Per cortesia ripristinate il 3d di mototopo

assoni, tutti. O forse no: si tratta di paramassoni, ma in fondo ormai «è solo questione di termini», ammette Carpeoro, che – massone lui stesso, già gran maestro dell’“obbedienza” di Palazzo Vitelleschi, poi dimissionario dopo aver disciolto la sua stessa loggia – accusa la massoneria di aver “perso l’anima”, riducendosi a mera struttura di potere. Nel suo libro accenna alle antiche ascendenze della libera muratoria (bibliche, egizie) come cemento culturale delle primissime corporazioni di arti e mestieri, quelle dei costruttori di cattedrali, gelosi custodi dei loro “segreti professionali”, basati sulla sacralizzazione del lavoro al servizio della bellezza. Poi, con la fine dei grandi edifici sacri, la nascita della massoneria “speculativa”, tra ortodossia metodologica e devianze, sbandamenti, infiltrazioni. Pietra miliare, il 1717: brucia Londra, ma l’architetto Chistopher Wren, leader della massoneria inglese, incaricato di riedificare la città, rifiuta di ricostruire il Tempio. «Il 1717 è considerato l’anno di nascita della massoneria moderna, ma in realtà segna l’inizio della fine della vera massoneria», network necessariamente cosmopolita che, come tale, faceva gola al potere: gli ex costruttori di cattedrali erano un’élite della conoscenza ben radicata in tutta Europa.

Più che gli Illuminati di Baviera, il gruppo visionario creato sempre nel ‘700 da Jean Adam Weischaupt (nuovo ordine mondiale da costruire radendo al suolo il sistema, cominciando dall’abolizione della proprietà privata), secondo l’indagine di Carpeoro la malapianta della “sovragestione” che sta stritolando il pianeta va ricercata, in radice, nel pensiero oligarchico di personalità più recenti e magari sconosciute ai più, come Joseph Alexandre Saint-Yves, marchese d’Alveydre, un medico francese di fine ‘800 che compare tra le figure di maggior rilievo dell’esoterismo del XIX secolo. Al sorgere del socialismo (e dell’anarchia), Saint-Yves contrappose la “sinarchia”: un modello di governo pre-ordinato, basato su schemi universali, con «ruoli e funzioni sociali secondo un ordine di strati e condizioni rigide, in una concezione piramidale della società». Il tutto, «legittimato da una mistica teocratica tipica delle società più antiche», Egitto e Persia, India. «Significa che alcuni sono naturalmente destinati a comandare». In altre parole, l’esoterista Saint-Yves (fervente cattolico, in strettissimi rapporti col Vaticano) «auspicava il governo di un’élite predestinata e piuttosto aristocratica».

Pochissimi sanno “quel che si deve fare”, tutti gli altri devono sottostare alle indicazioni di un’élite demiurgica e “provvidenziale”. E’ qualcosa di davvero diverso dal pensiero che sembra promanare da Christine Lagarde del Fmi, che Magaldi dichiara affiliata alle Ur-Lodges “Three Eyes” e “Pan-Europa”? E’ tempo di sacrifici? Bisogna (“dovete”) soffrire? A parlare è il marchese Saint-Yves o Mario Monti (Gran Loggia di Londra e Ur-Lodge “Babel Tower”), discepolo dell’economista ultra-conservatore Friedrich von Hayek, da cui l’ordoliberismo germanico, al quale obbedisce il “venerabile” Mario Draghi della Bce (“Edmund Burke”, “Pan-Europa”, “Compass Star-Rose”, “Three Eyes” e “Der Ring”)? La nascita delle superlogge internazionali era assolutamente ineluttabile, osserva Carpeoro: la stessa tensione civile e sociale che durante l’Illuminismo aveva condotto i massoni a battersi «per i valori democratici e libertari, propri della dottrina muratoria» condusse le logge di fine ‘800 a coordinarsi, «anche al di fuori dell’organizzazione rituale», affiliando – nelle Ur-Lodges – anche «presidenti, banchieri, industriali», non necessariamente passati per la tradizionale procedura iniziatica.

Per quello spiraglio, sottolinea Carpeoro anche nell’articolata trattazione del capitolo italiano su Gelli e la P2 (dove emerge un’Italia di fatto tuttora “sovragestita” da una fantomatica P1, protetta da silenzi e pesanti omissioni), il potere avrebbe definitivamente svuotato il network massonico di ogni autentica valenza esoterica e libertaria. Tutto sarebbe ridotto a una piramide che parla una sola lingua, quella del denaro, imposta con la globalizzazione forzata del pianeta a beneficio di una casta di “eletti” che, della massoneria, mantengono solo il linguaggio cifrato, magari per “firmare” crisi, guerre e persino attentati terroristici, sanguinose tappe di una strategia della tensione progettata per imporre agli “inferiori” il dominio della paura. Cosa c’è nella testa dei fantasmi della “sovragestione”? Probabilmente, il verbo di Saint-Yves, la “sinarchia”, una filosofia addirittura mistica, secondo cui «l’élite è in armonia con le leggi universali, in pratica è una classe sacerdotale». La “sinarchia”, conclude Carpeoro, è dunque «una forma di teocrazia, un governo di sacerdoti o di re-sacerdoti». Il dogma del rigore, imposto all’Europa, impossibile da discutere: «La “sinarchia” arriva a suggerire che quest’élite illuminata sia in diretto contatto con le intelligenze spirituali che governano l’universo e da cui riceve istruzioni». Per i comuni mortali, nessuna speranza. A meno che non si “risveglino”, nell’unico modo possibile: disertando, rifiutando le illusioni del sistema economico e la quotidiana “guerra dei poveri” su cui si regge, complici un po’ tutti.

(Il libro: Giovanni Francesco Carpeoro, “Dalla massoneria al terrorismo”, sottotitolo “Come alcune logge massoniche sono divenute deviate e come con i servizi segreti vogliono controllare il mondo”, Revoluzione edizioni, 192 pagine, euro 13,90).
 
posted by Fabio Lugano

COME SI MUOVEREBBE LA NUOVA MONETA NAZIONALE NEL CASO DI EUROBREAK (TU CHIAMALA, SE VUOI, LIRA)? E COME SI MUOVEREBBERO LE ALTRE?

Ieri il sempre ottimo e preciso Ingegner Caustico ha dato una sua valutazione sul valore di una nuova ipotetica valuta nazionale. Possiamo chiamare questa nuova moneta Lira, Fiorino, Ducato, Zecchino, Baiocco, Meneghino, Grosso , come vogliamo, ma, comunque, non avrebbe nulla a che fare con la gloriosa Lira ereditata dal regno di Sardegna, poi dal Regno d’Italia e diventata la moneta della neonata Repubblica democratica. Si tratterebbe di un’unità di misura monetaria nuova, che partirebbe da una parità iniziale con l’Euro.

Per analizzare la nuova moneta parto da un punto di vista completamente diverso: i saldi commerciali. Utilizzo questo punto di partenza perchè:
1.I saldi commerciali e delle partite correnti sono una componente essenziale dei saldi della bilancia dei pagamenti, cioè di quel saldo di movimento valutario che poi è il vero motore del rafforzamento/indebolimento di una moneta. In regime di cambi liberi un paese esportatore vedrà la propria moneta rafforzarsi rispetto a quella dell’importatore, perchè il secondo acquisterà la moneta del primo per poter pagare i beni da importare. Si tratta di un fenomeno che , normalmente , dovrebbe portare al rafforzamento della moneta dell’esportato sino all’annullamento del vantaggio dell’esportatore stesso. I saldi commerciali sono un elemento essenziale del saldo delle partite correnti e del saldo della bilancia dei pagamenti (che considera anche investimenti e disinvestimenti).
2.Il valore della bilancia commerciale e di quello delle partite correnti sono dei valore certi ed degli indicatori oggettivi della competitività , a livello produttivo, fra i vari sistemi economici. Un dato diretto, non frutto di elaborazioni.

