«Banche venete» e problemi civilistici di lettura costituzionale del decreto legge n. 99/2017
Aldo Angelo Dolmetta e Ugo Malvagna
Estremi per la citazione:
A.A. Dolmetta e U. Malvagna,
«Banche venete» e problemi civilistici di lettura costituzionale del decreto legge n. 99/2017, in
Riv. dir. banc., dirittobancario.it, 15, 2017
Allegati
A.A. Dolmetta e U. Malvagna, «Banche venete» e problemi civilistici di lettura costituzionale del decreto legge n. 99/2017, 2017
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Convegno DB 29 settembre 2017 - Tutela giurisdizionale della clientela nei processi di «risoluzione» di banche in crisi
ISSN: 2279–9737
Rivista di Diritto Bancario
1.- Il testo del recentissimo decreto legge recante «disposizioni urgenti per la liquidazione di Banca Popolare di Vicenza s.p.a. e di Veneto Banca s.p.a.» non manca di proporre incertezze, dubbi, domande. Che pare opportuno esplicitare subito, in funzione dell’esigenza di acquisire soluzioni comunque equilibrate, che tengano conto adeguato dei tanti interessi in gioco, di necessità non tutti in linea tra loro (una campionatura di questi interessi si trova richiamata, d’altra parte, dallo stesso «considerato» posto in premessa al provvedimento[1]).
In questo contesto, l’attenzione viene qui rivolta, in modo particolare, ai distinti precetti normativi portati dalle lettere
b) e
c) dell’art. 3, comma 1, del decreto[2]. Precetti, questi, che senza dubbio sono da annoverare tra i «fuochi» principali del provvedimento inteso, oltre a mettere in liquidazione coatta amministrativa le due banche venete, a regolare i termini della cessione delle loro aziende (ovvero di rami delle stesse o comunque di rapporti anche in blocco) al «soggetto individuato dal comma 3» del medesimo articolo 3[3].
2.- La disposizione scritta nella lett.
b) stralcia dalla prevista cessione taluni debiti, che le banche cedenti hanno (o vengano ad avere per successivo riconoscimento o accertamento giudiziale) nei confronti di propri azionisti o di propri obbligazionisti subordinati.
In punto oggettivo il riferimento non pare produrre incertezze: lo stesso va alle operazioni riguardanti – in senso oggettivo, appunto – i titoli di capitale (e relative varianti ibride,
i.e. i «subordinati») emessi dagli intermediari, e da essi commercializzati, nei diversi contesti operativi in cui tale attività può venire – e nei fatti è venuta – ad esprimersi. Si tratti della mera sollecitazione all’investimento, nella forma della sottoscrizione di azioni in sede di aumento di capitale; o anche dell’inclusione di quei titoli nel portafoglio titoli dei clienti, in sede di prestazione del servizio di gestione patrimoniale, o della sola consulenza o raccomandazione; o ancora, dell’abbinamento – più o meno «forzato» – della vendita di azioni all’erogazione di credito da parte della banca, secondo quella dinamica operativa che il gergo corrente designa in termini di operazioni c.d. baciate.
E intende coprire, d’altra parte, tanto le – posizioni debitorie connesse alle – controversie che censurino la violazione della normativa societaria (cfr., così, l’art. 2358 c.c.); tanto quelle che, assunta una prospettiva sulla fattispecie di stampo non più societario, bensì «finanziario», invochino la violazione della disciplina dei servizi d’investimento, contestando la coerenza tra il concreto agire dell’intermediario e la direttiva normativa di fondo della materia, costituita dall’obbligo di agire nell’interesse del cliente
ex art. 21 TUF ovvero di altri obblighi di informazione e/o di adeguatezza; tanto, ancora, quelle che neghino - anche sulla base del rilievo delle violazioni ora indicate (in specie, della necessaria protezione dell’interesse del cliente) -, l’esistenza di un interesse meritevole di tutela
ex art. 1322, comma 2, c.c., come proprio dell’operazione. Insomma, lo stralcio appare inteso a coprire l’intero arco della reazione rimediale che l’ordinamento mostra percorribile, in reazione a queste condotte: tutte e tre le vie di tutela che per diritto positivo sembrano darsi, cioè.
