lunedì 12 marzo 2018
QUARANTA (E PIU') ANNI DI RIVINCITA SULLA DEMOCRAZIA (SOSTANZIALE): IL VOTO...A PERDERE [/paste:font]
Pensioni: una bomba sociale pronta a esplodere
Di
Felice Roberto Pizzuti -
31 gennaio 2018
Reforms introduced by the 1990s in labor market and
pension system (whose budget is significantly active) threaten social cohesion and growth. The increased part of workers currently penalized by modest and discontinuous wages will also have decreasing pensions compared to per capita GDP. Figurative contributions for verified unemployed could avoid a medium term coming social blow up.
Come capirete, l'immagine e l'articolo citato riassumono fenomenologicamente il post...
1. Alla luce dei vistosi risultati elettorali, proviamo a fornire alcuni elementi di non secondaria importanza per poter meglio rispondere alla seguente domanda:
fino a quando dovrebbe andare a ritroso un
ripensamento critico adeguato, cioè aderente ai fatti, alle idee e agli effetti, che volesse
ricostruire la sinistra? Francesco, nei commenti al
precedente post, ha rammentato un'interessante "svolta" del PCI di Berlinguer, riportando i diretti contenuti della relativa enunciazione e proclamazione.
In simultanea, l'amico
lim bo @theBsaint, su twitter, ci ha fornito un'interessante fonte documentale (traendola dal suo "archivio" wikileaks), che di tale "svolta" risulta essere l'antecedente storico:
2. Dunque, a dicembre 1977, l'ambasciatore Gardner "saggia" (evidentemente sta riferendo al "centro" della sua conversazione con La Malfa), le conseguenze operative di quel che
Berlinguer aveva già lanciato come segnale nel maggio dello stesso anno (siamo
in pieno compromesso storico, entro il governo Andreotti III), così come riportato
nel citato commento di Francesco:
“
…abbandonare l’illusione che sia possibile perpetuare un tipo di sviluppo fondato su quella artificiosa espansione dei consumi individuali che è fonte di sprechi, di PARASSITISMI, di privilegi, di dissipazione delle risorse, di dissesto finanziario.
Ecco perché una politica di austerità, di rigore, di guerra allo spreco è divenuta una necessità irrecusabile da parte di tutti ed è, al tempo stesso, la leva su cui premere per far avanzare la battaglia per trasformare la società nelle sue strutture e nelle sue idee di base…
Una politica di austerità …deve avere come scopo – ed è per questo che essa può, deve essere FATTA PROPRIA DAL MOVIMENTO OPERAIO – quello di instaurare giustizia, efficienza e, aggiungo, una moralità nuova.
Concepita in questo modo, una politica di austerità, anche se comporta (e di necessità, per la sua stessa natura) certe rinunce e certi sacrifici, acquista al tempo stesso significato rinnovatore e diviene, in effetti, un atto liberatorio per grandi masse, soggette a vecchie sudditanze e a intollerabili emarginazioni, crea nuove solidarietà, e potendo così ricevere consensi crescenti diventa un ampio moto democratico, al servizio di un’opera di trasformazione sociale.
[In nota] In quegli anni ebbe notevole successo il cosiddetto “Club di Roma” sostenitore della crescita zero. Fu fondato nell’aprile del 1968 dall’imprenditore italiano Aurelio Pecci e dallo scenziato scozzese Alexander King, insieme a Premi Nobel, leader politici e intellettuali. Il nome del gruppo nasce dal fatto che la prima riunione si svolse a Roma, presso la sede dell’Accademia dei Lincei alla Villa Farnesina. Conquistò l’attenzione dell’opinione pubblica con il suo Rapporto sui limiti dello sviluppo, meglio noto come Rapporto Meadows, pubblicato nel 1972, il quale prediceva che la crescita economica non potesse continuare indefinitamente a causa della limitata disponibilità di risorse naturali…” [Discorso di Enrico Berlinguer pronunciato all’Eliseo di Roma il 15 maggio 1977, ora in "Più Stato per tornare a crescere", S.C. BENVENUTI, Castelvecchi, 2017, 16-17].
3. La Storia italiana, com'è noto, prese poi
altre strade, non linearmente, ma solo parzialmente, collegate a quella evoluzione.