Già da queste premesse possiamo chiarire un paio di dubbi agli increduli e rispondere ad un paio di domanda classiche.

“Se usciamo dall’euro come faremo a comprare il petrolio e le materie prime senza una moneta forte?” Semplice, vendendo, come facciamo , i nostri prodotti sul mercato mondiale e procurandocela.

“E come faremo con i prestiti?”. Ammesso ce ne sia bisogno, con lo stesso modo visto precedentemente…

Ipotizziamo che l’eurozona si rompa e che quindi ci troviamo da un lato a definire la posizione della nostra moneta verso gli ex paesi euro, dall’altro.

In generale vediamo l’andamento della bilancia dei pagamenti italiana

Notiamo come la bilancia delle partite correnti nazionale sia diventata positiva a partire dal 2011, dopo aver toccato dei valori fortemente negativi a cavallo della crisi del 2008. La bilancia delle partite correnti si muove in sintono, praticamente con la bilancia commerciale, come possiamo vedere da quest’altro grafico.

Praticamente gli avanzi di bilancia commerciale finanziano sia le rimesse verso l’estero (evidentemente degli immigrati in Italia…) sia gli interessi che le istituzioni italiane pagano verso l’estero. Ricordiamo che la bilancia delle partite correnti registra :
•le transazioni reali di beni o servizi (la bilancia commerciale);
•i flussi di reddito (interessi, dividendi etc);
•i flussi unilaterali (donazioni etc).

Essendo la nostra bilancia delle partite correnti in attivo non c’è da aspettarsi, in generale, grossi problemi dalla nostra uscita dall’euro.

Però il concetto di svalutazione/rivalutazione è sempre relativo: mi svaluto-rivaluto rispetto a qualche moneta. Chi parla di “Svalutazione del 20%” o parla a caso o pensa ad una svalutazione collettiva, verso tutto il mondo, il che è perfettamente irrealistico, dato che i nostri saldi commerciali e delle partite correnti vengono a differire paese per paese.

In generale potremmo dividere le transazioni fra Area Dollaro e le neovalute generate dalla frattura dell’area euro.

Verso gli Stati Uniti abbiamo una situazione di attivo della bilancia commerciale , come possiamo vedere dai dati USA:

AVANZO ITALIA – USA 2016: us$ 28.456 milioni

AVANZO ITALIA – USA 2015: us$ 27.975 milioni

AVANZO ITALIA – USA 2014: us$ 25.410 milioni

Quindi non è prevedibile una svalutazione verso il dollaro, consistente. Del resto abbiamo un avanzo commerciale perfino verso i paesi OPEC (2.356 milioni di euro). L’unica area verso cui dovremmo svalutare sarebbe la Cina , con cui abbiamo una situazione di deficit commerciale per euro 16.204 milioni e verso il rublo russo, contro il quale abbiamo un disavanzo di euro 3.897 Purtroppo nel primo caso, di valute legate ad dollaro, per cui difficilmente si rivaluterà autonomamente, nel secondo caso le sanzioni europee impediscono il riallinearsi della nostra bilancia commerciale.

Cosa avverrebbe invece nei confronti di ipotetiche valute dell’area euro.

Vediamo nei confronti della Germania :

DISAVANZO COMMERCIALE ITALIA GERMANIA : euro 8.949 milioni

Quindi assisteremmo ad una svalutazione della “Lira” verso il Marco

In generale abbiamo un avanzo commerciale verso altri paesi che va a riequilibrare la bilancia delle partite correnti: paghiamo interessi, dividendi ed effettuiamo trasferimenti . La nostra attività commerciale ci permette di far fronte a queste necessità valutarie e , come lo fa ora, ancor meglio lo farebbe in futuro.

Paradossalmente il “Dividendo negativo” del nostro debito e della nostra instabilità politica ha storicamente portato ad un’utile svalutazione della nostra moneta. Essere troppo forti non serve a fare buoni affari, meglio mantenere un low profile ed apparire politicamente inaffidabili.

Diversa è , ad esempio, la situazione della Francia, che presenta un deficit commerciale enorme con la Germania (50 miliardi di euro, 6 volte quello italiano), e con i Paesi Bassi, (90 miliardi di euro) e con l’Italia. Questa situazione necessiterebbe una forte svalutazione dell’eventuale nuova valuta francese.

Chi si troverebbe sull’altro lato della barricata sarebbero Paesi Bassi e Germania. I Paesi Bassi hanno il quinto surplus commerciale al mondo, paradossalmente più capite maggiore di quello tedesco. Le loro monete esploderebbero, letteralmente, sia nei confronti della “Neolira”, sia nei confronti, soprattutto, del dollaro . Chiaramente i Paesi Bassi cercheranno ad ogni costo di mantenere un nucleo duro di moneta, almeno con Germania, Benelux ed Austria, perchè da soli sarebbero massacrati.

Per l’Italia invece , nel caso di eurobreak :
•Non dovrebbero esserci grossi problemi di svalutazione verso il dollaro e quindi di inflazione importata;
•Ci sarebbe un’importante svalutazione verso le valute tedesca ed olandese, dell’ordine di un 15-20 %.
•Potrebbe esserci un riaggiustamento leggero verso la Francia.
•Le variabili politiche/creditizie potrebbero portare ad un’accentuazione della svalutazione verso le nuove monete dell’area euro. Difficilemnte verso il dollaro tranne iniziare ad accumulare enormi avanzi commerciali verso gli USA.
•Le nostre aziende industriali inizierebbe a spiazzare le aziende equivalenti tedesche ed olandesi nei mercati mondiali.

Nessun terremoto, niente benzina che triplica il suo prezzo, semplicemente una situazione piena di opportunità da governare.

