui social network. Il capitalismo di Stato rende Putin particolarmente influente nei confronti sia degli oligarchi russi che fanno affari in Europa sia delle compagnie europee che beneficiano in Russia della sua benevolenza. Gli uni e le altre diventano quindi potenziali canali di finanziamento per attività politiche benviste dal Cremlino. E “un bel po’ dei loro soldi è andato a candidati o movimenti anti-establishment in Europa che sostengono un partenariato più stretto con la Russia o che pubblicamente mettono in discussione il valore dell’appartenenza alla Nato o all’UE. Per il Cremlino, poco importa quale sia l’ideologia specifica di questi candidati o movimenti; l’obiettivo più importante è indebolire e dividere internamente le democrazie occidentali”.

Biden lo scrive in un saggio pubblicato su Foreign Affairs, tra le più importanti riviste di politica internazionale al mondo, firmato insieme a Michael Carpenter nella loro attuale veste di Presidente e Direttore del «Penn Biden Center for Diplomacy and Global Engagement», la think thank creata dallo stesso Biden all’interno dell’Università della Pennsylvania. Non si tratta di gossip, ma di una analisi articolata, che trae fondamento da fatti accertati da strutture di intelligence non solo americane coerenti con la visione che Putin persegue da anni.
...

Putin ovviamente non è il motore primo delle difficoltà in cui si dibattono le democrazie liberali. Non è stato lui a creare Trump o i populisti europei, che si sono affermati sfruttando un malessere reale. Ma ha un oggettivo interesse a sfruttare a sua volta il loro successo e favorirlo. I fondamentali della sua strategia, gli interessi sottostanti e le debolezze europee in cui si insinua sono documentati in maniera tanto efficace quanto preoccupante da James Kirchick in The End of Europe: Dictators, Demagogues, and the Coming Dark Age (La fine dell’Europa: dittatori, demagoghi e l’era buia che sta arrivando), pubblicato dalla Yale University Press a marzo di quest’anno.

Come ha ricordato Kirchick, la politica di Putin è ancora oggi guidata da quanto aveva detto nel famoso discorso tenuto alla Conferenza di Monaco sulla Sicurezza nel 2007. Per l’ex ufficiale del KGB, la sconfitta sovietica nella guerra fredda e il mondo “unipolare”, con la conseguente perdita di identità della Russia e il netto declino della sua posizione dominante in “Eurasia” sono ferite che devono essere rimarginate. In quello stesso anno il Cremlino lanciò la sua politica revisionista di riscrittura dei manuali scolastici per riabilitare Stalin e l’Unione Sovietica. Allo stesso tempo, l’ideologia guida comunista è stata sostituita da un nazionalismo illiberale ammantato della difesa della «civiltà cristiana» contro le degenerazioni libertarie europee e l’attacco dell’Islam.
Accanto alla facciata di procedure elettorali democratiche, il potere di Putin si è consolidato, all’interno, attraverso l’eliminazione con vari metodi dei dissidenti, la cooptazione di altri parlamentari di opposizione, l’intimidazione dei media, la repressione delle manifestazioni di massa contro il governo. Verso l’esterno, Putin ha un oggettivo interesse ad indebolire l’Unione Europea, la quale, con l’allargamento ad Est, ha contribuito a smembrare il blocco sovietico, ed oggi costituisce un ostacolo per la riaffermazione di una egemonia russa a cavallo dei due continenti. Dunque, la Brexit, la secessione della Catalogna, l’affermazione di movimenti politici che moltiplicano sfiducia e risentimento verso le istituzioni, producono instabilità e impediscono il riavvio del progetto europeo su nuove basi sono benedetti.

Senza una politica energetica comune, l’UE continuerà ad essere ostaggio dei gasdotti russi. Senza una forte politica comune di difesa, ben connessa con la Nato, sarà più facile ripetere interventi militari come quelli in Georgia e in Ucraina. Se il mercato comune viene messo in crisi e gli scambi intra-comunitari dovessero crollare, per la Russia di Putin sarà più facile stabilire relazioni bilaterali asimmetriche con singoli paesi europei. Per di più, fino a due anni fa, l’Ue poteva contare su una sponda abbastanza solida oltre oceano. Ma nella visione di Trump la sicurezza dell’Europa non è così cruciale, e anche per lui l’Ue è un inciampo. È più importante per Trump stabilire un accordo con il Cremlino sulla gestione dei conflitti e la mappa del potere in Medio Oriente.
...
Per chi fa davvero il titolo Vladimir Putin secondo Joe Biden



“Troll, bot e associazioni culturali. Così la Russia ha sabotato il referendum in Italia”
 
di Giuseppe Sarcina, corrispondente da Washington

Una specie di «Spectre 2.0». Il Super procuratore Robert Mueller accusa tre società e 13 cittadini russi di «cospirazione» per aver seminato divisioni e caos nella politica americana. È il «Project Lakhta» avviato nel 2014 e culminato nelle elezioni presidenziali del 2016. Obiettivo: appoggiare la candidatura degli outsider, Donald Trump innanzitutto, ma anche il senatore democratico Bernie Sanders, attaccando principalmente Hillary Clinton e i senatori repubblicani Ted Cruz e Marco Rubio.

