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La Russia di Putin si rende indipendente dal sistema bancario internazionale
Aurita 28 marzo 2017 28 marzo 2017Geopolitica, Moneta


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di Francesco Filini

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Detto fatto. Nel 2014 Vladimir Putin rispondeva alle sanzioni occidentali annunciando che la Russia stava lavorando ad un suo sistema di pagamento indipendente dal circuito SWIFT (Society for Worldwide Interbank Financial Telecommunication), ovvero il sistema di scambio che gestisce e rende possibili tutte le transazioni bancarie internazionali. A 3 anni “dall’aggressione finanziaria” Occidentale la Russia raggiunge l’obiettivo: la governatrice della Banca Centrale, Elvira Nabiullina, ha infatti annunciato che semmai lo SWIFT dovesse tagliare fuori la Russia, il sistema “sovrano” d’interscambio SPFS eviterebbe il collasso delle banche garantendo l’interascambio. Con questa mossa strategica Putin fa segnare un enorme passo verso l’indipendenza della sua Nazione dalla finanza internazionale. Già, perché dotare la Russia di un sistema d’interscambio indipendente dal circuito che fa capo alle centrali finanziarie Clearstream ed Euroclear (delle sottospecie di camere di compensazione con sede in Lussemburgo che di fatto fagocitano tutta la moneta creata dal nulla dalle banche centrali, verificandone i bilanci e compensando debiti e crediti scaturiti dalla moneta scritturale) significa rendersi autonomi in un circuito vitale per ogni nazione.

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Carta MIR

Mentre in Italia impazzano slogan sulla sovranità (spesso fini a se stessi perché privi di contenuto reale), in Russia si compiono passi da gigante verso l’indipendenza dal giogo dell’Usura Planetaria. Nel comunicato della Governatrice Nabiullina, si legge che il 90% dei bancomat russi (no dico, avete presente quanto è grande la Russia???) è pronto a fare anche a meno, qualora se ne palesasse la necessità, dei circuiti Visa e Mastercard, grazie al sistema autoctono Mir.
La sovranità dei popoli contro il sistema finanziario è indubbiamente la grande sfida del nostro tempo, la Russia di Vladimir Putin, spesso demonizzata e attaccata dalla propaganda occidentalista controllata da mondialisti come George Soros, rappresenta di sicuro un modello di riferimento con cui occorrerebbe cercare una collaborazione sostanziale per avviarsi verso la strada dell’indipendenza. Ma per far questo occorre esortare ogni persona impegnata in politica ad emanciparsi culturalmente, capire cos’è davvero la Sovranità, con quali strumenti si può raggiungere, abbandonando idioti pregiudizi, prese di posizione blande e cerchiobottiste, segno evidente di paura e insicurezza: sentimenti deboli che non rispondono ai requisiti che la Storia esige dai popoli europei

l.....
 
analisi economica del diritto.






























domenica 19 marzo 2017
TRUMP, NATO E "QUESTIONE TEDESCA": L'INIZIO DI UNA STRATEGIA P€RCORRIBILE?


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1. L'incontro Trump-Merkel ha avuto un esito che corrisponde, come normale conseguenza (e "reazione") alle prese di posizione assunte dalla cancelliera, che hanno "tirato dentro" la maggior parte dei leaders €uropei e, naturalmente, le stesse istituzioni UE. Che infatti, nel tenere la linea tedesca, non si fanno tutt'ora pregare:



2. Quella della Merkel è stata una presa di posizione di aperto contrasto all'elezione di Trump, durante la campagna elettorale, e poi di critica contestazione dei suoi atti di governo (in specie sulla questione del ban ai "rifugiati" musulmani e poi sull'accusa frettolosa e integralista di "protezionismo").
L'opinione pubblica internazionale, in base a ciò che è trapelato (molto poco) sui media circa il contenuto operativo-negoziale dei colloqui, peraltro, non è a conoscenza dei concreti accordi-disaccordi che possono essere insorti negli incontri tra le due rispettive delegazioni al seguito dei due capi di governo.
Piuttosto, si è focalizzata su questi due tweet di Trump che segnerebbero una sorta di consuntivo finale del clima politico scaturito dall'incontro:
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3. Quanto così formulato da Trump contiene una parte di verità e una parte di forzatura, almeno a stare a quelli che sono gli impegni giuridicamente rilevanti che possono essere reclamati dagli USA nei confronti degli alleati NATO in Europa.
La parte di verità corrisponde, peraltro, a un fatto notorio: gli USA spendono in Europa molto più dei partners europei per mantenere il sistema difensivo NATO.
I dati forniti dall'Alleanza Atlantica sono evidenti in proposito:
Il grafico 3 sottostante, è importante saperlo, ci dice tuttavia che, in rapporto all'andamento del PIL rispettivo, USA e dei paesi europei, la spesa pubblica per la difesa ha avuto una contrazione, successiva alla grande crisi finanziaria del 2008, più marcata per gli USA che per i paesi europei appartenenti alla NATO.
Tra questi vi sono però sia Stati membri che non sono parte dell'UE, sia Stati membri UE che non sono parte dell'eurozona: quelli dell'eurozona, com'è noto, anche a considerare una "media", e non le singole posizioni di paesi anche importanti come l'Italia, hanno tassi di crescita del PIL inferiori al resto d'Europa. In sostanza, i due grafici, scorporando opportunamente i paesi dell'eurozona, ci dicono che uno sforzo di mantenimento dei budget della difesa è stato fatto ed è persino maggiore di quello degli Stati Uniti.

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4. Comunque quelli che seguono sono i dati percentuali "assoluti" di spesa militare "effettiva", in rapporto al PIL, disaggregati per ciascun Stato aderente alla NATO: l'Italia è in una posizione nella media, di poco peggiore di quella della Germania: solo il Regno Unito e la Polonia sono, attualmente, sopra il 2% (sotto il profilo della spesa complessiva sia generale che in "equipment"), mentre Grecia e Estonia lo sarebbero solo includendovi spese del personale e di amministrazione non direttamente "logistico-militare". La Francia, a sua volta, ha una spesa militare complessiva sotto il limite, ma al di sopra per quanto l'equipaggiamento operativo.
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5. Ma c'è da considerare ciò che le stesse guidelines NATO configurano come "impegni", attuativi del trattato e concordati tra gli Stati membri secondo le sue procedure.
Spiega infatti Ivo Daalder, rappresentante permanente presso la NATO, che "gli Stati Uniti decidono autonomamente quanto spendere nel sistema NATO. Non c'è un meccanismo di transazione finanziaria nel quale i paesi NATO pagano gli USA per difenderli. Ciò è parte dell'impegno assunto col trattato.
Tutti i paesi NATO hanno assunto l'impegno di portare la spesa militare al 2% del PIL entro il 2024. Finora si sono adeguati 5 paesi NATO. Quelli che ancora non l'hanno fatto stanno comunque incrementando i loro budget della difesa.
Ma non c'è alcuna somma che debba essere pagata agli USA...L'Europa deve spendere di più nella difesa ma non come un favore o un pagamento nei confronti degli USA
...".

6. Insomma non solo la contribuzione in rapporto al PIL dei paesi NATO europei, per rafforzare la capacità difensiva della stessa NATO, non è attualmente violativa degli impegni assunti (in base al trattato), ma queste somme non formano oggetto di alcuna obbligazione "retributiva" della maggior contribuzione USA.

7. Alla luce di questo quadro possono formularsi alcune osservazioni:
a) anzitutto, una di natura politico-economica: se veramente l'obiettivo di Trump è quello di un maggior impegno militare europeo sostitutivo di quello, ritenuto ormai troppo oneroso, sostenuto dagli USA, il suo interesse è che il PIL dei paesi dell'eurozona, in quanto quelli più grandi demograficamente e caratterizzati da un maggior prodotto (almeno un tempo), cresca in misura opportuna e non sia bloccato in una stagnazione che può, in qualsiasi momento, degenerare in recessione, ove siano rigidamente applicati i target fiscali di riduzione dell'indebitamento annuo e del debito pubblico previsti dalla disciplina dell'eurozona.
Come potrebbe l'Italia aumentare effettivamente la propria capacità militare, con una effettiva e non simbolica crescita della relativa spesa pubblica, se costretta dal pareggio di bilancio e dalla, pur contestata, esigenza di copertura-rientro del continuo salvataggio pubblico, intrapreso e annunciato del suo sistema bancario?

b) in secondo luogo, rammentiamo quanto è stato espresso in questa fonte USA, che appare riflettere il punto di vista di Trump in quanto esponente di una filosofia di "America first":
"La Nato non funziona come un'alleanza. E' un gruppo di nazioni sovrane che risponde alle richieste americane se lo ritiene opportuno. Gli Stati Uniti lo sanno e a un certo punto, qualcuno evidenzierà che la Nato è obsoleta.
La questione può riassumersi nella seguente domanda. Qual è l'impegno dei paesi europei verso gli Stati Uniti? E qual è l'impegno USA vero l'Europa?
Non è più chiaro se ci sia la base geopolitica per questo impegno. Gli interessi sono divenuti divergenti. Nato non è più adatta alla realtà odierna".
Ebbene, se Trump vuole una formale responsabilizzazione del reciproco e (più) paritario impegno militare, deve modificare il Trattato NATO o promuoverne una serie di fondamentali modifiche, richiamando il "rebus sic stantibus" (cosa che peraltro è quasi eufemistica, sul piano formale, dato che, su quello sostanziale, la Nazione di gran lunga più forte, non ha bisogno di particolari legittimazioni giuridiche per chiedere un diverso assetto rispetto a un trattato a suo tempo "promosso" secondo i propi prevalenti disegni politico-internazionali).