5 marzo, 2017 alle 22:15
 
caverna dei 7 ladri: Gelli, il Pci e il tesoro di Jugoslavia

Scritto il 05/3/17 • nella Categoria: segnalazioni Condividi


Belgrado, 17 marzo 1941. Su 57 autocarri sono caricate 1.300 cassette di legno, sulle quali è stampigliata la scritta Banque Nationale Royame de Jugoslavie, Caisse Centrale. Ciascuna cassetta è numerata in rosso e contiene 55 chili d’oro fino in lingotti, per un totale presunto di 60 tonnellate. Su altri otto autocarri viaggia un altro tesoro: fondi neri di generali e ministri jugoslavi in fuga al seguito del re, per un totale di 64,494.177 dinari, 223 mila franchi francesi, 175 mila corone, 76.675 mila dollari. Poi c’è un terzo tesoro, quello della corona: sacchi di ruvida tela che contengono 500 milioni di dinari in biglietti da mille, e un imprecisato numero di casse piene di gioielli e monete d’oro. Il 14 aprile, sotto la scorta di cento uomini, il convoglio arriva a destinazione nei pressi di Cattaro, ma nel frattempo la situazione militare crolla: fra il 9 e il 13 aprile l’Italia occupa la Dalmazia fino alle bocche di Cattaro. Il 15 aprile il tenente di stato maggiore che comanda il prezioso convoglio, riceve l’ordine, in attesa dell’imbarco per l’Egitto, di nascondere il tesoro in una caverna naturale a due chilometri dalla città di Niksic, sulla strada per Podgoriza, vicino alla base navale di Cattaro: la caverna dei sette ladri, così chiamata per via di sette banditi che nell’Ottocento vi nascondevano il frutto delle loro scorrerie.
Il giovane re Pietro volle però che il tesoro della corona fosse nascosto nelle grotte del monastero del patriarca Gavrilov, sul monte Ostrog. Tenne per sé 15 milioni di dinari per le spese personali e per la fuga. Intanto il 17 aprile l’Italia con le divisioni Centauro, Messina e Marche, occupa l’intero Montenegro, e improvvisamente, il piano del governo jugoslavo e dell’ambasciatore inglese per imbarcare il tesoro, diventa impraticabile. Entrano in scena i servizi segreti militari italiani. Il generale Mario Roatta localizza l’oro jugoslavo attraverso il generale Riccardo Pentimalli, comandante della divisione Marche, e fa piantonare la caverna. Entra in scena Licio Gelli, che all’epoca è in Jugoslavia al seguito di un ex federale di Pistoia, Luigi Alzona, diventato rappresentante del Servizio Informazione Militari (Sim). E’ proprio Gelli a proporre l’idea di un falso treno ospedale diretto a Trieste, per trasportare il tesoro jugoslavo. Con questo stratagemma il tesoro raggiunge l’Italia, i cinque vagoni che lo trasportavano furono parcheggiati in un binario morto dopo la stazione di Trieste. Lì, Alzona e Gelli lo consegnarono ad altri agenti del Sim.
A questo punto, il bottino si divise: otto tonnellate d’oro furono consegnate alla Banca d’Italia, le altre per la maggior parte furono nascoste dagli stessi funzionari della Banca d’Italia in varie località segrete, dove restarono fino alla liberazione di Roma sotto il controllo del governatore Azzolini, di Roatta e di Pentimalli. In questo quadro si inserirebbe un incontro tra Licio Gelli e Palmiro Togliatti, nella sede romana del Pci, dove Gelli sarebbe giunto scortato da tre ex partigiani comunisti, incaricati dal Cln, al comando di Bruno Tesi. Perché ci sarebbe stato questo incontro? Gelli voleva un appoggio per far sbiadire i suoi trascorsi fascisti? Forse voleva parlare del malloppo jugoslavo, barattando l’informazione con protezioni politiche? Di certo si sa che in questo periodo del presunto colloquio con Togliatti, Gelli ebbe vari contatti con esponenti responsabili del Pci. Nel 1945, via mare e in gran segreto, 27 tonnellate d’oro del tesoro jugoslavo furono restituite a Tito. Solo nel 1947, ufficialmente, furono restituite le otto tonnellate conservate nelle casseforti della Banca d’Italia.
Nel frattempo i protagonisti della vicenda dell’oro jugoslavo, Roatta, Pentimalli, Azzolini e Gelli, approdano con pochi danni dal regime fascista a quello democratico. La scure dell’epurazione non colpì nessuno dei quattro protagonisti, che alla fine furono tutti riabilitati nel secondo grado di giudizio, perché “ingiustamente” condannati. Secondo Gianfranco Piazzesi, autore del libro “La caverna dei sette ladri” (Baldini & Castoldi, 1996), dopo l’incontro con Togliatti, Gelli poté entrare nell’isola della Maddalena sotto la tutela degli americani, dove lo raggiunse la moglie e il resto della famiglia, tutti al sicuro da eventuali vendette partigiane. Il suo iter giudiziario fu davvero poco drammatico. Fu spedito nelle carceri di Cagliari e di Napoli. A Regina Coeli, poi, condivise la cella con Junio Valerio Borghese, il principe nero, ex comandante della X Mas. Nel 1947 fu in carcere a Pistoia, poi a Firenze con l’accusa di collaborazionismo. Nel 1947 Togliatti, ministro della giustizia, promulga l’amnistia, dalla quale sono esclusi solo i colpevoli di sevizie particolarmente efferate. Gelli ha collaborato con i nazisti, ma si è fatto anche vedere a fianco dei partigiani e i documenti del Cln sono tutti a suo favore. Gelli rientra a pieno titolo nei casi previsti dall’amnistia. E il tesoro? Oltre venti tonnellate d’oro restarono in mani misteriose.
(Lara Pavanetto, “La caverna dei sette ladri, ovvero come l’esercito italiano trafugò l’oro jugoslavo grazie a Licio Gelli. Cattaro 1941”, dal blog della Pavanetto, 5 ottobre 2014).
Belgrado, 17 marzo 1941. Su 57 autocarri sono caricate 1.300 cassette di legno, sulle quali è stampigliata la scritta Banque Nationale Royame de Jugoslavie, Caisse Centrale. Ciascuna cassetta è numerata in rosso e contiene 55 chili d’oro fino in lingotti, per un totale presunto di 60 tonnellate. Su altri otto autocarri viaggia un altro tesoro: fondi neri di generali e ministri jugoslavi in fuga al seguito del re, per un totale di 64,494.177 dinari, 223 mila franchi francesi, 175 mila corone, 76.675 mila dollari. Poi c’è un terzo tesoro, quello della corona: sacchi di ruvida tela che contengono 500 milioni di dinari in biglietti da mille, e un imprecisato numero di casse piene di gioielli e monete d’oro. Il 14 aprile, sotto la scorta di cento uomini, il convoglio arriva a destinazione nei pressi di Cattaro, ma nel frattempo la situazione militare crolla: fra il 9 e il 13 aprile l’Italia occupa la Dalmazia fino alle bocche di Cattaro. Il 15 aprile il tenente di stato maggiore che comanda il prezioso convoglio, riceve l’ordine, in attesa dell’imbarco per l’Egitto, di nascondere il tesoro in una caverna naturale a due chilometri dalla città di Niksic, sulla strada per Podgoriza, vicino alla base navale di Cattaro: la caverna dei sette ladri, così chiamata per via di sette banditi che nell’Ottocento vi nascondevano il frutto delle loro scorrerie.

Il giovane re Pietro volle però che il tesoro della corona fosse nascosto nelle grotte del monastero del patriarca Gavrilov, sul monte Ostrog. Tenne per sé 15 milioni di dinari per le spese personali e per la fuga. Intanto il 17 aprile l’Italia con le divisioni Centauro, Messina e Marche, occupa l’intero Montenegro, e improvvisamente, il piano del governo jugoslavo e dell’ambasciatore inglese per imbarcare il tesoro, diventa impraticabile. Entrano in scena i servizi segreti militari italiani. Il generale Mario Roatta localizza l’oro jugoslavo attraverso il generale Riccardo Pentimalli, comandante della divisione Marche, e fa piantonare la caverna. Entra in scena Licio Gelli, che all’epoca è in Jugoslavia al seguito di un ex federale di Pistoia, Luigi Alzona, diventato rappresentante del Servizio Informazione Militari (Sim). E’ proprio Gelli a proporre l’idea di un falso treno ospedale diretto a Trieste, per trasportare il tesoro jugoslavo. Con questo stratagemma il tesoro raggiunge l’Italia, i cinque vagoni che lo trasportavano furono parcheggiati in un binario morto dopo la stazione di Trieste. Lì, Alzona e Gelli lo consegnarono ad altri agenti del Sim.