Se è certo l’intento generale veicolato da una disciplina siffatta (quello cioè «protettivo», ovvero «esonerativo», del soggetto acquirente: cfr. appena
infra, n. 3), meno scontata sembra manifestarsi, invece, la portata effettiva della sottrazione stabilita dalla norma in questione. Qui, dunque, si pone un primo ordine di dubbi di solida portata.
3.- A una prima lettura, l’impressione che si ricava dalla norma della lett.
b) è che questa intenda evitare al soggetto acquirente ogni tipo e forma di coinvolgimento rispetto alle indicate posizioni debitorie.
Si tratta di posizioni debitorie - su cui appunto insiste la norma - che risultano accomunate da un dato qualificante: quello di prodursi come conseguenza di prassi e condotte delle banche cedenti, non propriamente in linea con la normativa di legge. Il dato assurge, in realtà, a rilievo definitorio, posto che è lo stesso tenore testuale della lettera
b) a esplicitare e sottolineare alquanto tale aspetto. Può anche dirsi, anzi, che alla base della stessa sussistenza di una norma del genere sta proprio l’esigenza di regolare simile tipologia di debiti, quali frutto di un’attività svolta
contra legem a livello (evidentemente non isolato, ma) imprenditoriale.
La norma è significativa in sé, nella misura in cui sottende - prima di abbozzare una strategia di soluzione - una diagnosi (non troppo difficile da svolgere, forse) dei fattori genetici della crisi delle due banche venete: a pesare sono state non solo le irregolarità sul lato degli impieghi, ma pure quelle accumulatesi sulla via della provvista. Da qui il passaggio all’ipotesi di «cura»: in presenza di operatività imprenditoriali connotate da logiche estranee al principio della sana e prudente gestione dell’art. 5 TUB, il tentativo di assicurare, a mezzo cessione, la continuità aziendale poteva essere assicurato - e la continuità assorbita - anche per il mezzo di una cesura delle posizioni debitorie di stampo risarcitorio e/o restitutorio, propriamente relative alla provvista.
Ed è questo, forse, l’intendimento sostanziale di coloro che, nella comunità degli operatori giuridici, vengono definiti come il «legislatore storico». Quasi a dire: che c’entra l’acquirente con le malefatte dell’alienante? Perché, allora, coinvolgerlo in tal modo nell’onere economico del salvataggio[4]?
4.- Può tuttavia seriamente dubitarsi che, se così effettivamente inteso, il tentativo di contemperamento delle diverse esigenze coinvolte nella vicenda delle banche venete sia in grado di superare la misura – va da sé, al di là di ogni eventuale rilievo della condivisibilità politica e tecnica di una cura del genere, – della legalità costituzionale. In realtà, una simile ipotesi di lettura propone e veicola, com’è del resto evidente, la creazione di un
titolo discriminatorio a danno di taluna parte della clientela delle imprese cedenti.
Si tratta, per la verità, di una discriminazione di segno assai importante e profondo, (anche) perché non si limita a evocare i problemi e rischi di ragionevolezza insiti nel fatto di vestire di trattamento disciplinare diverso fattispecie di tratto similare (con riferimento, si intende, al livello qualificativo rilevante per la disciplina considerata: qui, a fare da prima sponda, il genere dei debiti delle imprese in relazione alla cessione dell’azienda). La stessa assume, in realtà, connotati più preoccupanti, perché – al di là di questo primo livello di differenziazione - viene specificamente a toccare, penalizzandola, proprio la posizione di coloro che hanno subito non solo in via indiretta, ma pure in via proprio immediata, gli effetti negativi dell’azione
contra legem delle banche cedenti.