8. In tutti i casi, una conclusione pragmatica dovrebbe risultare chiara agli USA:
- l'eurozona configura un sistema economico che ostacola il riequilibrio da loro auspicato;
- l'UE nel suo complesso costituisce un soggetto la cui traiettoria va in senso opposto a quello da loro ritenuto, attualmente, necessario perseguire. Ed infatti (p.7):
"questo insieme di notazioni (ex parte USA) non sono scevre da lacune: ad esempio, sono svolte senza coordinare il quadro delineato alla concreta modalità con cui le "Comunicazioni" €uropee sopra menzionate vogliono sviluppare la difesa - e l'industria- militare in UE.
Abbiamo visto che il prevedibile sviluppo di questo disegno si riveli un inevitabile rafforzamento dell'egemonia industriale, ma soprattutto politica, della Germania.
Zero Hedge non pare (esplicitamente) dar peso al fatto che un paese mercantilista, - che ricorre per di più al vantaggio abilmente dissimulato dell'euro, per commerciare con una moneta svalutata rispetto alla sua capacità esportativa individuale-, una volta preso il controllo politico-economico dell'intera eurozona (...qui p.11, ferma l'intangibilità della moneta unica), accoppiando pure quello militar-industriale, non potrebbe che acuire la sua resistenza e le sue pretese di contrapporre i propri interessi a quelli USA.
E questo anche in chiave di rapporto con la Russia
(e di rapporto privilegiato per farne un ulteriore hub esportativo per beni strumentali, costruzione di infrastrutture e beni durevoli di consumo).
Per finire, poi, (p.8) c'è un altro "aspetto ancora più inquietante: la prosecuzione degli indirizzi di politica industrial-militare progettati in sede europea, proprio perché soggetti all'imposizione de facto della preminenza politico-economica tedesca, rischiano di innescare non le mire russe sulla "penisola europea" quanto un conflitto interno alla stessa europa occidentale (si pensi alla prospettiva di una vittoria della Le Pen alle presidenziali francesi; ma non solo).
La "minaccia" tedesca, oggi ammantata di europeismo (ipocritamente pacifista da parte del paese meno cooperativo della già non cooperativa UE-M), diverrebbe un rischio, sempre più concreto, di ritorno alle stesse ragioni che portarono gli USA a intervenire sul teatro europeo nella seconda guerra mondiale."


9. Dunque, al di là delle specifiche clausole e obbligazioni (verso l'organizzazione NATO e non finanziariamente verso gli USA) previste in sede NATO, e quindi delle pretese avanzabili sul piano del diritto dei trattati, si può solo sperare che la dichiarazione twittata da Trump sia il frutto di una strategia politica che inizi ad affrontare, - sia pure sul piano settoriale del legame tra geo-politica e spesa militare nello scenario (essenzialmente) dell'eurozona, perché è qui che si manifesta, di gran lunga, il maggior problema che Trump intende risolvere-, quel verminaio di instabilità sociale e politica, prima ancora che finanziaria ed economica, che è divenuta l'eurozona rispetto all'intera crescita mondiale.
E il cuore di questo problema è la "questione tedesca"...

Pubblicato da Quarantotto a 14:55
 
...il "potere" tende a perpetuarsi, forzando le regole che, nello Stato "democratico di diritto" ne disciplinano la legittimazione. Ultimamente, poi, la seconda si profila piuttosto...ingombrante, nella sintesi "lo vuole l'Europa". Ma non solo. Per capire il fenomeno, useremo la analisi economica del diritto.






























domenica 2 aprile 2017
LA SANTA BARBARA USA, IL "RAPPRESENTATIVO" JUNCKER E IL LAVORATORE MEDIO OCCIDENTALE [/paste:font]






1. Abbiamo visto perché il modello deflazionista free-trade dell'eurozona non possa, per definizione, produrre dei livelli di crescita sostenuta (e diffusa al sistema produttivo nel suo insieme), tanto più se si continuano ad applicare dosi aggiuntive di austerità espansiva, che comprimono la domanda interna per favorire una crescita export-led only; e questo per inseguire, "in ritardo" e per via di aggiustamento svalutativo interno, il modello mercantilitsta pan-€uropeista o, se volete (la differenza è solo lessicale), pan-germanico.
La dipendenza dalla domanda estera che si produce in questo percorso - di cui si pensa solo che debba essere accentuato fino alle sue estreme conseguenze politiche- rende l'economia dell'eurozona, oltretutto, vulnerabile agli shock esterni, posto che insistendo sugli "aggiustamenti" esclusivamente orientati alla svalutazione interna, ci si rifiuta sia di considerare praticabile l'intervento di sostegno fiscale dei singoli Stati, sia di realizzare strumenti fiscali federali di sostegno della domanda complessiva dell'eurozona stessa in funzione anticiclica: ciò, si dice, porterebbe una contribuzione più che proporzionale a carico dei paesi con maggior surplus dei conti con l'estero (quelli che, in tale situazione, crescono di più, divaricando i loro PIL in modo crescente dalle dinamiche dei paesi meno competitivi).
Il massimo che riesce a produrre la "progettualità" di riforma €uropea dell'eurozona è la cosmesi di un governo fiscale-federale che, però, produca condizionalità crescenti a carico dei paesi che devono intraprendere gli "aggiustamenti" di svalutazione interna, mediante la sostanziale istituzionalizzazione della trojka (qui p.9: cioè sovranità fiscale "sostitutiva" di quella degli Stati attribuita direttamente a Commissione, BCE e ESM, trasformato in una sorta di FMI €urostyle; cioè iper-ordoliberista quanto alla tipologia dei programmi di aggiustamento a coercizione rafforzata che imporrà).

2. Dunque, dicevamo, il sistema così ostinatamente progettato, acuisce la vulnerabilità agli shock esterni dell'eurozona, la cui unica risposta a tali eventi è divenire un campo di sterminio dei diritti sociali (quelli effettivi e non quelli espressi nella neo-lingua dei diritti cosmetici) e del welfare.
Diviene perciò importante capire cosa si affacci all'orizzonte dell'outer space rispetto all'UE-M. E dunque occorre capire, anzitutto, quali siano le prospettive, in termini di bolle finanziarie in agguato dietro l'angolo del breve periodo, nella principale economia "interdipendente" con quella €uropea: quella americana.
E qui la situazione non è certo rosea, mentre il suono dei tamburi di guerra, commerciale e valutaria, da oltreoceano, si fa sempre più vicino, via via che l'esplosivo delle bolle finanziarie si accumula nella Santa Barbara statunitense.

3. Daniel Lang, nell'articolo sopra linkato, svolgere questa premessa:
"Se si è prestata attenzione al processo di degenerazione dell'economia americana dall'ultima crisi finanziaria, si sarà probabilmente sbalorditi dal fatto che la nostra economia sia riuscita a tirare avanti finora senza implodere...Io stesso mi ritrovo a essere scontertato per ogni anno che trascorre senza che accadano incidenti".
Sviluppata la premessa, Lang delinea poi un quadro di ricognizione "illuminante" che, in realtà, abbiamo qui tratteggiato in modo analogo varie volte, nel corso degli ultimi anni:
"Sfortunatamente, la "fiducia" non può mantenere in corsa per sempre un sistema insostenibile Nulla può riuscirci. E il nostro particolare sistema "trabocca" di bolle nell'economia che non riusciranno a rimanere gonfie ancora a lungo.
Molte recessioni sono connesse con l'esplosione di almeno un tipo di bolla, ma qui abbiamo una molteplicità di settori della nostra economia che possono "fare il botto" più o meno nello stesso momento nel prossimo futuro. Ad esempio:
  • Eric Rosengren, presidente della Federal Reserve Bank di Boston, ha di recente fatto una tacita ammissione stupefacente. Potremmo trovarci nel pieno di un'ulteriore bolla immobiliare. Le più importanti istituzioni finanziarie di questo paese sono in possesso di oltre 14.000 miliardi di prestiti per l'acquisto di immobili residenziali. E ciò significa ben oltre 40.000 dollari per ciascun uomo, donna o bambino in America.
  • I bassi tassi di interesse hanno alimentato una bolla dei subprime sui prestiti delle auto, e questa bolla appare in procinto di raggiungere il suo limite. Ci sono ora oltre un milione di prestiti sulle auto, ordinari e subprime, che risultano inadempienti (delinquent: v. grafico sotto), un numero che non era così altro dal 2009.
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  • Ci sono ora oltre 1000 miliardi di prestiti agli studenti in questo paese; gran parte di essi contratti da famiglie a basso reddito. E c'è poca speranza che questi studenti vedano mai un ritorno al loro investimento. Perciò almeno il 27% degli student loans sono in default. Mentre adesso sono in default più di un quarto degli studenti, tale numero era di un nono dieci anni fa, (alla vigilia dello scoppio della crisi precedente). E se le tendenze attuali proseguiranno, potrebbero essererci 3.300 miliardi di dollari di prestiti per lo studio alla fine del prossimo decennio. Chiaramente, il fenomeno non potrà andare avanti ancora a lungo.
  • E chi potrebbe dimenticare il mercato azionario? Nonostante si sia registrata una bassa crescita del GDP growth per ciascun ano successivo all'ultima recessione,every year since the last recession, il mercato azionario continua a correre verso nuovi record. Molte delle società quotate (specialmente le "tech companies", v. sottostante grafico di comparazione con lo scoppio della bolla "dot-com"), presentano un market cap che è tra le 20 e le 100 volte l'ammontare delle loro vendite o dei loro livelli di profitto. Alcuni denotano rapporti ancora più alti, nonostante registrino una lenta crescita, o persino l'assenza totale di profitti.