A questo punto, il bottino si divise: otto tonnellate d’oro furono consegnate alla Banca d’Italia, le altre per la maggior parte furono nascoste dagli stessi funzionari della Banca d’Italia in varie località segrete, dove restarono fino alla liberazione di Roma sotto il controllo del governatore Azzolini, di Roatta e di Pentimalli. In questo quadro si inserirebbe un incontro tra Licio Gelli e Palmiro Togliatti, nella sede romana del Pci, dove Gelli sarebbe giunto scortato da tre ex partigiani comunisti, incaricati dal Cln, al comando di Bruno Tesi. Perché ci sarebbe stato questo incontro? Gelli voleva un appoggio per far sbiadire i suoi trascorsi fascisti? Forse voleva parlare del malloppo jugoslavo, barattando l’informazione con protezioni politiche? Di certo si sa che in questo periodo del presunto colloquio con Togliatti, Gelli ebbe vari contatti con esponenti responsabili del Pci. Nel 1945, via mare e in gran segreto, 27 tonnellate d’oro del tesoro jugoslavo furono restituite a Tito. Solo nel 1947, ufficialmente, furono restituite le otto tonnellate conservate nelle casseforti della Banca d’Italia.

Nel frattempo i protagonisti della vicenda dell’oro jugoslavo, Roatta, Pentimalli, Azzolini e Gelli, approdano con pochi danni dal regime fascista a quello democratico. La scure dell’epurazione non colpì nessuno dei quattro protagonisti, che alla fine furono tutti riabilitati nel secondo grado di giudizio, perché “ingiustamente” condannati. Secondo Gianfranco Piazzesi, autore del libro “La caverna dei sette ladri” (Baldini & Castoldi, 1996), dopo l’incontro con Togliatti, Gelli poté entrare nell’isola della Maddalena sotto la tutela degli americani, dove lo raggiunse la moglie e il resto della famiglia, tutti al sicuro da eventuali vendette partigiane. Il suo iter giudiziario fu davvero poco drammatico. Fu spedito nelle carceri di Cagliari e di Napoli. A Regina Coeli, poi, condivise la cella con Junio Valerio Borghese, il principe nero, ex comandante della X Mas. Nel 1947 fu in carcere a Pistoia, poi a Firenze con l’accusa di collaborazionismo. Nel 1947 Togliatti, ministro della giustizia, promulga l’amnistia, dalla quale sono esclusi solo i colpevoli di sevizie particolarmente efferate. Gelli ha collaborato con i nazisti, ma si è fatto anche vedere a fianco dei partigiani e i documenti del Cln sono tutti a suo favore. Gelli rientra a pieno titolo nei casi previsti dall’amnistia. E il tesoro? Oltre venti tonnellate d’oro restarono in mani misteriose.

(Lara Pavanetto, “La caverna dei sette ladri, ovvero come l’esercito italiano trafugò l’oro jugoslavo grazie a Licio Gelli. Cattaro 1941”, dal blog della Pavanetto, 5 ottobre 2014).

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l autore cita, qui nn in evidenza,, che il gen roatta, era agli arresti domiciiiari a santa marta e una macchina del vaticano lo prelevo, portandolo a castel Gandolfo, da li nn se ne seppe più nulla ad maiora
 