Comunque, in quel maggio 1977, peraltro,
Berlinguer ribadiva (p.1), - in termini di atteggiamento "responsabile" per l'appoggio a un governo che curasse la crisi con politiche deflazioniste-, quanto già anticipato in un'intervista all'Unità nel 1976: e rammentiamo come il governo Andreotti III, durasse dal 29 luglio 1976 al 16 gennaio 1978.
In tale intervista del 1976, viene abbracciata, con toni enfatici, prima ancora che la "moralità nuova" e "liberatoria" (per le masse) dell'insostenibilità di una continua crescita "consumistica",
l'idea einaudiana (
qui: addendum)
dell'inflazione come la più iniqua delle imposte; per la verità, a sua volta, questa idea, lo stesso Einaudi l'aveva
traslata dalla Conferenza di Bruxelles del 1920 (
qui, p.7), quella sponsorizzata dall'allora presidente della Fed
Benjamin Strong (che poi elogiò la particolare efficienza del fascismo nel realizzarne le indicazioni) per restaurare il
gold standard e rimettere
ordine nell'Europa degli anni immediatamente successivi alla prima guerra mondiale (cioè assicurarsi essenzialmente la restituzione dei vari crediti statunitensi).
4. Da segnalare, d'altra parte, che
la revanche della "lotta all'inflazione"...nell'interesse della classe lavoratrice, ma calata dall'alto della sfera dei banchieri (che se ne avvantaggiano realmente, come evidenziava Galbraith nello stesso periodo), aveva trovato una sua proclamazione globale nel fondamentale super
Report della Trilateral (
nata giusto due anni prima), datato 1975
: cioè, tra l'altro, appena l'anno precedente alla nascita dell'italico "
compromesso storico"...
Un Report che, non casualmente, preannunziava quella "
crisi della democrazia" della quale
vogliono tutt'ora convincerci.
E ci vogliono convincere in modo finale, proprio perché
non abbiamo ancora del tutto (e spontaneamente) rinunziato al suffragio universale - e alle inefficienze allocative (del potere e della ricchezza) pretesamente imputate alla
"numerazione" dei voti.
5. L'inflazione e l'immorale consumismo dei "poveri", si possono risolvere quindi soltanto rinunciando anche alla minima traccia della stessa democrazia di cui veniva proclamata la "crisi" - sottointendendo, in realtà, la sua auspicata
fine.
Ed infatti,
come dimostrava una certa serie di vicende sudamericane praticamente coeve alla nascita della Trilateral, si riteneva preferibile una bella dittatura (dei mercati), secondo il noto
teorema hayekiano.
E vale la pena di rammentare anche come
il tema della lotta all'inflazione, assume immediatamente, in quella sede, una corrispondenza biunivoca con il problema della "governabilità".
In sintesi: ci si accorge che per imporre la "stabilità dei prezzi" e la connessa flessibilità salariale favorevole al lato dell'offerta, occorre un'opportuna cornice "moralistica", ora spaventando con l'inflazione, ora condannando il consumismo dei poveri e incentivando i loro "sacrifici" con la suggestione delle "risorse limitate", in modo da
rendere inevitabile la rinuncia (spontanea) alla democrazia, intesa come forma di reale partecipazione del lavoro alle decisioni politiche di interesse generale:
partecipazione pluriclasse alla formazione dell'indirizzo politico che viene, appunto assunta tou-court come "in-governabilità".
6. Ma anche allora, in quel 1975,
la direttiva suprema "governabilità = deflazione" - o, il che è lo stesso, aggiornato alla successiva evoluzione €uropea,
target di inflazione costante per mantenere in vita una moneta equivalente alla cornice gold standard...di Benjamin Strong - si impose non senza alcune perplessità, che taluno mostrò in un residuale omaggio alla logica elementare (che sarebbe poi stata
travolta definitivamente dalla caduta del Muro di Berlino).
Ne abbiamo già fatto cenno, sottolineando come, - se pure il Report Trilateral fu edito in Italia
con la prefazione di Gianni Agnelli -, i temi in questione videro come primo alfiere Giuliano Amato (
qui, addendum):
"La governabilità: in Italia
fu Amato, tanto per cambiare,
ad annunciare che dopo il celebre rapporto della Trilaterale vi era stata "la scopertà della ingovernabilità come dramma epocale" (G. Amato,
Una repubblica da riformare, Il Mulino, Bologna, 1980, pag. 26. Contiene saggi pubblicati
fra il 1975 e il 1980).