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La nostra economia è inondata da cheap money e bolle finanziarie che minacciano di spazzar via decine di migliaia di miliardi di dollari, di risparmi, investimenti e assets.
Ognuno potrebbe chiudere gli occhi e canticchiare mentre spera che tutto andrà per il meglio...
Se ognuno sapesse quanto sia insostenibile la nostra economia, verrebbe tutto giù contemporaneamente. Ma lo si scoprirà in un modo o nell'altro, quando verrà giù tutto comunque. But they’re going to find out one way or another when it comes crashing down anyway. La speranza e la "fiducia" possono solo fare da appoggio temporaneo per un'economia che cavalca le bolle così a lungo."

4. Ora se si rammenta il sistema sociale, prima ancora che economico, degli Stati Uniti, caratterizzato oggi dalla fine della mobilità sociale nonché dalla rappresentatività oligarchica del sistema politico, tutto ciò non può sorprendere.
Più difficile è comprendere qui in €uropa, - dove in verità si comprende ben poco di qualsiasi argomento che non sia la "competitività" ovvero i diritti cosmetici-, come, rispetto a questo genere di problemi, Trump si sta rivelando, com'era del tutto ovvio, una non-risposta: e ciò, sebbene quelle famiglie impoverite, - che non riescono a pagare i ratei dell'auto ed i cui figli devono contrarre un debito per studiare, senza speranza di riuscire a restituirlo per via del mercato del lavoro e della struttura produttiva che ne consegue-, siano state parte fondamentale del malcontento che il voto ha calamitato intorno allo stesso Trump.

5. Ma le crisi ecoomiche interne (politicamente) incancrenite, sono spesso risolte portando la conflittualità sociale interna nella proiezione dei rapporti internazionali. In molti, tra cui Galbraith nella sua "Storia dell'economia", indicano nella seconda guerra mondiale la vera soluzione alla grande depressione che seguì la crisi del 1929, più ancora che il New Deal (qui, p.2).
Per questo è incredibile come una posizione puramente ideologica, sebbene in apparenza propria di un'ideologia diversa rispetto a quella dei primi anni '40, porti degli esponenti politici riconducibili alla sfera di influenza €uro-tedesca, ad assumere posizioni di questo genere:
Brexit, Juncker: "Se Trump non la smette chiedo secessione Ohio e Texas"
6. Al punto da suscitare una puntuale risposta dell'ambasciatore prescelto (peraltro con tanto di opposizione minacciata dall'UE) dall'attuale Amministrazione USA presso l'UE, Ted Malloch: una risposta di un tenore che non ha precedenti, nella sua durezza e nella sua pubblica ostensione, nei rapporti con i paesi europei "occidentali" a partire dalla fine della seconda guerra mondiale!

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Traduciamo perché Malloch utilizza dei concetti che chiariscono con molta esattezza la natura di organizzazione intergovernativa dell'UE (cioè di mera associazione tra Stati, esattamente come ritenuta dagli stessi tedeschi, v.p.3), nonché il circoscritto grado di rappresentatività internazionale che tale organizzazione, a carattere essenzialmente economico, può reclamare nei rapporti con Stati sovrani:
"Le recenti affermazioni di Jean-Claude Juncker, presidente della commissione europea, devono essere decisamente condannate. Al congresso dei popolari europei a Malta, egli ha dichiarato che il supporto del Presidente Trump alla Brexit poteva dare fondamento a un appello alla indipendenza dell'Ohio e al Texas affinché lasciasse gli Stati Uniti.
Supponiamo che abbia parlato scherzosamente, poichè il caso di uno Stato USA non è analogo a quello di un'entità sovrana come il Regno Unito, o il suo stesso nativo Lussemburgo. Il presidente Juncker è indubbiamente consapevole di ciò [nrd; tale assunto appare ironico, dato che Mulloch ha un grado cultura e di conoscenza delle questioni €uropee che gli consente di sapere molto bene che non solo Juncker, ma anche l'intera governance UE, sulla scorta di un peculiare auto-intendimento del diritto europeo creato, al di fuori delle pattuizioni dei trattati, dall'inclinazione "politica" della Corte europea, si esprimono in termini analoghi].
Mentre il Texas e l'Ohio sono stati legati agli Stati Uniti sotto il vincolo della Costituzione, il Regno Unito è uno Stato-nazione indipendente e sovrano, con una membership in un'organizzazione intergovernativa (l'Unione europea) da cui vuole recedere. David Cameron ha scelto di rimettere tale decisione a un referendum, e il risultato è ormai stabilito. E' un "fatto compiuto" [ndr: metodo di affermazione della volontà politica che l'UE dovrebbe conoscere molto bene, sia come fondamento della propria pretesa ad accentrare de facto, (v. qui, p.5), la sovranità, sia rispetto al problema dell'immigrazione]. Non ci sono più sponde pro e anti-brexit, poichè la questione non è più in discussione.
La secessione è un tema estremamente delicato negli Stati Uniti. 620.000 soldati sono caduti su entrambi i fronti, unionista e confederato. La Guerra Civile rimane il conflitto più sanguinoso della storia americana. Mr Juncker non può permettersi di alludere a tale tragedia con questa leggerezza. Dovrebbe saperlo molto bene."
7. Ma non si creda che la posizione di Malloch sia isolata o "estrema" nel suo puntualizzare concetti che si contrappongono alla leggerezza con cui, ormai, in UE, si dà per scontata la prevalenza di una visione ideologico-economica che si crede ancora destinata a dominare il mondo e a umiliare gli Stati nazionali in nome della neo-sovranità dei mercati.
Sul blog US Defense Watch, molto seguito e tenuto da un ex ufficiale dell'Intelligence dell'esercito americano, nonché "veterano della guerra del golfo", nel commentare le affermazioni di Juncker, i toni critici sono ben più diretti e crudi nel definire la realtà economico-politica contemporanea. Ve ne offro alcuni passaggi:
"Juncker, già primo ministro del suo Lussemburgo dal 1995 al 2013, rappresenta il tipo di Euro-jackass ricco e snob che gli Americani detestano. In effetti, le persone come Juncker spiegano il motivo per cui milioni di Europei lasciarono il continente in cerca di una vita migliore potendo liberarsi dai pesanti tentacoli delle dinastie emofiliache della feccia monarchica che voleva controllare la vita dei nostri antenati.
I discendenti di questi malvagi Eurotrash villains del passato sono vivi e prosperano sul continente oggi.
Per persone come Juncker, la donna o l'uomo medio e lavoratore, in Europa e in Nord America, non sono nient'altro che servi della gleba da usare e poi gettare come rifiuti.
La mentalità EU è vecchia come il tempo; brandire il potere come un'arma, controllare le masse, incorporare la ricchezza e distruggere chiunque si frapponga sulla loro strada.
EU-crati corrotti dettano ogni aspetto della vita della persona comune, dal tipo di lampadina utilizzabile, agli asciugacapelli, agli smart phones, alle teiere, fino al desiderato divieto di fare il barbecue.
Per le nazioni minori che hanno osato pronunciare la parola ‘EXIT’, l'UE e Juncker sono ben propensi a emettere avvertimenti sull'uso della forza militare ove necessario.
E ora, Juncker sta minacciando la più grande nazione sulla Terra e il suo Presidente regolarmente eletto...
Mentre una minaccia da un clown come Juncker appare quasi risibile, è ciò che egli rappresenta che risulta tutto tranne che umoristico. Juncker, Merkel, Hollande, Cameron, Blair e il resto del Coro globalista dell'UE combattono per un unico scopo: la prosecuzione, a tutti i costi, delle politiche globaliste che "tosano" il cittadino lavoratore medio, creano instabilità con le open borders e perseguono trattati economici che imbottiscono le tasche dell'elite.