attentati».
Schulz: senza l’euro Berlino non teme la Cina, ma l’Italia


16/4 • segnalazioni

«Senza l’euro, la Germania non dovrebbe temere la Cina, ma l’Italia». Parola di Martin Schulz, intervistato da Konstantin von Hammerstein e Gordon Repinski dello “Spiegel”. Colloquio illuminante, che risale al 2012: «Oltre a dimostrare come in cinque anni non sia stato fatto nulla per risolvere i problemi della Ue», scrive “Voci dall’Estero”, che ha tradotto l’articolo e ora lo ripropone, «chiarisce il pensiero dell’odierno avversario della Merkel, sedicente socialdemocratico e possibile futuro cancelliere tedesco», laddove dice che «l’Europa è vitale per gli interessi nazionali» (quelli tedeschi, ovviamente). «Le sue parole di apparente accondiscendenza verso i paesi periferici vanno lette così: è meglio mantenere gli altri paesi nella condizione di inoffensive colonie». Per “Voci dall’Estero”, una sua affermazione è particolarmente rivelatrice: senza più la moneta unica governata a Francoforte dai poteri finanziari cui risponde la Bce, e con il ritorno a un marco rivalutato, Berlino non dovrebbe affatto guardarsi dalla la Cina, bensì da paesi come l’Italia e la Francia. Preso nota? «Tutti gli elettori italiani e francesi ne dovrebbero essere consapevoli».
I giornalisti dello “Spiegel” citano il filosofo Jürgen Habermas: vista la crisi dell’euro ci sarebbero solo due strategie possibili per l’Europa, tornare alle monete nazionali o andare verso un’unione politica. «Sì», ammette Schulz, «avremmo dovuto introdurre l’unione politica assieme all’euro». Ma ormai è tardi: «Non ha senso stare a lamentarsi delle opportunità mancate, questo è il momento di agire rapidamente nel breve termine». Rifare l’Ue da cima a fondo? «Non è un’esigenza pressante, in questo momento». Ma la Germania è interessata a discutere della possibile introduzione di un’unione politica? Macché: «Questo è un drammatico errore. Come se un cambiamento strutturale potesse risolvere i problemi nel breve termine». La crisi politica è «sistemica», ammette Schulz, ma il problema – avvertito nel 2012 – è soprattutto l’agonia della Grecia nonché la speculazione sui tassi d’interesse contro Spagna, Italia e Portogallo. Carta vincente? Gli eurobond garantiti dalla Bce, ma «l’Olanda non li vuole, la Finlandia non li vuole, e la Germania assolutamente non li vuole».
Perché invece Martin Schulz li vuole? «Perché abbiamo un’area valutaria ed economica comune, e questo significa che, di fatto, i singoli paesi non hanno più sovranità sulla propria moneta. Anche la Germania appartiene a quest’area. Perché, dunque, non dovremmo applicare degli strumenti di politica monetaria a livello transnazionale?». Semplice: perché il Trattato di Maastricht, ricorda lo “Spiegel”, stabilisce che nessun paese deve essere responsabile per il debito di un altro paese: è la cosiddetta clausola di “non salvataggio”. Il politico tedesco, esponente della Spd, protesta: quella clausola non dev’essere «un dogma intoccabile». Inoltre, sul tetto al decifit, «Francia e Germania hanno violato le regole». Dunque, se nel loro caso «si è potuto interpretare i trattati in modo così flessibile», perché mai allora «non lo possiamo rifare adesso con gli eurobond?». Non si scappa: o si crea un fondo di ammortamento del debito, garantito dall’insieme dei paesi Ue, o si concedono «autorizzazioni bancarie al Meccanismo Europeo di Stabilità (Esm), il fondo permanente di salvataggio, in modo che possa prendere a prestito denaro dalla Bce come qualsiasi altra banca».
Purtroppo, fa notare lo “Spiegel”, l’opinione pubblica tedesca non è d’accordo su una condivisione del debito. «Questa affermazione è assolutamente vera», ammette Schulz, «e mi preoccupa molto. Ciò di cui abbiamo bisogno è di spiegare alla gente quali sono le alternative». Per esempio? «Reintrodurre il marco. Sarebbe una valuta estremamente forte, che renderebbe le esportazioni tedesche molto più costose». Secondo l’ex presidente del Parlamento Europeo, «l’industria automobilistica tedesca dovrebbe temere non più la Cina, ma la Francia e l’Italia, la Peugeot, la Citroën e la Fiat». Per Schulz, senza più l’euro, «la Germania diventerebbe troppo grande per l’Europa ma troppo piccola per il mondo. A questo dovrebbero pensare quelli che chiedono un’uscita della Grecia dall’Eurozona». E per quanto riguarda l’Italia? «Per molto tempo l’Italia è stata governata da alcuni tra i politici meno professionali che si siano mai visti. Eppure non c’era molta pressione in termini di speculazione». Poi è arrivato Mario Monti, che Schulz definisce «quel tipo di leader che di solito si vede solo nei film, un distinto professore che non accetta nemmeno un cuoco nella sua residenza a Palazzo Chigi», l’uomo «di cui i mercati non si fidano».
Quanto all’austerity – siamo nel 2012 – Schulz la vedeva così: «Monti sta facendo dei tagli, ma tutto quello che lui riesce a risparmiare va a coprire l’aumento dei tassi di interesse. E quando dice: “Mio Dio, gente, aiutatemi”. Noi cosa rispondiamo? Rispondiamo: “Devi fare altri tagli, l’Italia deve arrangiarsi e uscirne da sola”. Ma non funzionerà. Voglio esser chiaro su questo». Spiegazione: «L’Italia è uno degli otto paesi più industrializzati. Cosa succede se un paese del G8 e dell’Unione Europea va in bancarotta? Qualcuno pensa che la Germania non ne risentirà? L’Italia è uno dei nostri mercati più importanti. No, in questo modo non andiamo da nessuna parte. Dobbiamo dare licenza bancaria all’Esm, tagliare i tassi di interesse». E cioè: allentare il rigore. Toccherebbe alla Germania, pagare? Schulz smentisce: Italia e Germania si sobbarcano, da sole, il 38% dei costi dell’Esm. «State dando troppa attenzione alla nuova retorica nazionalista della Germania, dice Schulz, secondo cui «la grande maggioranza della popolazione è favorevole all’idea di un’unione moderna e illuminata di paesi che dimostrano solidarietà». E cita il regista Wim Wenders: ha detto che «l’idea di Europa è diventata quella di un’amministrazione, e adesso la gente pensa che l’amministrazione sia l’idea stessa di Europa. Ma questo non vuol dire che dobbiamo rinunciare all’idea. Significa che dobbiamo cambiare l’amministrazione».
Era cinque anni fa. Nel frattempo, non è cambiato niente. Lo stesso Schulz, tipico esponente della “sinistra” ultra-europeista, ammette di temere l’opinione pubblica, la consultazione popolare, specie di fronte a referendum che impegnino anche i tedeschi a pronunciarsi sulla crescente centralizzazione del potere a Bruxelles. «A differenza di altri paesi – premette – la Germania non ha avuto esperienza di referendum». E che dire del leader dell’Spd, Sigmar Gabriel, determinato a lasciar votare la gente sull’Unione Europea? «È un rischio», dichiara Schulz. «I referendum pongono sempre delle minacce quando si parla di politica europea, perché la politica europea è complessa. Sono sempre un’opportunità per quelle parti politiche alle quali piace semplificare le questioni. La politica europea è sempre un intreccio di razionalità e di emozioni. Il problema di noi politici europei è che affrontiamo tutto con fredda razionalità, e poi ci chiediamo perché non riusciamo a coinvolgere emotivamente le persone». Domanda diretta: «Lei non si fida della gente?». Risposta, altrettanto diretta: «Io mi fido, ma non è contrario alla democrazia essere scettici. I referendum sono uno strumento democratico, ma lo sono anche le decisioni raggiunte da una democrazia parlamentare. Sono per un’estrema cautela quando si tratta di referendum. Anche in Germania».
«Senza l’euro, la Germania non dovrebbe temere la Cina, ma l’Italia». Parola di Martin Schulz, intervistato da Konstantin von Hammerstein e Gordon Repinski dello “Spiegel”. Colloquio illuminante, che risale al 2012: «Oltre a dimostrare come in cinque anni non sia stato fatto nulla per risolvere i problemi della Ue», scrive “Voci dall’Estero”, che ha tradotto l’articolo e ora lo ripropone, «chiarisce il pensiero dell’odierno avversario della Merkel, sedicente socialdemocratico e possibile futuro cancelliere tedesco», laddove dice che «l’Europa è vitale per gli interessi nazionali» (quelli tedeschi, ovviamente). «Le sue parole di apparente accondiscendenza verso i paesi periferici vanno lette così: è meglio mantenere gli altri paesi nella condizione di inoffensive colonie». Per “Voci dall’Estero”, una sua affermazione è particolarmente rivelatrice: senza più la moneta unica governata a Francoforte dai poteri finanziari cui risponde la Bce, e con il ritorno a un marco rivalutato, Berlino non dovrebbe affatto guardarsi dalla la Cina, bensì da paesi come l’Italia e la Francia. Preso nota? «Tutti gli elettori italiani e francesi ne dovrebbero essere consapevoli
 
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Le (enormi) ricadute geopolitiche dell’imminente voto francese
Scritto il 19 aprile 2017 by Federico Dezzani
Twitter: @FedericoDezzani


Domenica 23 aprile si svolgerà il primo turno delle presidenziali francesi: è l’appuntamento chiave del 2017, capace di innescare e/o accelerare dinamiche che travalicano i confini dell’Esagono per abbracciare l’intero scacchiere mondiale. Il malessere sociale e le drammatiche condizioni in cui versa l’economia della Francia, pienamente ascrivibile tra i Paesi dell’europeriferia, hanno sgretolato il sistema politico transalpino, aprendo lo scenario di un inedito ballottaggio tra populisti di destra e populisti di sinistra: Marine Le Pen contro Jean-Luc Mélenchon. La sconfitta dei candidati europeisti accelererà la dissoluzione della moneta unica e dell’Unione Europea, compromettendo irreparabilmente l’intera architettura euro-atlantica edificata negli ultimi 70 anni: lo speculare rafforzamento della Russia dopo la vittoria di Marine Le Pen ed l’ingrossarsi del blocco euroasiatico rischiano di portare il sistema internazionale al carico di rottura.

La Francia al bivio: Atlantico o Eurasia
Se il 2017 ha tutte le caratteristiche per essere definito “l’anno della frattura”, lo spartiacque tra il vecchio ordine mondiale “liberale” a guida angloamericana e l’avvento di un nuovo assetto internazionale, ebbene, c’è un appuntamento più decisivo degli altri, quello capace di dispiegare tutto il potenziale rivoluzionario dell’anno in corso: le presidenziali francesi. Domenica 23 aprile si terrà il primo turno delle elezioni che incoroneranno il nuovo inquilino dell’Eliseo ed è tempo, oltre che di pronosticare il probabile esito del voto, anche di collocare le presidenziali francesi in una più ampia cornice geopolitica: solo chi nascondesse la testa sotto terra, potrebbe infatti affermare che l’imminente voto sia scollegato dalle rinnovate tensioni tra NATO e Russia e dai venti di guerra nella Corea del Nord.


Partiamo coll’analizzare lo schieramento politico a distanza di pochi giorni dal voto, azzardando il probabile esito del primo turno.

