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Orizzonte48
Le Istituzioni riflettono la società o esse "conformano" la società e ne inducono la struttura? In democrazia, la risposta dovrebbe essere la prima. Ma c’è sempre l'ombra della seconda...il "potere" tende a perpetuarsi, forzando le regole che, nello Stato "democratico di diritto" ne disciplinano la legittimazione. Ultimamente, poi, la seconda si profila piuttosto...ingombrante, nella sintesi "lo vuole l'Europa". Ma non solo. Per capire il fenomeno, useremo la analisi economica del diritto.
lunedì 6 marzo 2017
MAASTRICHT: ERA GIA' TUTTO PREVISTO":
Vale la pena di riportare alcuni passaggi di un articolo di Ambrose Evans-Pritchard che gettano luce su un elemento di importanza essenziale sia in ordine alle finalità ultime costantemente perseguite dal federalismo europeo, sia sulla provenienza, politico-ideologica, dell'impulso federativo nella sua vera essenza economica:
"It was Washington that drove European integration in the late 1940s, and funded it covertly under the Truman, Eisenhower, Kennedy, Johnson, and Nixon administrations.
...
While irritated at times, the US has relied on the EU ever since as the anchor to American regional interests alongside NATO."
Tanto per dire sulla fase genetica che andiamo a celebrare in questi giorni, e sulla essenzialità dell'asse franco-tedesco (e quindi sulla simmetrica marginalità italiana, altrettanto genetica, agli occhi dei "promotori"):
"The Schuman Declaration that set the tone of Franco-German reconciliation - and would lead by stages to the European Community - was cooked up by the US Secretary of State Dean Acheson at a meeting in Foggy Bottom. "It all began in Washington," said Robert Schuman's chief of staff.
It was the Truman administration that browbeat the French to reach a modus vivendi with Germany in the early post-War years, even threatening to cut off US Marshall aid at a furious meeting with recalcitrant French leaders they resisted in September 1950"...
There were horrible misjudgments along the way, of course. A memo dated June 11, 1965, instructs the vice-president of the European Community to pursue monetary union by stealth, suppressing debate until the "adoption of such proposals would become virtually inescapable". This was too clever by half, as we can see today from debt-deflation traps and mass unemployment across southern Europe".
Certo ci sono stati alcuni "imprevisti" o, più esattamente, inconvenienti di "fanatismo ideologico" sopravvenuti da parte europea, ma, tutto sommato, fino ai giorni nostri, il rapporto benefici/costi pro-USA è sembrato rimanere positivo e dunque tollerabile:
"It is true that America had second thoughts about the EU once Europe's ideological fanatics gained ascendancy in the late 1980s, recasting the union as a rival superpower with ambitions to challenge and surpass the US.
John Kornblum, the State Department's chief of European affairs in the 1990s, says it was a nightmare trying deal with Brussels. "I ended up totally frustrated. In the areas of military, security and defence, it is totally dysfunctional."
Mr Kornblum argues that the EU "left NATO psychologically" when it tried to set up its own military command structure, and did so with its usual posturing and incompetence. "Both Britain and the West would be in much better shape if Britain was not in the EU," he said.
This is interesting but it is a minority view in US policy circles. The frustration with the EU passed when Poland and the first wave of East European states joined the EU in 2004, bringing in a troupe of Atlanticist governments.
We know it is hardly a love-affair. A top US official was caught two years ago on a telephone intercept dismissing Brussels during the Ukraine crisis with the lapidary words, "fuck the EU".
Non traduciamo, per il momento quanto riportato in questo addendum, poiché si tratta della conferma di analisi già ampiamente svolte (v. pure i links inseriti nella premessa) su questo blog.
Ma rimane interessante la conferma ulteriore di questo scenario di premessa, in assenza della cui comprensione, la visione del federalismo europeo rimane un esercizio "monco" e irrealistico.
URL:
1. Questo video è ormai molto noto.
In esso Draghi spiega come deve funzionare, per necessità scientifico-economica e politica, l'eurozona. E parte direttamente dalla necessità degli "aggiustamenti", tra i paesi dell'eurozona. Spiega, nella seconda parte, delle divergenze di crescita e di inflazione tra i paesi che vi appartengono e di come ciò dia luogo a fenomeni di movimento di capitali che, dai paesi più competitivi e con tassi di inflazione più bassi, finanziano le importazioni da parte dei paesi meno competitivi.
Racconta, per implicito, come l'invariabilità del cambio favorisca tutto ciò, rendendo conveniente effettuare questo credito da parte dei sistemi bancari dei paesi più forti e di come, però, a un certo punto, le posizioni debitorie così create (sottintende dovute principalmente a credito privato da scambio commerciale e da affluenza di capitali attratti dai tassi di interesse più alti nei paesi a inflazione maggiore), divengano eccessive e quindi "rischiose" (anche perché ciò droga la crescita col capitale preso a prestito e genera ulteriore innalzamento dell'inflazione).