8. Forse, queste dure parole, non rispecchiano ancora il sentire comune dell'intero popolo americano, ma di certo sono una vena, non più "carsica", di quello che le politiche e "l'immagine", offerte ormai da decenni dall'UE, suscitano nella percezione di crescenti componenti delle masse in Occidente.
Ed è un effetto su cui non si può non riflettere: questa considerazione di condanna inappellabile di un'elite spietata e arrogante, di fronte alla totale rigidità mostrata nelle stesse prospettive di riforma dell'eurozona, rischia di dilagare in coincidenza con una possibile crisi recessiva mondiale che, nell'attuale ostinata prospettiva ordoliberista, verrebbe ancora affrontata con l'arma, socialmente devastante, dell'austerità espansiva...

Pubblicato da Quarantotto a 12:53 10 commenti: Link a questo post
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La nuova banconota da 50 euro: cosa cambia (e quanto costa). Tutti i dettagli

Euronews
5 luglio 2016
Presentata la nuova banconota da 50 euro che entrerà in circolazione dal prossimo quattro aprile. Ultima della serie “Europa”, con le sorelle minori da 20, 10 e 5 euro condivide un design che la Banca Centrale Europea definisce come concepito per renderne più difficile la contraffazione.

ECB unveils new €50 banknote ECB unveils new €50 banknote pic.twitter.com/kf6zD2AUqz— ECB (@ecb) 5 luglio 2016

Qui il comunicato della Banca Centrale Europea

Su una delle facce, un ologramma che ritrae il personaggio mitologico della principessa Europa è appare su una trasparenza, inserita in una finestra, integrata nel disegno . Sull’altro la cifra 50 in colori cangianti che a seconda dell’inclinazione spaziano dal verde smeraldo al blu scuro. Sempre su questa faccia, in corrispondenza della finestra trasparente, inclinando la banconota se ne vede apparire la cifra che ne contrassegna il taglio.

Che cosa cambia? La radiografia in un tweet

In questo tweet dell’agenzia di stampa tedesca DPA, una “radiografia” che presenta le novità introdotte sulla nuova banconota da 50 euro.

Ab April 2017 in Umlauf: Die wichtigsten Sicherheitsmerkmale des neues 50-Euro-Scheins via dpa_infografik (dmo) pic.twitter.com/4igWYGMDL8— dpa (dpa) 5 luglio 2016

A sinistra, il ritratto della principessa Europa che appare anche in filigrana.

Appena sotto, sempre a sinistra, la cifra “50” in colori cangianti dal verde smeraldo al blu scuro, con una linea sulle stesse tonalità, che oscilla a seconda dell’inclinazione.

Al centro e sul corpo principale della banconota, la cifra che ne denota il taglio e il disegno sono in leggero rilievo.

Tra le cifre “5” e “0” che ne denotano il taglio appare in filigrana una linea più scura su cui sono stampigliati il simbolo dell’euro e la cifra 50.

Sulla destra, all’interno di una finestra presente nel disegno, una trasparenza visibile dalle due facce. Su una spicca un ologramma della principessa Europa dai contorni cangianti.

Ulteriori ologrammi, sulla stessa colonna, lasciano apparire – all’inclinare della banconota – il simbolo dell’Euro, il valore della banconota e altri motivi.

Su entrambi i lati corti della banconota figura un motivo tratteggiato inclinato in rilievo.

6 cose che potreste non sapere sulla banconota da 50 euro

La più presente nei portafogli.La banconota da 50 euro è la più utilizzata nella zona Euro. 8 miliardi gli esemplari in circolazione.

La più amata dai falsari.La banconota da 50 euro è anche la più contraffatta.

La parte del leone. Da sole, le banconote da 50 euro rappresentano oggi il 45% di quelle in euro in circolazione.

Quanto costa produrla? Il costo di produzione di ogni banconota da 50 euro spazia tra i 6 centesimi e i 10 centesimi.

Assicurata sui danni. Qualora una banconota da 50 euro fosse accidentalmente danneggiata si può chiederne la restituzione. Caso citato dalla stessa Banca Centrale Europea è quello di un agricoltore dei Paesi Bassi, presentatosi allo sportello di una banca, con i resti di una banconota che gli era stata mangiata da una mucca.

Troppo nuova per i bancomat. La messa in circolazione non è immediata, per rispondere all’esigenza di aggiornare tutti gli sportelli bancomat a riconoscere la nuova banconota da 50 euro.

Design, elementi e caratteristiche: dietro le quinte dei nuovi 50 euro

Dalla finestra trasparente da cui si affaccia l’ologramma della principessa Europa alla cifra cangiante che spicca sull’altra faccia: in questo video tutti gli elementi grafici e la composizione della nuova banconota da 50 euro.
 
Circulation of euro banknotes ecb
Denominations
The banknotes in your wallet
Out of the seven euro banknote denominations, low and medium-value notes are mostly used for day-to-day payments. They are usually issued via cash dispensers. People can hold large sums in cash using the high denominations. They serve mainly as a store of value, but are also used to purchase expensive items.

Information on the circulation figures of the seven banknote denominations is available in the statistics section.
 
" h!!p://icebergfinanza.finanza.com/2017/04/06/america-ritorno-alla-realta/ " ..

citazione max : " La responsabilita’ dei media e’ enorme, se guardi RT.com ovvero Russia Today, vedi chiaramente che il bombardamento Siriano ha colpito una base “ribelle” in cui eranno immagazzinati gas chimici, i quali sono fuoriusciti e hanno fatto il danno, ma questo guardacaso e’ omesso dai mainstream, curioso che poi, chi dia una versione dei fatti diversa sia accusato di falso. " ottimo a sapersi , max .. non so se siano più pagliacci i governanti che ricevono gli ordini e li eseguono oppure coloro che quei ordini li danno ..
la nazione amerighia è governata da persone bugiarde da troppo tempo , indipendentemente da chi si intravede ( appare , ma non è ) che comandi o meno ! stanno con le pezze al deretano perchè non hanno saputo dire basta alle loro bugie , alle loro menzogne , alle loro falsità ..

> ci voleva così tanto da parte del governo usa dichiarare esplicitamente a tutti : " care persone popolo del pianeta terra , siamo stati dei caxxoni extragalattici , vi abbiamo mentito praticamente su tutto per farvi nostri schiavi , con guerre seguite da pace e ricostruzione .. abbiamo usato le vostre fatiche per costruire armi di distruzione di massa per governare con dittatura , pugno di ferro nell'autorità del più forte , liberalizzato le armi per la difesa personale dando permesso di uccidere ad altri esseri viventi col pretesto della difesa personale nella viltà più assoluta .. consci che non siamo in grado di governarvi e di governarci nella pienezza della umiltà e nella prosperità per tutti , nella uguaglianza che non ha colore della pelle , sesso o razza .. rassegniamo il comando a chi più umile , competente e capace .. >

peggio della stupidità di persone che comandano male su altre vi è solo la loro ipocrisia ... e il voler continuare a mentire ad ogni costo ..
 
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Dezzani – Blog
Dove finisce la finanza ed inizia il terrorismo

Gas sarin sulla campagna elettorale francese
Scritto il 6 aprile 2017 by Federico Dezzani
Twitter: @FedericoDezzani


La Siria è stata teatro dell’ennesimo atto di guerra psicologica: il 4 aprile l’aviazione di Damasco è stata accusata di aver perpetrato un attacco chimico nella provincia di Idlib, sebbene tutto lasci supporre, proprio come nel caso della strage di Ghouta dell’agosto 2013, la presenza di un’oculata regia “occidentale” dietro l’episodio. C’è da chiedersi perché il nuovo assalto mediatico contro Bashar Assad sia lanciato proprio ora: come le presidenziali americane furono accompagnate dalla grancassa dell’assedio di Aleppo, “la nuova Sarajevo”, così l’episodio di Idlib si collega alle imminenti presidenziali francesi. Lo spettro di una vittoria di Marine Le Pen si materializza man mano che il voto si avvicina e l’attacco di Idlib è l’estremo tentativo di intralciarne l’ingresso all’Eliseo.