In realtà bisogna leggerselo tutto il Rapporto: riserva sorprese. Per esempio a pag. 206, riferendo dei commenti durante la discussione del Rapporto a Montréal, si legge: “
Uno o due partecipanti suggerirono che l'intera discussione sulla governabilità avesse distorto i problemi reali e che fosse espressione della preoccupazione propria soltanto di un'elite, a disagio con il declino della propria posizione nella società!
Questi sostennero che fattori quali un'inflazione crescente e la crescita della spesa pubblica in rapporto al GNP (PIL) (fattori visti da alcuni come cause od effetti dei problemi di governabilità) non avessero nulla a che fare con la governabilità e potessero, in effetti, aver prodotto in prevalenza benefici, inducendo una miglior distribuzione del reddito, attraverso il recupero del distacco (ndr: rispetto ai profitti) a favore dei salari e attraverso le erogazioni del social welfare.”.
7. Ecco: ora, dopo oltre quaranta anni, siamo al punto che, cambiato qualcuno dei protagonisti, ma con molti pronti a raccoglierne la fiaccola, il lavoro deve essere finito.
Tagli alla spesa pubblica, privatizzazione, misure dolorose, il peso dell'enoooorme debito pubblico, costituiscono ancora l'intreccio colpevolizzatore che legittima l'inutilità del vostro voto.
Una prospettiva terrificante?
Certo,
ma solo se non siamo più in grado di riconoscere i termini del problema. Che pure
Federico Caffè aveva indicato con precisione già nel 1978 (p.3).
8. Basterebbe che ognuno, OGGI, se ne ricordasse:
"Caffè (nel "fatidico" 1978), aveva contrastato l'idea dell'inflazione come la "più iniqua delle imposte" con un articolo il cui titolo oggi sarebbe più che mai attualissimo: "
La vera emergenza non è il “populismo” ma una normalizzazione di tipo moderato". Vi riporto il passaggio fondamentale perché accosta la posizione di Berlinguer a quella di Hayek: e siamo nel 1978 (!):
"
La riscoperta del mercato, che non è fenomeno esclusivamente italiano anche se nel nostro paese ha trovato
conturbanti consensi perfino nelle forze politicamente progressiste, lascia sconcertati, in quanto appare
immune da ogni ripensamento critico che sia frutto della imponente documentazione teorica ed empirica disponibile sui
fallimenti del mercato: dalla sua incapacità di tutelare efficacemente il consumatore che dovrebbe esserne il sovrano, al suo assoggettamento alle forze che dovrebbero dipendere dalle sue indicazioni, al riconoscimento delle carenze che esso manifesta nella segnalazione di esigenze vitali, ma non paganti, della collettività.
I propositi di programmazione, d’altro canto, non si discostano ancora oggi dall’
antica riserva mentale, di stampo einaudiano, che esorcizzava, a suo tempo, lo stesso termine di
piano, sfumandolo in quello più blando di
schema, o svuotandolo di una connotazione specifica, in quanto “tutti fanno piani”.
Questo
arretramento culturale si traduce, fatalmente, in una
deformazione nell’attribuzione delle responsabilità di una situazione che si conviene definire meramente di emergenza.
Che di arretramento culturale si tratti non dipende meramente dal ritorno all’antico: il ricupero di idee del passato che siano state a torto trascurate o che non siano state adeguatamente comprese a tempo debito, risulta generalmente valido.
Ma allorché
Hayek ha, del tutto recentemente, scritto che “
la causa della disoccupazione risiede in una deviazione dai prezzi e dai salari di equilibrio che si stabilirebbero automaticamente, in presenza di un mercato libero e di una moneta stabile”, si è di fronte
non a una fruttuosa rielaborazione di idee che abbiano radici lontane, ma
all’ennesima attestazione dell’atteggiamento del ritorno retrivo di chi non ha saputo niente apprendere e niente dimenticare.
L’informazione maggiormente in grado di influenzare l’opinione pubblica, i messaggi delle persone in posizione di potere e di responsabilità non differiscono da questa, in fondo patetica, incapacità di studiosi indubbiamente eminenti, come Hayek, di riconsiderare in modo nuovo antichi convincimenti".
In conclusione, ripropongo la domanda iniziale: fino a quando dovrebbe andare a ritroso un
ripensamento critico adeguato, cioè aderente ai fatti, alle idee e agli effetti, che volesse
ricostruire la sinistra?