1.1. Pertanto, superata questa soglia di rischio (visto come probabile incapacità di restituzione) ciò induce i creditori a chiedere il rientro delle proprie posizioni e obbliga i paesi "deboli" ad agire in un solo modo: effettuare la "internal devaluation" cioè comprimere la propria domanda interna mediante la leva fiscale (aumento delle tasse e taglio della spesa pubblica), al fine di correggere verso il basso i prezzi, in particolare i c.d. salari.
Draghi mostra di ritenere tutto ciò un male necessario, e quindi un sacrificio per un presunto bene superiore, in quanto non ci sarebbe altra scelta. E lo dice sottolineando che non possono esserci paesi per sempre ("permanent") debitori e paesi per sempre creditori: fa l'esempio di "altre unioni monetarie" che contemplano questa possibilità, e la risolvono mediante i trasferimenti di un comune governo federale verso i paesi "debitori", ma esclude che ciò sia praticabile in €uropa, non essendo "realistic" allo stato dell'attuale integrazione politica tra gli Stati europei.
2. Quando abbiamo parlato del primo progetto "ufficiale" di moneta unica, cioè già ascrivibile alle (allora) istituzioni comunitarie europee, e quindi al Rapporto Werner del 1971, citammo un commento di Carli del 1973 a questo stesso primo progetto.
Questo commento lo ritrovate ne "La Costituzione nella palude" alle pagg. 137-138, preceduto da una sintesi critica (allora) di Maiocchi (del 1974) sui "meccanismi automatici di aggiustamento della bilancia dei pagamenti": questi sarebbero una soluzione contraddittoria in quanto collegati alla preventiva rinuncia ai trasferimenti federali, lasciati a un'indefinita "seconda fase", e prevedendosi, nel frattempo, aggiustamenti eccessivamente onerosi per i paesi "debitori" e il pratico impedimento a "politiche fiscali anticicliche e di crescita", sovrastate e rese controproducenti dall'esigenza di mantenere la stabilità monetaria.
Quindi, tutto ciò in attesa di un tempo "futuro", che abbiamo visto non sarebbe arrivato mai, in cui si sarebbe potuto istituire il meccanismo fiscale "compensativo".
E questo a tacere dell'utilità (indimostrabile), in termini di crescita e di sviluppo, di un'unione monetaria in sè, quand'anche cioè caratterizzata in partenza dalla perfetta convergenza di indicatori economici (inflazione, produttività, dinamiche salariali, sistemi fiscali, amministrativi e persino giudiziari) tra i diversi Stati partecipanti.
3. Il commento del 1973 di Carli, perciò, non casualmente era il seguente:
"Se in questo momento la lotta all’inflazione appare l’obiettivo prioritario, l’Unione monetaria europea non può tuttavia essere imperniata su un meccanismo che tenda a relegare verso il fondo della scala gli obiettivi dello sviluppo e della piena occupazione, cioè ad invertire le scelte accettate dalla generalità dei popoli e dei governi in questo dopoguerra".
Nel libro "Economia e luoghi comuni" Amedeo Di Maio (pag.26), al culmine di un'interessante esposizione del paradigma economico ordoliberista, - che conferma quanto a sua volta esposto ne "La Costituzione nella palude"- ci racconta come Müller-Armack, l'inventore della formula-simbolo dell'ordoliberismo, "economia sociale di mercato" (su cui così nitidamente ci ragguagliò Einaudi, v. infra), in uno scritto del 1978, avesse predicato che stabilità monetaria e finanziaria dovessero precedere l'instaurazione di un "ordine monetario" comune, e che l'unico mezzo per ottenere questo risultato era la precondizione del pareggio di bilancio nei vari Stati coinvolti (di cui era così enunciata la funzione equivalente, nell'ambito dei rapporti tra gli Stati appartenenti all'"ordine monetario", al gold standard: garantire quella stabilità, ovverosia quell'attitudine del lavoro ad assorbire ogni aggiustamento reso necessario dal mantenimento della competitività e dell'equilibrio dei conti con l'estero, che si ottiene controllando ossessivamente la dinamica salariale mediante un alto livello strutturale di disoccupazione e precarietà).
4. Ma, altrettanto, noi sappiamo che si scelse apertamente di non percorrere questa via, che pure sarebbe stata, per tradizione culturale, quella preferita dai tedeschi (almeno da quelli del tempo dei primi progetti, cioè prima che il neo-ordoliberismo divenisse una pura strumentalità mercantilistica per convenienze immediate e non cooperative).