Quest’ultima notazione va, peraltro, articolata in maniera opportuna. Per farlo, occorre evidenziare la distinzione – materiale, ma pure normativa – che corre tra la fattispecie a cui fa cenno la frazione di apertura della
lett. b) («debiti delle Banche nei confronti dei propri azionisti e obbligazionisti subordinati derivanti dalle operazioni di commercializzazione di azioni o obbligazioni subordinate delle Banche») e quella considerata dalla frazione seguente (debiti derivanti «dalle violazioni della normativa sulla prestazione dei servizi di investimento riferite alle medesime azioni o obbligazioni subordinate»). Si tratta di posizioni che, se possono coincidere nel concreto, per l’ordinamento rilevano in termini diversi.
La prima frazione considera i clienti delle banche cedenti quali azionisti, come soggetti istituzionalmente destinati, dunque, a sopportare il rischio di impresa e tutelati dai mali comportamenti degli amministratori – in un sistema eteronormativo di impianto classico, almeno – soprattutto a mezzo dell’azione di responsabilità nei loro confronti. L’altra frazione della norma si pone in una logica invece diversa, là dove assume i «danneggiati» – così, in via segnata, procedendo alla costruzione di un titolo discriminatorio – come
clienti-investitori. Come fruitori, cioè, di servizi di investimento, le cui forme di reazione si esprimono, istituzionalmente, mediante rimedi esercitabili direttamente nei confronti della società prestatrice del servizio: in termini tanto risarcitori, quanto – pure in ragione del nesso che lega la clausola generale dell’«agire nell’interesse del cliente» (cfr., in specie, l’art. 21 TUF) alla valutazione di meritevolezza dell’operazione – in termini restitutori.
Sì che, in definitiva, il confronto che più di ogni altro indica l’irragionevolezza della discriminazione in discorso non è quello esterno, condotto tra creditori dell’ente genericamente intesi; è quello specifico, piuttosto, che si pone tra i clienti che abbiano avuto dei rapporti di servizi di investimento con le banche cedenti: da un lato, i clienti con rapporti che hanno investito su titoli emessi dalle banche stesse; d’altro, i clienti con rapporti relativi ad altri titoli (quindi, per dire, gli acquirenti di titoli Cirio, o Parmalat, o Lehman, o Argentina, …; o anche di strumenti che si ricolleghino a vicende meno traumatiche, ma comunque di violazione delle regole di trasparenza finanziaria). La discriminazione tra i primi (debiti che non «transitano») e i secondi (che invece «transitano») appare proprio irragionevole e non giustificata.
Posto un simile scenario, pare sicuro che a «reggere» la prodotta stortura non basti, non possa bastare il richiamo derogatorio dell’art. 2741 c.c., che opera l’art. 3 del decreto. Il richiamo si manifesta o come non pertinente e dunque inutile, nella misura in cui sia inteso nel significato tecnicamente proprio della norma, se è vero che i crediti considerati sono tutti chirografari; ovvero addirittura esorbitante, là dove il riferimento alla
par condicio venga inteso nel suo significato sistematico generale, e cioè come declinazione, nel rapporto
tra creditori, del principio base che l’art. 2740 c.c. detta con mente rivolta al singolo rapporto obbligatorio: conducendo il passaggio ideale, dunque, dal diritto del singolo creditore di soddisfarsi su tutti i beni del debitore all’
uguale diritto di ciascun creditore di soddisfarsi sui medesimi, cioè su tutti i beni del debitore (v. infatti appena
infra, n. 5). Comunque, un richiamo vacuo.
A venire in questione è, in realtà, il muro invalicabile - un «muro berlinese», per dire - della parità di trattamento rispetto a situazione omogenee (anzi, a volere scendere proprio nel dettaglio, una
disparità di trattamento rovesciata), nella misura in cui la lesione del principio
ex art. 3, comma 1, Cost. viene a incidere direttamente sulla materia della tutela del risparmio, di cui all’art. 47 Cost., per negare tutela al soggetto programmaticamente protetto dalla norma della Carta fondamentale. Il punto non è, insomma, tanto il nudo fatto di sottrarre a taluno tra i creditori la tutela di una data posizione creditoria, quale che essa sia; quanto il rapporto tra tale sottrazione e la lesione degli interessi a cui quella posizione risulta strumentale.
continua...................
Lo leggete tutto con attenzione.