senato.it - Legislatura 17ª - Commissione parlamentare di inchiesta sul sistema bancario e finanziario - Resoconto sommario n. 47 del 30/01/2018
5. L’ASSEGNAZIONE A INTESA DELLE BANCHE VENETE
Il costoso esito della crisi che ha causato la liquidazione della Banca Popolare di Vicenza e di Veneto Banca deriva in primo luogo dall’assoluta incapacità del governo di negoziare una soluzione idonea con la Commissione europea e con la Banca centrale europea.
Una volta fallito il tentativo di fondere le due banche e di quotare la nuova entità in Borsa con un piano industriale che desse nuove prospettive di stabilità e di crescita, il governo avrebbe dovuto ottenere dalle autorità europee il consenso a nazionalizzare la nuova banca con il meccanismo della ricapitalizzazione precauzionale.
Non si può dire che non ci abbia provato ma, in un ambiente ostile, soprattutto a causa della preconcetta avversione dei tedeschi a favorire soluzioni "pubbliche" alle crisi, il presidente del consiglio e il ministro dell’economia hanno subito una serie di veti e un costante innalzamento delle "soglie" di partecipazione di capitali privati da coinvolgere nella ricapitalizzazione.
Siamo stati vittime di una pretestuosa azione dimostrativa orchestrata dai paesi forti della Ue cui non siamo stati capaci di opporci, rivelando un profondo deficit di capacità di negoziazione. Senza, tra l’altro, opporre ricorsi. Con il risultato che le banche sono arrivate alla liquidazione coatta amministrativa.
Per evitare che il dissesto producesse ricadute devastanti sull’economia delle aree interessate si è riusciti alla fine a cedere a Intesa Sanpaolo buona parte degli attivi e dei passivi delle due banche. Una "ordinata fuoriuscita dal mercato" è stata assicurata da alcune misure di sostegno pubblico che hanno permesso a Intesa Sanpaolo di non peggiorare la propria situazione patrimoniale e l’esposizione al rischio di credito.
Si è parlato di una "procedura di vendita aperta e trasparente" gestita dal Mef. Prima è stato individuato un consulente indipendente, scelto dopo una gara. Poi è stata predisposta una "data room" con i dati analitici delle due banche; cinque gruppi bancari e un gruppo assicurativo hanno fatto richiesta di accedervi. Al termine del periodo concesso sono state avanzate due offerte vincolanti: una di Unicredit, per una parte molto piccola del complesso da vendere, l'altra da parte di Intesa Sanpaolo, risultata vincente.
Non è stato tuttavia chiarito se e in che misura fossero a conoscenza dei potenziali acquirenti le dimensioni degli oneri che lo Stato era pronto ad assumersi per favorire il buon esito della liquidazione.
Alla fine infatti l'intervento per cassa dello Stato è stato pari a circa 4,8 miliardi di euro. Di questi, 3,5 miliardi sono a copertura del fabbisogno di capitale di Intesa in seguito all'acquisizione della "parte buona" delle attività delle due banche; altri 1,3 miliardi contribuiscono alla ristrutturazione aziendale che Intesa dovrà sostenere per rispettare gli obblighi assunti nell'ambito della disciplina europea sugli aiuti di Stato. Intesa si impegna, tra l'altro, a gestire gli esuberi di personale conseguenti all'operazione.
Lo Stato concede inoltre a Intesa una garanzia sul credito che questa vanta nei confronti delle banche in liquidazione per lo sbilancio di cessione (5,4 miliardi elevabile fino a 6,4 miliardi). Infine lo Stato concede a Intesa garanzie a fronte di rischi di varia natura per un valore atteso (fair value) complessivo di 400 milioni (a fronte di un massimale garantito pari a circa 6 miliardi).
Tali garanzie rispondono anche all'esigenza di sopperire a una serie di carenze informative che, data la rapidità con cui è stato necessario condurre l'asta competitiva, non è stato possibile colmare prima della presentazione delle offerte.
In totale quindi c’è un esborso di cassa pari a 4,8 miliardi e garanzie per circa 12 miliardi. In cambio lo Stato non riceve azioni o titoli di debito, come sarebbe stato ovvio. Il governo e la Banca d’Italia hanno ripetutamente assicurato che gran parte dei fondi sarà recuperata con un’attenta gestione degli attivi e dei passivi.
Resta il fatto che Intesa Sanpaolo ha beneficiato di un enorme contributo pubblico, sancito da un decreto approvato in fretta e furia senza possibilità di modifiche, per mantenere inalterati i propri ratio patrimoniali.
Il 22 dicembre scorso Carlo Messina, ad di Intesa Sanpaolo, ha dichiarato che la sua banca supera di oltre quattro punti percentuali il requisito patrimoniale Srep per il 2018, circa 12 miliardi di euro più del minimo richiesto dalla normativa. Sembra di poter concludere che Intesa non avesse affatto bisogno dell’aiuto dello Stato per mantenere i propri ratio patrimoniali. Di qui la domanda: era davvero necessario mettere sul piatto tutti quei soldi da parte dello Stato?
Gli altri soggetti, sia quelli che hanno avuto accesso alla data room sia quelli soltanto interpellati, erano informati che rilevando le due banche venete avrebbero potuto beneficiare di quelle condizioni così favorevoli?
Il sospetto è che Intesa Sanpaolo fosse l’unico gruppo bancario disponibile ad affrontare l’operazione e che nella fase negoziale abbia saputo brillantemente monetizzare la propria disponibilità. In altre parole c’è stato un bail-out che Bruxelles e Francoforte hanno accettato purché lo si nascondesse dietro lo schermo del burden sharing (azzeramento di azioni e bond subordinati) e della gara per l’acquisizione delle due banche venete, vinta da Intesa Sanpaolo ma alla quale tutte le banche europee avrebbero potuto partecipare.