In Francia, come altrove, il principale quesito è se i partiti tradizionali, legati a doppio filo all’establishment euro-atlantico, riusciranno o meno a respingere l’assalto “populista”, l’avanzata, cioè, di quei movimenti che predicano ricette economiche ed una politica estera diametralmente opposta a quella dell’oligarchia al potere: la risposta è quasi certamente “no”. Come abbiamo più volte sottolineato nelle nostre analisi, la Francia, di fronte all’eurocrisi scoppiata nel lontano 2009 e progressivamente incancrenitasi avendo mancato l’obiettivo di fondo (strappare il Tesoro Unico europeo e gli Stati Uniti d’Europa), è scivolata giorno dopo giorno verso l’euro-periferia, mostrando l’illusorietà del “motore franco-tedesco”: la galoppante crescita del debito pubblico francese, che dall’introduzione dell’euro è passato dal 60% al 97% del PIL, gli alti deficit in funzione anti-ciclica, il cronico disavanzo della bilancia commerciale e la disoccupazione record (quella ufficiale si attesta attorno al 10% della forza lavoro), collocano l’Esagono più vicino al Mediterraneo che al Reno.

La parità formale tra Parigi e Berlino scongiura certamente quelle politiche di austerità imposte al resto dell’europeriferia (capaci di innescare esplosive rivolte in una società, come quella francese, abituata a ricevere generose prestazioni dallo Stato), ma non impedisce che qualche “riforma strutturale” sia somministrata anche alla Francia: il “Job Act” gallico, la legge El Khomri, provoca reazioni impensabili in Italia, mobilitando sindacati e lavoratori per settimane e paralizzando diversi settori strategici dell’economia. L’assaggio di neoliberismo, il crescere incessante della disoccupazione e la parallela caduta verticale del presidente François Hollande in termini di popolarità, sono accompagnati dall’esplosione del terrorismo islamista che, avviato nel gennaio 2015 con la strage di Charlie Hebdo, semina morti fino alla strage di Nizza dello scorso luglio: è la classica strategia della tensione utile a “sedare” un’opinione pubblica sul piede di guerra, a causa dell’impoverimento generalizzato e dei tagli allo Stato sociale.

La strategia della tensione fallisce l’obiettivo di compattare i francesi attorno al capo di Stato, sebbene il governo socialista ripeta ossessivamente che “la France est en guerre”: per la prima volta dall’avvento della Quinta Repubblica, il presidente in carica, François Hollande, sceglie di “abdicare”, rinunciando a correre per un secondo mandato. L’obiettivo è quello di arrestare l’avanzata dei populisti, relegando il quinquennio di Hollande ad una triste parentesi, e puntando su volti nuovi. La ribellione dell’elettorato è però ormai troppo impetuosa per essere incanalata: il “filo-russo” François Fillon conquista la candidatura del centro-destra battendo l’esponente dell’establishment, Alain Juppé. Segue quindi una feroce campagna mediatica-giudiziaria per stroncare la corsa di Fillon verso l’Eliseo e lanciare verso il ballottaggio del 7 maggio il centrista ed “outisider” Emmanuel Macron, ex-banchiere Rothschild: il calcolo politico si basa sulla convinzione che tutti i voti moderati si coaguleranno attorno all’europeista e filo-atlantico Macron, sancendo così la sconfitta della populista e filo-russa Marine Le Pen.

Nella Francia del 2017, come nel resto dell’Occidente, i voti “moderati” sono però merce rara: il malessere diffuso, tre milioni di disoccupati (che salgono a sei considerando i lavoratori iscritti ad un corso di ricollocamento), l’insofferenza generalizzata verso la cricca di privilegiati che ruota attorno all’Eliseo e ad ai salotti buoni di Parigi, spinge l’elettorato sulle ali estreme dello schieramento politico: la candidatura del centrista Emmanuel Macron, presentato dalla maggior parte dei sondaggi e dei media compiacenti come il presidente in pectore, rischia di sgonfiarsi addirittura al primo turno, schiantandosi contro lo scoglio dell’elettorato.

Ferma restando la vittoria di Marine Le Pen, crescono infatti le probabilità che lo sfidante al ballottaggio del 7 maggio non sia l’ex-banchiere di Rothischild, ma il “populista rosso” Jean-Luc Mélenchon: storico esponente dell’ala sinistra del Partito socialista, fondatore del movimento “France insoumise” (la Francia ribelle), abile oratore e figura piuttosto carismatica, Mélenchon è la declinazione “giacobina” di Marine Le Pen. Comune è l’avversione all’ortodossia finanziaria di Bruxelles, comune è l’intenzione di manovra fiscali espansive in forte deficit, comune è il rifiuto dei dogmi liberisti e l’apertura al protezionismo, comune è l’intenzione di traghettare la Francia fuori dalla NATO, comune la volontà di riconciliarsi con Mosca superando le varie discrepanze, in primis sulla Siria.

Diversi fattori (la presidenza socialista uscente di Hollande, la crisi migratoria, l’emergenza sicurezza nella città, il vento nazionalista sempre più forte a livello europeo) lasciano supporre che sarà la populista di destra, Marine Le Pen, ad emergere vincitrice dal ballottaggio del 7 maggio. Nelle attuali condizioni in cui versa l’Unione Europea, è però chiaro che se dalle urne del 23 aprile dovesse emergere una sfida tra forze anti-sistema di sinistra e di destra, Bruxelles incasserebbe il colpo di grazia anche senza conoscere il verdetto finale delle presidenziali francesi: parliamo di istituzioni europee così lacerate da assistere inermi alla ribellione degli Stati alla politica migratoria comune, alla puntuale disapplicazione di norme fino a poco tempo fa presentate come ineludibili (fiscal compact e bail in), al tramonto di qualsiasi ulteriore integrazione necessaria a garantire la sopravvivenza dell’euro (in primis la garanzia unica sui depositi). L’affermazione dei populisti Le Pen e Mélenchon al voto di domenica prossima, sancirebbe la rottura definitiva del motore franco-tedesco da tempo in panne e, aprendo una drammatica faglia nel cuore dell’Europa, porterebbe al collasso finale le già pericolanti istituzioni di Bruxelles.

La dissoluzione dell’Unione Europea ed il simultaneo ricollocamento di Parigi su posizioni filo-russe sarebbero un vero terremoto geopolitico, scuotendo alle fondamenta l’intera architettura politico-militare consolidatasi in Europa dopo la Seconda Guerra Mondiale: le istituzioni di Bruxelles, sinonimo di UE ma anche di NATO, sono infatti lo strumento con cui l’impero angloamericano ha prima blindato, e poi allargato, la testa di ponte sul continente euroasiatico, conquistata con due guerre mondiali.

Scopo strategico della UE/NATO è attrarre verso l’Atlantico il maggior numero possibile di potenze europee ed impedire il sorgere di qualsiasi alleanza tra la Russia e l’Europa occidentale. Lo squagliamento della UE, accompagnato dalla parallela uscita della Francia della NATO, stravolgerebbe quindi la settantennale strategia dell’establishment atlantico sul Vecchio Continente, incentratala sulla cooperazione franco-tedesca con la benedizione di Londra e Washington, e sul progressivo ampliamento verso est delle organizzazioni “transatlantiche”.