Si scelse invece quella attuale perché la moneta unica, e con essa il trattato di Maastricht (e prima ancora l'Atto Unico del 1987), vedevano concordi tutti i "negoziatori" dei paesi interessati nel creare questa costrizione al pareggio di bilancio e, comunque, alla stabilità monetaria e dunque all'inflazione "bassa e stabile", proprio perché, come aveva preconizzato Einaudi negli anni '40 e negli anni '50, questo non avrebbe certo portato alla crescita, quanto al ridisegno sociale in senso liberista, e anti-socialcostituzionale, dell'intera Europa (così Einaudi, da ultimo citato, nel commento al pensiero economico di Erhard e Eucken: "O il mercato comune sarà liberista o correrà rischio di cadere nel collettivismo";..."anche il qualificativo «sociale» è un semplice riempitivo...il riempitivo «sociale» ha l’ufficio meramente formale di far star zitti politici e pubblicisti iscritti al reparto «agitati sociali».”).
5. Dunque, a seguire le teorie economiche che costituivano il patrimonio condiviso dei sostenitori dell'Europa economica e monetaria, (quale poi in effetti realizzata), le condizioni di stretta convergenza di crescita (realistica, cioè non tale da generare tensioni inflattive e da resdistribuire il potere socio-politico agli "agitati sociali"), inflazione e regime fiscale di pareggio di bilancio, avrebbero dovuto precedere e non seguire l'instaurazione dell'unione monetaria.
Ma l'occasione di costringere, ridisegnare e ridisciplinare le masse riottose dei paesi a costituzioni "socialiste", era troppo ghiotta per lasciarsela sfuggire: dunque, si sarebbe offerta, in una cornice di opportuna propaganda mediatica, l'idea della pace e della cooperazione come perno della costruzione europea, ben sapendo che non sarebbe stata altro che severa disciplina fiscale e, naturalmente, del lavoro, chiamato a pagare il costo degli "aggiustamenti automatici" (a loro volta subito esaltati da Einaudi, che preferisce chiamarli fasi applicative di "sanzioni", appunto automatiche, in una visione di chiara rivalsa verso una società eticamente distorta, secondo lui; qui p.5).
6. La conferma di questo percorso ci viene, ancora una volta, dalle memorie di Carli, che indulge in una serie di considerazioni apparentemente contraddittorie; nel senso che è cosciente dei problemi economici e distributivi che sarebbero sorti nel governare, in nome della sola concorrenza sui liberi mercati, le tensioni sociali riversate sul lavoro, ma rinuncia a mitigare tutto ciò, risolvendo quello che può apparire un problema di coscienza (che già si indovinava nel commento del 1973), sulla base di considerazioni "etiche" collimanti con quelle di Einaudi.
Ricostruiamo questo percorso, narrato da Carli, in base all'attenta selezione offertaci, more solito, da Arturo:
a) vediamo anzitutto lo scrupolo (di Carli) e le vicende normative nel formarsi del trattato di Maastricht.
La questione riguarda la prima forma di tetto al deficit (ora previsto all'art.126 TFUE), laddove se l'ideale è appunto il pareggio di bilancio, è ovvio che "gli Stati membri devono evitare disavanzi pubblici eccessivi" (par.1), ma qualcosa "potrebbe" essere economicamente irrazionale nel prevedere un tetto rigido e automatico:
“Se l’articolo 104 C, comma 2, a, punto 1 fu scritto dalla nostra delegazione, il punto seguente reca la firma della delegazione britannica, laddove esclude l’applicazione meccanica dei criteri in caso di scostamenti “eccezionali e temporanei”.
E' questo, in tutto il trattato, l’unico accenno al ciclo economico. Né deve stupire che siano stati i britannici a proporre quell’emendamento. L’Inghilterra resta pur sempre la patria di John Maynard Keynes.
Per chi, come me, è stato sinceramente convinto della bontà dell’impianto complessivo degli statuti di Bretton Woods e della loro interpretazione successiva, è difficile accettare con animo leggero il fatto che l’obiettivo della stabilità dei prezzi sia indicato senza alcun riferimento al livello occupazionale e, dunque, al benessere delle comunità che si sono date questa nuova Costituzione monetaria.
Ho provato ripetutamente nel corso del negoziato a inserire tra i criteri anche il livello di disoccupazione che pochi mesi dopo sarebbe riemerso, dopo tanta dimenticanza, come il problema principale dell’Europa. Senza successo.” (G. Carli, "Cinquant’anni di vita italiana", Laterza, Roma-Bari, 1996 [1993], pag. 407).