Abbiamo vent'anni, siamo innamorati e questa sera abbiamo mangiato la pizza del forno, bruna e con il pomodoro che schiuma rosso e zuccherino, seduti sui gradini di un palazzo, riparati da un cornicione, mentre più in là su tutto diluvia e sulle dita sgretolano le briciole e le gocce.
Abbiamo trent'anni, viviamo insieme e una volta mentre faccio il bagno va via la luce e l'acqua calda non funziona, allora tu riscaldi l'acqua in cucina, la porti nella pentola, mi vedi nudo e io, anche se nudi ci conosciamo, mi vergogno e mi guardo le ossa delle gambe.
Trentacinque anni e una mattina presto, mentre siamo nell'ultimo sonno, tu sul ventre con il braccio lungo il corpo, io sul fianco rivolto verso di te, socchiudi la mano e mi prendi tra le dita, piano, inconsapevole, e nel dormiveglia sento che la tua mano dorme e io sono il suo sogno; poi, svegli, andiamo in balcone ad annusare il gelsomino.
Ne abbiamo cinquanta e abbiamo dimenticato tante cose. Non stiamo più insieme e non ci incontriamo mai. Ogni tanto qualcosa ci fa tornare in mente un gesto o una parola e facciamo, separati, archeologia.
Abbiamo mille anni e siamo biologia. I nostri corpi non ci sono più e sono altro. Un tuo piede è un sasso, il mio naso è sabbia, le tue orecchie sono diventate mele, un mio occhio è un riccio in fondo al mare. La tua bocca, adesso, è carne dentro la mano di un uomo, i miei polmoni sono diventati matita. La materia si converte e noi con lei. Senza coscienza, la mano dell'uomo nel quale ci sei tu prende la matita nella quale ci sono io e scrive delle frasi, e noi esistiamo ancora nel movimento e nella scrittura.
Giorgio Vasta, Il tempo materiale