Si materializzerebbe così il peggior scenario possibile per gli strateghi angloamericani, tratteggiato da Zbigniew Brzezinski nel suo libro “The Grand Chessboard: American Primacy and Its Geostrategic Imperatives” del 1997: una Francia nazionalista che, oppressa dall’egemonia della Germania schierata su posizioni filo-atlantiche, parte alla riconquista del primato continentale alleandosi con la Russia e riconoscendo a quest’ultima una legittima zona d’influenza nell’est-europeo. Un patto franco-russo, in sostanza, per ridimensionare la Germania ed espellere gli angloamericani dal Vecchio Continente.

Il quadro si farebbe ancora più drammatico per gli strateghi angloamericani se la Francia “nazionalista” non si saldasse soltanto alla Russia, ma al blocco euro-asiatico che comprende anche la Cina e l’Iran e si irrobustisce giorno dopo giorno: la Francia, anziché lavorare per la caduta di Assad ed il puntellamento del regime filo-saudita in Yemen, passerebbe così ad una condizione di neutralità o larvata ostilità nei confronti degli alleati regionali di Washington e Londra, compromettendo ulteriormente l’opera angloamericana di “contenimento” delle potenze euro-asiatiche. Gli USA a quel punto, espulsi dalla massa continentale anche grazie alla cooperazione francese, perderebbero automaticamente lo status di superpotenza mondiale. Scriveva Brzezinski nel lontano 1997, allo zenit del mondo monopolare:

“Henceforth, the United States may have to determine how to cope with regional coalitions that seek to push America out to Eurasia, thereby threatening America’s status as a global power. (…) Potentially, the most dangerous scenario would be a grand coalition of China, Russia, and perhaps Iran, an “antihegemonic” coalition united not by the ideology but by complementary grievances. (…) Also quite remote, but not to be entirely excluded, is the possibility of a grand European realignment, involving either a German-Russian collusion or a Franco-Russian Entente”.

Stiamo assistendo all’inverarsi di una doppia minaccia mortale per l’impero angloamericano: il saldarsi della coalizione tra Russia, Cina ed Iran, unito al nascere di un’intesa franco-russa. Quattro potenze distinte, unite dalla comune volontà di archiviare l’egemonia degli USA e dell’oligarchia atlantica, per ridisegnare l’assetto mondiale.

Si spiega quindi il clima di elevata tensione internazionale, caratterizzato dal precipitare delle relazioni russo-americane e dai concomitanti venti di guerra in Corea, in cui si svolgeranno le elezioni francesi: la posta in gioco supera i confini dell’Esagono ed abbraccia gli equilibri dell’intero Vecchio Continente. La probabile vittoria di Marine Le Pen è in grado di compromettere ulteriormente la presa angloamericana sull’Europa, a beneficio di Mosca e delle altre potenze continentali. È uno scenario che lascia supporre un ulteriore aumento della tensione in vista del ballottaggio del 7 maggio e negli immediati mesi successivi al voto: più la UE si sfalda ed il blocco euroasiatico si ingrossa, maggiori sono i rischi che il sistema internazionale raggiunga il carico i rottura, imprimendo agli eventi quella drammatica svolta che si sarebbe evitata soltanto se Donald Trump avesse mantenuto le promesse neo-isolazioniste della campagna elettorale.

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killer di Olof Palme? Chiamatelo Isis, la mano è la stessa