Attacco chimico ad Idlib: sì, Marine Le Pen è proiettata verso l’Eliseo
Si avvicina il primo turno delle presidenziali francesi e, considerando gli effetti che la vittoria di Marine Le Pen produrrebbe sui già malconci assetti euro-atlantici, tutto è apparso sinora fin troppo tranquillo: calma piatta sui mercati finanziari, sporadici allarmi terroristici, fiacchi attacchi giudiziari. Decisamente troppo poco, calcolando che la conquista dell’Eliseo da parte del Front National sconquasserebbe definitivamente l’architettura internazionale negli ultimi 70 anni, con il duplice abbandono francese della NATO e dell’Unione Europea. Solo negli ultimi giorni, quando mancano meno di tre settimane al primo ballottaggio del 23 aprile, il registro degli eventi si è adattato alla gravità dell’imminente voto: ci riferiamo all’attacco chimico nella provincia siriana di Idlib.

Collegare la presunta mattanza siriana alle prossime presidenziali francesi può sembrare una forzatura, il frutto di un approccio così olisitico da vedere connessioni tra eventi anche dove in realtà non ci sono. Eppure, attraverso qualche semplice passaggio logico, si può dimostrare non solo che l’episodio di Idlib sia correlato all’imminente voto francese, ma anche come esso corrobori la tesi che la vittoria di Marine Le Pen sia più concreta che mai. Dopotutto, c’è un illustre precedente a quanto sta avvenendo in questi giorni: la campagna elettorale americana dello scorso autunno, dove una candidata filo-establishment, Hillary Clinton), fronteggiò uno sfidante “filo-russo” (Donald Trump), sullo sfondo dell’assedio di Aleppo, definita dai media come“la nuova Sarajevo”. L’equivalente della Clinton è il candidato centrista Emmanuel Macron, Marine Le Pen corrisponde al “populista” Trump, e la strage di Idlib è la versione aggiornata dei fatti di Aleppo.

Partiamo dalla situazione politica in Francia, dove media, sondaggisti ed opinionisti ripetono il mantra di una vittoria di Emmanuel Macron al ballottaggio con la stessa ossessività con cui sostenevano che Hillary Clinton avrebbe conquistato la Casa Bianca (“Clinton has 90 percent chance of winning: Reuters/Ipsos States of the Nation” scriveva la Reuters l’8 novembre 20161): il timore che aleggia nella stanza dei bottoni è che la candidata del Front National, già data vincente al primo turno da alcuni sondaggisti, riesca nell’impresa che suo padre, Jean-Marine Le Pen, fallì nel 2002, sbaragliando il concorrente al ballottaggio e conquistando l’Eliseo. La forza di Marine Le Pen consiste nella sua carica anti-establishment, che l’ha portata su posizioni agli antipodi rispetto all’oligarchia euro-atlantica. Due, in particolare, sono le iniziative che ci interessa sottolineare ai fini della nostra analisi: il 20 febbraio scorso, durante una visita ufficiale in Libano, la candidata del Front National si è espressa a favore del presidente Bashar Assad (“la seule solution viable et une solution bien plus rassurante pour la France que l’État islamique”2) ed il 24 marzo è volata a Mosca per un amichevole incontro con Vladimir Putin, cui ha ribadito la volontà, se eletta, di ristabilire prontamente le relazioni franco-russe3.

La politica estera di Marine Le Pen è quindi chiara e ben delineata: sui dossier internazionali più bollenti, i rapporti Russia-Occidente e la crisi siriana, “la populista” francese è fortemente sbilanciata verso il Cremlino e verso Damasco, in aperta opposizione alla retorica dominante dei media e dei governi occidentali. È possibile, per chi volesse bloccarne ad ogni costo l’ingresso all’Elisio, studiare un’offensiva ad hoc sulla base di questi orientamenti. Come? Inscenando l’ennesima crisi internazionale che dipinga Bashar Assad come un macellaio del suo popolo e Vladimir Putin come il cinico e spregiudicato difensore del dittatore siriano. Entra quindi in campo l’attacco chimico di Idlib del 4 aprile: l’ennesimo episodio di guerra psicologica che ha accompagnato la destabilizzazione della Siria, giocato però più in chiave “francese” che “mediorientale”.

La cronaca degli eventi è nota: il 4 aprile, le agenzie di stampa sono inondante delle ultime atrocità commesse dal regime siriano contro la popolazione civile. Nella provincia di Idlib, non distante dal confine con la Turchia ed ancora controllata dai ribelli, l’aviazione di Damasco avrebbe bombardato con “gas tossici” i centri urbani in mano agli insorti, compresi alcuni ospedali. Centinaia di civili presentano i tipici sintomi di intossicazione da agenti nervini ed il bilancio dei morti sale rapidamente fino a contare 86 vittime, di cui una trentina di bambini. Nel volgere di poche ore i giornali sono subissati di scioccanti immagini dell’ennesima strage di innocenti: salme avvolte nei teli, bimbi ricoverati, soccorritori impegnati nella decontaminazione.

Preparato adeguatamente il terreno mediatico, può iniziare l’affondo politico-diplomatico: Unione Europea ed Onu partono lancia in resta contro Bashar Assad, ma sono soprattutto Regno Unito e Francia a guidare l’offensiva. Ai fini della nostra analisi è importante evidenziare il ruolo dell’Eliseo e del governo francese: è il ministro degli Esteri Jean-Marc Ayrault che imputa “senza alcun dubbio” la strage al regime siriano4, è Parigi a chiedere un’immediata riunione di emergenza del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, è il presidente François Hollande ad attaccare duramente Bashar Assad ed i suoi alleati, cui va addossata una “responsabilité politique, stratégique et morale5”. In difesa di Damasco interviene ovviamente la Russia che, decisa ancora una volta a bloccare qualsiasi risoluzione ostile al Consiglio di sicurezza dell’ONU, parla di vere e proprie “fake news” scientemente alimentate attorno alla presunta strage.

Sulla matrice “occidentale” della presunta strage e sulla sua fabbricazione a tavolino, ci sono pochi dubbi. L’attacco chimico di Idlib è identico, in termini di immagini, narrazione e battage mediatico di accompagnamento, all’analogo episodio di Ghouta dell’estate 2013: già allora emerse con chiarezza la responsabilità di quelle potenze regionali6 (Turchia, Arabia Saudita ed Israele) interessate a trascinare gli USA in una campagna di bombardamenti aerei contro l’esercito arabo siriano. Parallelamente, fu subito evidente l’assurdità di un simile gesto se perpetrato da Damasco: oggi come allora, le forze armate siriane non hanno alcun interesse nel cimentarsi in azioni suicide, specie dopo i successi militari degli ultimi 18 mesi. Ma sono soprattutto gli attori coinvolti nell’operazione ad imprimere l’inconfondibile sigillo “atlantico” sui fatti di Idlib: tutto il materiale prodotto sulla presunta strage di Idlib è confezionato dai “White Helmets”, un’organizzazione non governativa adibita alla “difesa civile” nelle zone liberate “dal regime” e finanziata da “the governments of the UK, Holland, Denmark, Germany, Japan, and the USA7”.

Come nell’agosto di quattro anni, la mattanza a base di gas sarin è prontamente sfruttata da quelle potenze che dal 2011 lavorano per la caduta di Bashar Assad: “tutte le prove che ho visto suggeriscono che è stato il regime di Assad, nella piena consapevolezza di usare armi illegali in un attacco barbaro contro il suo stesso popolo” afferma il ministro degli Eteri inglese Boris Johnson; “più di 100 persone sono state uccise e tra queste 50 bambini, Assad assassino, come farai a sfuggire alle loro maledizioni?” incalza il presidente turco Recep Erdogan; “the murderous chemical weapons attacks on citizens in Idlib province in Syria and on a local hospital were carried out on the direct order and planned by the Syrian president, Bashar Assad, using Syrian planes” ribadisce il ministro della Difesa israeliano, Avigdor Liberman. Ma non c’è dubbio l’arma chimica di Idlib sia indirizzata soprattutto alla campagna elettorale francese.

Comment les prétendants à l’Élysée comptent-ils gérer le dossier syrien?” si domanda le Figaro il 6 aprile, stigmatizzando le posizioni filo-Assad e filo-russe di Marine Le Pen8. “Attaque chimique en Syrie : les réactions des candidats à la présidentielle” scrive Le Monde, ricordando che per Marine Le Pen “le seul rempart contre Daech, c’est Bachar Al-Assad”, mentre secondo il centrista Emmanuel Macron, “Assad devra répondre de ses crimes devant des tribunaux internationaux”9: la populista parteggia per il dittatore che gasa i bambini, al contrario del candidato della banca Rothschild che vorrebbe trascinarlo in un tribunale internazionale. Il mondo politico non è da meno e coglie al balzo l’attacco chimico siriano per portare all’attenzione dell’opinione pubblica le impresentabili frequentazioni di certi candidati all’Eliseo:



L’attacco chimico di Idlib inaugura quindi l’ultima fase della campagna elettorale francese: si tratta di un voto capace di stravolgere gli assetti consolidatisi negli ultimi ‘70 anni se Marine Le Pen emergesse come vincitrice. In vista del ballottaggio del 7 maggio, l’affare siriano è destinato ad ingrossarsi.
 