I russi hanno avuto contatti anche con «rappresentanti» del comitato elettorale di Trump che erano, però, (e questo è l’aggettivo chiave in questa fase) «unwitting», inconsapevoli dell’identità dei loro interlocutori. Le interferenze russe non si sono spinte al punto da «alterare» il risultato dell’8 novembre 2016. Trump, quindi, non ha vinto perché gli hacker di Mosca hanno truccato le schede. Concetti ripetuti poi in una breve conferenza stampa dal vice ministro della Giustizia, Rod Rosenstein, che ha precisato: l’inchiesta sul Russiagate va avanti. Per intanto, Trump, che finora non aveva mai riconosciuto pienamente le interferenze russe, va all’incasso con un tweet: «La Russia ha cominciato la sua campagna anti Usa nel 2014, molto prima che io annunciassi la mia candidatura. Nessun impatto sul risultato elettorale. Il comitato Trump non ha fatto nulla: nessuna collusione!».
...

L’atto istruttorio di Mueller, 37 pagine, fissa, dunque, alcuni passaggi di grande importanza, ma non conclusivi.

Nella lista degli incriminati il personaggio più interessante è Eugeny Prigozhin, partito da un chiosco di hot-dog per diventare un boss del catering e uno degli oligarchi più vicini a Vladimir Putin. Prigozhin, con le sue società di San Pietroburgo, «Concord Management» e «Consulting e Concord Catering», versava 1,2 milioni di dollari al mese all’Internet Research Agency Organization, la piattaforma operativa delle manovre di disturbo, la «troll factory», la fabbrica dei provocatori via Internet.

Dall’inizio del 2014 gli specialisti russi si infiltrano nei social, costruiscono false identità riconducibili ad attivisti americani. A metà del 2016 la «fabbrica» gira a pieno regime. La «cospirazione» si muove su almeno tre livelli. Quello base: formazione di gruppi tematici in particolare su Facebook e Instagram per agitare e dividere l’opinione pubblica. Spuntano account come Secured Borders, confini messi in sicurezza, oppure United Muslims of America o Army of Jesus e così via. Iniziative condotte con abilità: i follower sono centinaia di migliaia.

Il secondo sviluppo è sul territorio. Gli agenti del «Project Lakhta» attraversano il Paese, dal Nevada al Michigan, dal Texas all’Illinois, cercando di raccogliere informazioni sulle aree dove la battaglia politica è in bilico, come in Virginia, Colorado e Florida.

Infine la sintesi, con la terza direttrice. Campagne di denigrazione e di odio contro i candidati espressione dell’establishment come Hillary Clinton e Marco Rubio o comunque d’ostacolo a Donald Trump, come Ted Cruz. Qualche esempio degli hashtag messi in circolazione: #TrumpTrain, #Trump2106, #Hillary4prison.

E siamo al punto 45 del documento, politicamente il più delicato: «Gli accusati usarono false identità per comunicare con inconsapevoli rappresentanti, volontari e sostenitori della campagna di Trump coinvolti nelle comunità locali, così come nei gruppi della base. …Gli accusati monitoravano la diffusione del loro materiale propagandistico attraverso questi canali». La conclusione di Mueller, dunque, è che «questi» 13 russi non abbiano stretto un patto esplicito con Trump per danneggiare Hillary Clinton.

Ma il Russiagate non è finito. C’è ancora molto da esplorare. A cominciare dai contatti tra Michael Flynn, Donald Jr Trump e altre figure riconducibili a Mosca.

16 febbraio 2018 (modifica il 17 febbraio 2018 | 12:57)
©
Russiagate, incriminati 13 cittadini russi: fake news per favorire Trump



La minaccia più grande per gli Stati Uniti? La cyber security. La valutazione dei servizi segreti - Formiche.net


Russiagate, perché il procuratore speciale Mueller ha incriminato 13 cittadini russi - Formiche.net


13 russi indagati, e nuove accuse a Trump: il Russiagate si avvicina all'atto finale 
 

Users who are viewing this thread

Back
Alto