Trump bombarda la Siria: neanche 100 giorni per essere fagocitato dal sistema
Scritto il 7 aprile 2017 by Federico Dezzani
Twitter: @FedericoDezzani


Nella notte tra il 6 ed il 7 aprile è finita l’effimera parabola del presidente “populista” Donald Trump, fagocitato dallo stesso establishment che diceva di voler combattere: con 59 missili da crociera lanciati su una base aerea siriana, il neo-inquilino della Casa Bianca ha punito “il regime di Assad” per l’attacco chimico di Idlib dello scorso 4 aprile, un’evidente orchestrazione ad hoc. È superficiale affermare che Trump sia succube di Israele o degli alleati sunniti: il raid sulla Siria è una vera e propria resa all’establishment atlantico, ossessionato dal rinnovato attivismo di Mosca in Europa e Medio Oriente. Gli attacchi interni e le faide contro l’amministrazione Trump cesseranno, ma con essi muore anche la distensione con Mosca e le vaghe promesse di neo-isolazionismo. Le elezioni francesi si svolgeranno in un clima di fibrillazione internazionale ed il loro valore aumenta ancora.

L’establishment ha già riconquistato la Casa Bianca
La lotta tra il “populista” Donald Trump e l’establishment atlantico, liberal e finanziario, quello che poggia sull’asse City-Wall Street, non è durata neppure tre mesi: il 20 gennaio scorso il neo-presidente si è insediato alla Casa Bianca e dopo solo dieci settimane, appestate dalla diffusione di dossier, agguati al Congresso, insinuazioni sui suoi rapporti con la Russia, colpi bassi dei servizi segreti, Trump ha infine capitolato.

Tra un combattimento all’arma bianca e la resa, l’immobiliarista di New York ha scelto la seconda strada, chinando il capo ed adeguandosi alle direttive dell’oligarchia. Il gesto di riconciliazione con l’élite atlantica è coinciso col bombardamento della base aerea siriana di Shayrat nella notte tra il 6 ed il 7 aprile, motivato dal precedente attacco chimico su Idlib che gli angloamericani avevano orchestrato ad hoc: 59 missili Tomahawk con cui il neo-presidente ha cestinato la campagna elettorale, le sue promesse di distensione con la Russia ed il vagheggiato neo-isolazionismo, per ricevere il battesimo dell’establishment. Ora Trump è parte integrante del sistema: gli attacchi della stampa cesseranno, il partito repubblicano si acquieterà, la CIA smetterà di produrre scomodi dossier ed il Dipartimento di Stato si allineerà allo Studio ovale.

Poche mosse in rapida successione sono state sufficienti per piegare un presidente che aveva suscitato grandi speranza negli Stati Uniti e all’estero per la sua carica anti-sistema, ma all’atto pratico ha dimostrato di non possedere né la fibra, né l’esperienza, né la forza politica, per imporre la sua linea e liberare la nazione americana dall’élite mondialista. Il 24 marzo l’ammutinamento del partito repubblicano impedisce l’abolizione dell’Obamacare; il 31 marzo l’ex consigliere per la sicurezza nazionale Michael Flynn si dice pronto a testimoniare davanti alla commissione del Congresso che indaga sul “Russiangate” in cambio dell’immunità; il 4 aprile si consuma nella provincia di Idlib l’attacco chimico imputato al regime di Assad e realizzato dai “White Helmets” finanziati dagli angloamericani. La strage siriana è il test decisivo per Trump: o si piega alla volontà dell’establishment o sarà estromesso. Trump getta la spugna: il 5 aprile, Stephen Bannon, l’anima “populista” della campagna elettorale, è allontanato dal Consiglio per la Sicurezza nazionale per la gioia del Pentagono. Il 6 aprile la Casa Bianca ribalta di 180 gradi la strategia sinora seguita sulla Siria: il Segretario di Stato Rex Tillerson sostiene che Bashar Assad deve essere rimosso e nelle prime ore del 7 aprile, è sferrato il blitz sulla base aerea di Shayrat, da dove sarebbe partiti i fantomatici caccia per gasare Idlib.

Sebbene Mosca disponga di mezzi idonei a neutralizzare l’attacco (i sistemi S-300 e S-400), non si registra nessuna reazione da parte russa: il portavoce del Cremlino, Dmitri Peskov, dirà che il personale della base è stato evacuato dopo l’avviso americano dell’imminente raid.

È da notare la tempistica dell’attacco: poche ore prima che il presidente Trump incontri in Florida il leader cinese Xi Jinping e a distanza di pochi giorni dalla visita del Segretario di Stato Tillerson in Russia, l’11 e 12 aprile1. Il blitz statunitense è un monito che la “nuova” Casa Bianca, quella del rinato Donald Trump, lancia al resto del mondo: nessun isolazionismo, nessuna distensione, nessuna divisione del mondo in sfere d’influenza. L’impero angloamericano è vivo ed è pronto alla guerra per difendere la sua egemonia mondiale: esattamente l’opposto di quanto aveva promesso Trump in campagna elettorale, delineando uno scenario di progressivo ritiro degli USA. Smantellamento della NATO, ritiro dal Giappone, fine delle interferenze in Medio Oriente, etc. etc.

C’è chi dice che il bombardando dell’installazione militare siriana sia la prova della dipendenza di Trump dal Likud e dal premier israeliano Benjamin Netanyahu; altri dicono che, oltre a Tel Aviv, il presidente americano abbia voluto rinsaldare i legami con le potenze sunnite regionali, Turchia ed Arabia Saudita in testa. Non sono affermazione errate, ma parziali: quelli israeliani, turchi e sauditi sono pur sempre piccolo o medi nazionalismi.

L’azione di Trump deve essere letta considerando cosa è oggi il Medio Oriente: una grande scacchiera dove il declinante impero angloamericano si confronta con la rinnovata potenza mondiale russa. L’intervento in Siria è prima di tutto una vittoria dell’establishment atlantico, atterrito dai progetti neo-isolazionisti del primo Trump: Washington e Londra sono ancora in Medio Oriente e sono pronte a “contenere” la Russia in qualsiasi quadrante. Nessun Levante in mano ai russi, nessun smantellamento della NATO, nessun attacco al suo corrispettivo politico, l’Unione Europea: è questo il nuovo corso del Donald Trump “normalizzato”.

Sono sintomatici, a questo proposito, gli editoriali della stampa liberal, la stessa che fino al 5 aprile braccava Trump con le accuse di connivenza con Mosca: ora che il presidente si è piegato alla linea “russofobica”, ora che è disposto a combattere l’esuberanza russa in Medio Oriente, ora che la distensione, mai decollata, è morta del tutto, è un fiorire di elogi e ripensamenti.

Striking at Assad Carries Opportunities, and Risks, for Trump2 scrive il New York Times, asserendo che il blitz militare è un’occasione per “raddrizzare” la sua amministrazione allo sbando, riaffermando l’autorità americana nei confronti di Mosca. “A president who launches missiles into Syria is a president these GOP Trump skeptics can get behind” titola il Washington Post, assicurando che le fratture dentro il partito repubblicano si riassorbiranno presto, ora che Trump si è adagiato alla linea dei vari neocon. “Trump Shows He Is Willing to Act Forcefully, Quickly” gioisce il Wall Street Journal, cantando le lodi del marziale Trump, vero “commander in chief”.

“La chance di Trump e la credibilità persa da Obama” è il significativo articolo di Richard Haas, presidente del Council on Foreign Relations, il tempio statunitense dell’oligarchia atlantica. Afferma l’autore3:

È raro che la storia offra una seconda possibilità (dopo il mancato bombardamento di Obama dell’agosto 2013, Ndr), ma gli Stati Uniti e gli altri Paesi si trovano precisamente in questa situazione. (…) Un’opzione è attaccare le posizioni siriane, soprattutto i campi d’aviazione e gli aerei associati con le armi chimiche. (…). Un’azione militare russa, tuttavia, non è da considerarsi scontata. Il presidente Vladimir Putin potrebbe esitare prima di rischiare e adottare un atteggiamento di sfida, considerando le difficoltà economiche e il riaccendersi delle proteste politiche in patria. (…) Un altro approccio sarebbe quello di fornire attrezzature di difesa antiaerea ai curdi siriani e a gruppi sunniti dell’opposizione ben selezionati. (…). Vale la pena sottolineare che nei prossimi mesi bisognerà fare di più per rafforzare i sunniti locali, che devono poter garantire la sicurezza in quelle aree della Siria che devono essere liberate dai gruppi terroristi. (…). Trump ha l’opportunità di marcare le distanze rispetto al suo predecessore e dimostrare che c’è un nuovo sceriffo in città; Theresa May, la premier britannica, ha un’opportunità analoga. È raro che la storia offra una seconda possibilità: stavolta non va sprecata.”

Ecco qual è la missione del nuovo Trump “addomesticato”: portare a compimento il piano di balcanizzazione del Medio Oriente iniziato nel 2014 con l’improvviso scatenarsi dello Stato Islamico, ritagliando tra Siria ed Iraq un “Sunnistan” ed un Kurdistan, due nuove entità legate agli angloamericani ed agli israeliani. È superfluo dire che tale strategia è inconciliabile con la difesa dell’integrità nazionale degli Stati sostenuto da Mosca ed appoggiata da Teheran.

Lo stesso bombardamento aereo del 6 aprile si inserisce in questa logica di balcanizzazione della regione: nessun jet siriano è partito dalla base siriana di Shayrat per “gasare” i ribelli, ma l’installazione, situata nella provincia di Homs e aperta ai russi nel dicembre 2015, è di strategica importanza per contenere l’ISIS nell’est e nel sud della Siria, le stesse zone in cui dovrebbe nascere il Califfato islamico protetto dagli angloamericani. Non è certamente casuale che i miliziani islamisti abbiamo prontamente sfruttato il blitz aereo di Trump per riprendere l’iniziativa contro le postazioni dell’Esercito Arabo Siriano4.

Gli effetti di una Casa Bianca “rimessa in riga”, superano però i confini del Medio Oriente ed hanno profonde ripercussioni anche nell’Unione Europea, dove, dopo l’elezione di Trump, i movimenti populistici avevano potuto contare sulla sponda americana e su quella russa.

Il voltafaccia di Trump priva i nazionalisti europei del supporto statunitense, in coincidenza per di più di un appuntamento elettorale decisivo per le sorti della UE/NATO: le imminenti elezioni presidenziali francesi. Anziché avvalersi di una cooperazione tra Putin e Trump in chiave anti-Bruxelles, la candidata del Front National affronterà le elezioni in un clima di tensione internazionale e forte polarizzazione, utile ai suoi detrattori per dipingerla come la “quinta colonna”di Putin in Francia.

Constata la conversione di Trump ed il deterioramento sempre più preoccupante della situazione internazionale, la vittoria di Marine Le Pen riveste un ruolo ancora più importante: solo svincolandosi da Bruxelles, che è sinonimo di Unione Europea ma anche di NATO, sarà possibile per i Paesi europei evitare di essere trascinati nel conflitto tra angloamericani e potenze euroasiatiche che si va delineando all’orizzonte, giorno dopo giorno. Poco importa se a iniziarlo sarà Trump o qualsiasi altro burattino dell’establishment atlantico
 
".

Pubblicato da Quarantotto a 10:40 Nessun commento: Link a questo post
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mercoledì 5 aprile 2017
L'"INVINCIBILE" POST-ELEZIONI E LA PROCEDURA DI INFRAZIONE PER DEBITO ECCESSIVO [/paste:font]


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1. Ad oggi, (come si suol dire), la situazione delle possibili politiche economiche e fiscali adempitive degli obblighi imposti dall'appartenenza all'unione monetaria, è soggetta a questi problemi politici interni:
"Più che su quel che andrà fatto, la discussione si è concentrata su quel che non si può fare: no all'aumento dell'Iva, nessun ritocco alle accise sulla benzina, altolà alla riforma del Catasto, dubbi sulle privatizzazioni.
«Il sentiero stretto» di cui parla spesso il ministro del Tesoro ormai è un pertugio. Da un lato ci sono gli impegni con l' Europa e l' inizio della fine del piano Draghi, dall'altra una maggioranza parlamentare con la testa alle amministrative di giugno e alle successive elezioni politiche....il nodo resta un altro: quale sia la legge di Bilancio possibile senza condannare il Pd alla sconfitta elettorale. I toni di Renzi in televisione sono da campagna elettorale: «Bisogna continuare senza polemica sull' abbattimento delle tasse: se vanno giù l' economia cresce. Noi le risorse le abbiamo trovate con la flessibilità. Penso si possa continuare e Padoan è d' accordo».
...[Padoan] accenna ad una trattativa in due tempi per ottenere più flessibilità, spiega che gran parte delle entrate della manovrina verranno da un aumento della lotta all'evasione, fra cui la rottamazione delle cartelle esattoriali e da tagli alla spesa. Sottolinea che non si va in ginocchio a Bruxelles, ma che «c' è modo e modo» di procedere. Spiega che Def e manovrina di correzione sono una cosa sola, e quest' ultima sarà approvata subito dopo il Def, il 10 aprile".

2. Dunque. Problema numero 1:
- "quale sia la legge di Bilancio possibile senza condannare il Pd alla sconfitta elettorale".
Problema numero 2:
- essendo il Def inscindibile dalla correzione strutturale di bilancio dello 0,2% del PIL e, a loro volta, entrambi inscindibili dalla manovra di stabilità di autunno (le varie voci e dinamiche fiscali sono infatti commisurate in un quadro che la Commissione considera unitariamente nel programma che ritaglia su misura per l'Italia), trovare altra flessibilità, come già nei due anni precedenti.

3. Ebbene, se si legge la lunga Relazione, in data 22 febbraio 2017, della Commissione UE, elaborata a norma dell'art.126, par. 3 del TFUE, - cioè in vista della già attualizzata fase di predecisione e verifica di avvio di procedura di infrazione a carico dell'Italia per "violazione della regola del debito"-, entrambi i problemi, permanendo la nostra appartenenza all'eurozona, sono irrisolvibili; e questo nel senso che già ora, e questo Padoan lo sa bene, la Commissione non solo esclude la possibilità di ricorrere ad ulteriori margini di flessibilità rispetto a quella riconosciuta con l'ultima legge di stabilità, ma ritiene inderogabile un obbligo italiano di "recuperare" gli scostamenti dai livelli di consolidamento fiscale già imposti all'Italia, e da essa non rispettati; scostamenti che si sono verificati, in misura ritenuta rilevante, anche scontando la misura già concessa di flessibilità per gli anni 2015 e 2016.
La Relazione muove da questa perentoria premessa, che trovate alle pagine 2-4 della Relazione e che può sintetizzarsi in ciò: considerati tutti i "fattori rilevanti", l'Italia ha violato la regola del debito (cioè di riduzione progressiva del debito publbico), non avendo rispettato quella del deficit nella misura di riduzione impostale in funzione della riduzione del debito stesso.

4. Saltando la dettagliata analisi dei vari indicatori (tra cui si ammette il peso della bassa inflazione e della scarsa ripresa dell'occupazione nonché degli investimenti pubblici, effettuati in misura minore rispetto a quanto dichiarato per richiedere la relativa flessibilità), e sapendo che l'aggiustamento strutturale annuale che risulta "dovuto" è di 0,75 punti di PIL, attenuato a 0,6 in ragione delle condizioni congiunturali e "eccezionali", variamente considerate, nonchè del connesso output gap, la Commissione arriva a delle precise conclusioni (che riposano sul concetto che quando il debito è ben oltre i limiti il "rientro" si deve fare riducendo l'indebitamento annuo...nonostante gli "alti moltiplicatori" di cui, curiosamente, la Relazione dà atto, cadendo in evidente contraddizione): si attenderà il Def 2017 e la correlata manovra di correzione per 0,2 punti di PIL, da compiere mediante misure strutturali (e non una tantum), per attualizzare una procedura di infrazione per la violazione della regola del debito che, tuttavia, già oggi risulta legittimamente avviabile in base ai riscontri e alle proiezioni effettuate dalla stessa Commissione.

5. Se si ha la pazienza di leggersi l'intera Relazione, ne emerge chiaramente che la Commissione non considera, neppure per un secondo, l'ipotesi che è proprio perché, unitamente alla flessibilità, non sono stati rispettate le percentuali (di PIL) di "aggiustamento strutturale minimo lineare", volute dall'€uropa, che le condizioni macroeconomiche sfavorevoli" italiane sono ora in "graduale miglioramento".
Leggendo la Relazione, infatti, i miglioramenti non sono attribuiti a misure fiscali meno restrittive del previsto, ma al compimento delle immancabili riforme strutturali, in particolare quella del lavoro.
Per la Commissione, il miglioramento e la crescita si otterrano se verrà riformata la pubblica amministrazione e la giustizia "civile e commerciale", fermo restando che l'aggiustamento deve essere pari o superiore a 0,6 punti di PIL, e realizzato per via di politiche fiscali di riduzione strutturale dell'indebitamento (cioè non dovuto a misure contingenti e una tantum), in specie con il taglio della spesa pubblica (di cui però, sempre la Relazione, dà atto che essa, specie in materia pensionistica, sia "subdued", cioè, a seguito della decrescita delle retribuzioni e quindi delle prestazioni, sostanzialmente sotto controllo e sostenibile).

6. Dalla Relazione, poi, risulta evidente che le spese per fronteggiare gli eventi sismici, sono alla base della correzione dello 0,2 da apportare entro aprile e che, dunque, ogni intervento in tal senso, deve essere finanziato in pareggio di bilancio. E quindi: se si spende per i terremotati, si deve tagliare la spesa per altre esigenze pubbliche, quali che esse siano, pubblica istruzione o sanità, ordine pubblico o previdenza (anche se si ammette che, essendo quest'ultima, "sostenibile e sotto controllo", una sua ulteriore riduzione avrebbe solo fini di finanziamento in pareggio di bilancio). Il passaggio risulta molto chiaro nella Relazione, a pag.27.

6.1. Dunque, i problemi che si pongono a livello politico in Italia, e precisati più sopra, sono irrisolvibili nel quadro delle regole €uropee, di cui ci si imputa già la pregressa violazione.
Certo, poi, se fossero recuperate le mancate "correzioni" e "aggiustamenti" per gli anni 2015, 2016 e, come ormai preannuncia la stessa Relazione, anche per il 2017, per un aggiustamento totale di 3,4 punti di PIL, (a quanto pare di capire), tra maggior imposizione - la Commissione non vede di buon occhio nè il rinvio dell'aumento dell'IVA, né la rinunzia all'immediato inasprimento dell'imposizione patrimoniale via rivalutazione delle rendite catastali- e più "incisivi" tagli della spesa (alla Commissione ci dovrebbero spiegare come si fa a rendere più efficiente la giustizia civile e la p.a. tagliando ancora più intensamente la relativa spesa!), l'Italia rientrerebbe in recessione.
E questo anche per l'attesa diminuzione del saldo positivo delle partite correnti nei prossimi due anni, secondo le stime quantificate dalla stessa Commissione (che pare tener conto della fine dell'effetto svalutativo dell'euro legato al QE e della ripresa dei prezzi petroliferi). Vedere infatti i dati relativi al saldo delle partite correnti previsti dalla stessa Commissione per il 2017 e il 2018 (pag.83, tabella II.12.1: dal saldo di 2,7 punti di PIL del 2016, si avrebbe una discesa per gli anni 2017 e 2018, rispettivamente, ad un saldo, di 2,1 e 1,8).

7. E se l'Italia entrasse di nuovo in recessione, e sempre per via di austerità espansiva €uropea, e non certo per mancate riforme strutturali, forse, poi, sarebbe concessa, con plateale contraddizione che travalica in ottusa cecità, una "nuova" maggior elasticità sulla misura dell'aggiustamento fiscale, appunto (nuovamente) in ragione delle condizioni estremamente sfavorevoli dell'economia...causate invariabilmente dall'applicazione delle politiche fiscali imposte dalla Commissione!
Dunque, di fronte al preannunzio della procedura di infrazione, che si rivelerebbe particolarmente insidiosa per i prezzi di collocamento del nostro debito pubblico in vista del tapering e della fine del QE della BCE, la costrizione che ne discende al pronto adeguamento, ("fate presto!"), ai vincoli relativi alla riduzione del parametro del debito pubblico, dovrebbe condurre a manovre di stabilità, per il 2018 e per il 2019, “lacrime e sangue” insieme con massicce privatizzazioni: e queste misure sarebbero presumibilmente adottabili solo da un governo tecnico. Cioè da un centro decisionale esecutivo dei desiderata €uropei che non si debba preoccupare del consenso elettorale: questa, dunque, in chiave di appartenenza all'eurozona, risulta essere l'unica soluzione praticabile in termini di consenso.

8. Certo, poi, potrebbe vincere le elezioni una forza politica che si porrebbe come prioritario non tanto il (solo) concedere il "reddito di cittadinanza" quanto, piuttosto, il come finanziarlo.
Ma il fatto è che anche questa forza politica dovrebbe riconoscere come funziona il finanziamento di qualsiasi forma di spesa in "pareggio di bilancio": ai tagli imponenti dei restanti diritti di prestazione sociale (sanitaria, educativa e pensionistica, su tutte) necessari, come nel caso dei terremotati, a coprire le spese del reddito di cittadinanza, si dovrebbe comunque e immancabilmente aggiungere - ripetiamo aggiungere- l'onere della correzione già preannunciata, sotto minaccia molto attuale di procedura di infrazione, dalla Commissione. E quest'ultima correzione già da sola, abbiamo visto, basterebbe a far saltare il consenso a qualsiasi maggioranza di governo (e Renzi è quello che, attualmente, lo ha meglio compreso).
Anche perché un unico e "sfrenato" processo di accelerazione delle privatizzazioni per abbattere in un colpo solo il debito pubblico, dalle partecipazioni pubbliche alle società di servizio pubblico locali, avrebbe come effetto una svendita dai più che incerti risultati sulla convenienza dei prezzi e la certezza di aumenti tariffari e contrazione dell'occupazione secondo il più classico copione dell'arrivo degli "investitori esteri", immancabili acquirenti delle "aste al ribasso" (in cui gli advisor finanziari privati sono gli unici che incassano lauti compensi a carico pubblico).
Decisamente, nessuno, ma proprio nessuno, può vincere il dopo-elezioni. Rimanendo dentro l'eurozona, almeno...
 
aprile 9, 2017 posted by Mitt Dolcino
Ex Governatore UK: è questione politica, restando nell’Euro bisogna accettare un decennio di bassa crescita ed alta disoccupazione, forse in eterno

http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/04/09/brexit-ex-governatore-della-banca-dinghilterra-king-londra-sia-pronta-a-uscire-dallue-anche-senza-accordo/3508874/

Non preoccupatevi se questo articolo non lo troverete in rete. O meglio, se lo troverete solo nella versione cartacea del Il Fatto Quotidiano, o dietro sottoscrizione di un abbonamento.

In breve, posso solo confidarvi che i concetti di Mervyn King possono essere condensati nel titolo, la mia di fatto è una citazione tratta dall’interessante intervista di Stefano Feltri (citazione riferita ai periferici in generale ed all’Italia in particolare). Andrebbe aggiuto un secondo concetto chiave emerso nell’articolo, ossia che oggi la BCE ed il mercato non stanno finanziando l’Italia che infatti non riparte (aggiungo io, anche a causa della nefasta austerità che nessuno in Italia vuole combattere, tutti cooptati eh?, ndr) ma la Germania! Ossia Berlino con i tassi negativi ed un euro molto più sottovalutato di quello che sarebbe il marco scoppia di salute e di surplus, viceversa – o anche alle spalle de – i periferici si schiantano. [Sottolineo “in eterno”]

La conclusione di King è che la Germania nel lungo termine ha una posizione insostenibile, ossia si accorgerà prima o poi che non riuscirà a far ripagare i debiti ai periferici.

Lascio perdere la citazione di Mervyn King secondo cui uscendo dall’euro si avrebbero un paio d’anni di turbolenza ma poi le cose si metterebbero in carreggiata e si inizierebbe a crescere, più o meno le cose che diciamo anche noi da anni.

Sottoscrivo quanto emerso nell’intervista, tutto vero.

Due considerazione ed una conclusione.

La prima considerazione è che nel lungo termine, come dice King – e come disse Keynes – , saremo tutti morti, citazione quanto mai azzeccata per quanto aspetta il Belpaese. La seconda è che forse agli economisti sfugge come la recente svolta militaresca tedesca punti proprio ad evitare che i debiti non vengano ripagati in futuro, anche minacciando, come Berlino ha sempre fatto in passato. Ossia, se vorrà mantenere il proprio benessere la Germania dovrà – e ripeto il verbo, dovrà – imporre il pagamento del debito ai periferici ed in ogni caso “nel mentre” dovrà attingere alle risorse dei paesi indebitati tra cui principalmente l’Italia, la gallina grassa. Traduco l’essenza del verbo “attingere”: impossessarsi degli attivi nazionali altrui, che sono le aziende statali forti da privatizzare, le aziende private da indebolire e comprare per un tozzo di pane, il risparmio famigliare italico da prosciugare tramite tasse folli al limite della confisca e gli immobili in Italia, soprattutto quelli di pregio. Se ci pensate bene sta già accadendo…

Tutto già visto in passato, almeno un paio di volte negli ultimi 110 anni.

La conclusione è semplice: l’assurdità di tutto questo, dopo aver letto lo splendido articolo di Stefano Feltri, è che si faccia sì una gran bella intervista ma poi non si discuta su quello che è emerso dal validissimo contributo di un soggetto che ben conosce la dinamica delle cose che accadono e soprattutto accadranno. Meglio focalizzarsi su Igor il Russo, che uccise già in passato e nessuno ne parlò o quasi, oggi invece che il nemico è la Russia – appunto Igor(s) perchè Russo(i) – è in prima pagina….. Ah, a pensare male!

L’Italia è finità, credete a me. I politici dovranno poi spiegarvi fra qualche anno perchè non hanno fatto nulla per evitarlo, anche perchè di prove che sapevano e sanno perfettamente cosa sta succedendo ce ne sono a bizzeffe. Per inciso, avendo sentore di quanto succederà, non mi stupirei se fra qualche anno qualcuno verrà appeso per i i piedi.

In bocca al lupo

MD
 

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