Scritto il 21/4/17 • nella Categoria: segnalazioni Condividi


«Probabilmente l’assassino di Olof Palme è ancora in vita, e nel delitto potrebbero essere coinvolti la polizia o qualche esponente dell’esercito». Lo afferma il noto criminologo Leif Gustav Willy Persson, che ha sempre dubitato della colpevolezza di Christer Pettersson, un criminale di strada inizialmente fermato, ma che apparentemente non aveva motivi per uccidere il premier socialdemocratico svedese, il primo leader europeo a essere assassinato nell’Europa democratica (il secondo sarà il serbo Zoran Dijndic, nel 2003). Un caso tuttora irrisolto, pieno di ombre: comprese quelle che si allungano sulla strana morte dello scrittore Stieg Larsson, colto da malore dopo aver consegnato alla polizia un imponente dossier sui legami tra presunti killer e servizi segreti. «Informa il nostro amico che la palma svedese verrà abbattuta», scrisse dal Sudamerica un certo Licio Gelli, in un messaggio indirizzato a Philip Guarino, esponente repubblicano Usa vicinissimo a George Bush senior e stretto collaboratore di Michael Ledeen, «storico e giornalista le cui vicende sono torbidamente intrecciate con l’intelligence americana», scrive l’avvocato Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, che denuncia il ruolo degli 007 nella strategia della tensione. Una regia occulta, da cui oggi proverrebbero gli attentati in Europa firmati Isis.
Tre giorni dopo quello strano messaggio di Gelli sulle “palme” svedesi in procinto di essere “abbattute”, alle 23,21 del 28 febbraio 1986, Olof Palme venne ucciso da un sicario in una strada centrale di Stoccolma, non lontano dalla stazione. Palme era il leader del partito socialdemocratico, ed era in pima linea nella lotta contro l’apartheid e i regimi autoritari in Sud America. Venne freddato con due colpi di pistola. «Ma soprattutto – aggiunge il newsmagazine “BergamoPost” – l’episodio avvenne lontano dalle telecamere, e senza che il politico fosse seguito dalla scorta, motivo per il quale l’attentatore non fu mai trovato». Un caso che ricorda, da vicino, l’omicidio di Jfk a Dallas. Sempre il “BergamoPost” ha scovato un indizio curioso: l’ultimo a vedere Palme vivo fu un giovane italiano di origini pugliesi, Nicola, che all’epoca aveva 22 anni. Oggi vive nell’hinterland della capitale svedese e ha lavorato nella ristorazione proprio a Stoccolma. La sua testimonianza è stata utilizzata dalla polizia nei giorni successivi, e ha raccontato brevemente l’accaduto anche al giornale online bergamasco. «Ho incrociato i Palme qualche minuto prima dell’omicidio, Olof e la moglie Lisbeth. Dietro la coppia camminava un uomo: ovviamente non sono riuscito a dargli una connotazione, altrimenti sarei stato molto più utile».
Quando si è reso conto dell’omicidio, Nicola? «Ho sentito gli spari in lontananza, poi ho realizzato che poteva essere Palme e mi sono girato, ho guardato per un po’ e poi mi sono rimesso in cammino». L’indagine, ricorda “BergamoPost”, è stata fra le più costose della storia e, con oltre 700mila pagine di documenti accumulati, è la più ampia in tutto il mondo. La polizia interrogò il giovane italiano solo un paio di volte: «La prima alcuni giorni dopo, la seconda l’anno seguente, quando – racconta – mi fecero osservare alcuni sospetti, dei quali non riconobbi nessuno». La ricostruzione degli eventi, resa pubblica nel corso delle indagini, indica come Nicola avesse incrociato la coppia all’altezza del numero 56 di Sveavägen, la stessa via in cui, all’incrocio successivo con Tunnelgatan (dai 2 ai 3 minuti a piedi), Palme venne ucciso e la moglie ferita lievemente. Nicola vide anche, dieci metri più avanti, un uomo con una grossa giacca blu, mentre seguiva con passo spedito la coppia. Dal report della polizia, l’italiano dichiara di aver pensato che si trattasse di una guardia del corpo in borghese, ma che sembrava anche troppo anziano per essere tale. La maggior parte dei testimoni che videro l’attentatore lo descrissero come una persona fra i 35 e i 40 anni. E il primo sospettato, Christer Pettersson, ne aveva 39.
Ma dov’erano le guardie del corpo? «All’epoca, in Svezia non vi erano seri timori di agguati nei confronti di personaggi politici di spicco, e la sicurezza veniva impiegata per lo più in occasione di eventi pubblici», continua “Bergamo Post”. Olof Palme, la moglie Lisbeth, il figlio e la fidanzata di quest’ultimo trascorsero la serata al cinema Grand (sempre su Sveavägen) prima di ritornare a casa. «Mårten Palme, il figlio del primo ministro, riconobbe un uomo all’uscita del cinema, la cui figura poi venne prima associata a Pettersson, poi, in un recente sviluppo, all’agente segreto sudafricano Eugene De Kock, che sarebbe stato individuato dalle telecamere della Svt il giorno dopo all’aeroporto di Stoccolma, particolare che ha ipotizzato un coinvolgimento del Sudafrica nell’uccisione». Ma l’uomo ha negato di essere mai stato in Svezia. All’epoca dell’omicidio, De Kock aveva 37 anni. La sequenza di sangue è nota: il primo ministro e la sua famiglia arrivarono all’incrocio con Tunnelgatan quando l’attentatore si parò di fronte a Palme e lasciò partire due colpi di pistola verso il primo ministro (di cui uno fatale, al petto) e uno che colpì di striscio la moglie. Poi rimase qualche secondo ad assistere alla scena, tanto da essere riconosciuto da Lisbeth Palme (e dal figlio, che lo aveva visto di fronte al cinema prima di tornare a casa con la fidanzata), la cui testimonianza portò dapprima in carcere Pettersson.
«Lo stesso Pettersson, che in passato era stato condannato per omicidio ed era coinvolto in piccole attività criminali, venne poi scarcerato per mancanza di indizi», aggiunge il giornale online. «Altre quattro persone si trovavano entro una ventina di metri, molto più vicine rispetto a Nicola, ma non riuscirono a identificare l’aggressore, di cui si persero le tracce una volta che egli svoltò sulla scalinata che sovrasta Tunnelgatan». Un caso non ancora risolto, dopo 31 anni. L’arma del delitto non è mai stata trovata, ma si tratta probabilmente di una 357 Magnum. Sigge Cedergren, un malavitoso che temeva Christer Pettersson, dichiarò di aver smarrito quel tipo di pistola e che il principale sospettato sapeva dove era nascosta. Nel 2006, continua “Bergamo Post”, venne ritrovata un’arma simile sul fondo di un lago nella Svezia centrale, ma era troppo arrugginita per poter permettere qualsiasi tipo di ricostruzione. La stessa scena del crimine fu inquinata dai numerosi passanti e curiosi che assistettero all’arrivo dell’ambulanza, e poi da chi lasciò fiori e ricordi di vario genere sul marciapiede. Le indagini sul Dna vennero introdotte solo a partire dagli anni ‘90 e non era possibile, all’epoca, poterle utilizzare.
Christer Pettersson, a sua volta, «è morto nel 2004 in seguito a ferite al cranio mai chiarite». Pochi mesi prima, «si era rivolto a Mårten Palme, dicendo di volerlo incontrare per parlare della morte del padre». Sfortunatamente, «l’incontro non avvenne mai, e la morte di Pettersson mise fine a qualsiasi speranza». Strano, no? L’ex principale sospettato contatta il figlio della vittima ma, prima di portergli parlare, viene ucciso da “ferite al cranio mai chiarite”. Qualcuno sta dunque lavorando nell’ombra, ancora, per impedire che emerga la verità sul caso Palme? Ne è convinto l’avvocato Carpeoro, massone, che denuncia apertamente il ruolo criminale di una parte della massoneria internazionale, al centro di torbidi intrecci e depistaggi come quelli che tuttora inquinano le indagini sul terrorismo finto-islamico che colpisce a Parigi, Londra, Nizza, Bruxelles e Berlino. L’accusa: l’élite mondialista “reazionaria” si avvale di settori dei servizi segreti per fabbricare una nuova strategia della tensione, impiegando manovalanza presentata oggi come islamista. Obiettivo: seminare il caos, la paura, perché nulla cambi e il sistema resti com’è, fondato sul dominio della finanza a spese della democrazia.
Olof Palme? Un uomo-simbolo: «Era il padre spirituale del welfare europeo, il sistema di diritti estesi su cui la sinistra moderata e riformista ha costruito il benessere dell’Europa nel dopoguerra: cioè quel sistema contro cui si batte, strenuamente, l’Unione Europea del rigore e dell’austerity». E se non bastano la super-tassazione e l’euro, i tagli alla spesa e il pareggio di bilancio, a “spegnere la luce” sulla democrazia «può intervenire anche il terrorismo». Allora impegnato nel movimento socialista europeo, Carpeoro assistette personalmente a congressi del partito svedese di Palme: era il politico che, più di ogni altro – per capacità, coraggio e autorevolezza – avrebbe impresso un’impronta “sociale” alla politica europea, sbarrando la strada, sul nascere, alla presente Ue degli orrori finanziari. «Un uomo come Palme rappresentava un pericolo mortale, per questa élite: andava tolto di mezzo».
Nel suo libro, pubblicato da “Revoluzione”, Carpeoro sostiene che il pericolo è più che mai vicino: e denuncia il ruolo, in molti retroscena oscuri, del politologo Michael Ledeen, «uomo Cia, esponente nella super-massoneria reazionaria nonché del B’nai B’rith, la massoneria israeliana prossima al Mossad». Secondo Carpeoro, lo stesso Ledeen – definito “vicino” a Philip Guarino all’epoca del messaggio di Gelli alla vigilia dell’omicidio Palme – sarebbe un esponente-chiave della “sovragestione” politica dell’Italia, affidata a potenti apparati. Carpeoro dichiara che Ledeen avrebbe “sovragestito” «prima Craxi e poi Di Pietro, quindi Renzi e, contemporaneamente, il grillino Di Maio». Secondo questa tesi, lo stesso potere occulto manovra – da decenni – per condizionare, a nostra insaputa, il corso degli eventi. L’obiettivo sarebbe sempre lo stesso: sabotare la democrazia, di cui in Europa un leader come Olof Palme sarebbe stato un autentico campione, a danno delle lobby che oggi hanno in mano il bilancio degli Stati, per via bancaria, fino al paradosso della Bce che rappresenta l’unico, vero governo dell’Unione Europea, al riparo da qualsiasi “rischio” democratico.
«Probabilmente l’assassino di Olof Palme è ancora in vita, e nel delitto potrebbero essere coinvolti la polizia o qualche esponente dell’esercito». Lo afferma il noto criminologo Leif Gustav Willy Persson, che ha sempre dubitato della colpevolezza di Christer Pettersson, un criminale di strada inizialmente fermato, ma che apparentemente non aveva motivi per uccidere il premier socialdemocratico svedese, il primo leader europeo a essere assassinato nell’Europa democratica (il secondo sarà il serbo Zoran Dijndic, nel 2003). Un caso tuttora irrisolto, pieno di ombre: comprese quelle che si allungano sulla strana morte dello scrittore Stieg Larsson, colto da malore dopo aver consegnato alla polizia un imponente dossier sui legami tra presunti killer e servizi segreti. «Informa il nostro amico che la palma svedese verrà abbattuta», scrisse dal Sudamerica un certo Licio Gelli, in un messaggio indirizzato a Philip Guarino, esponente repubblicano Usa vicinissimo a George Bush senior e stretto collaboratore di Michael Ledeen, «storico e giornalista le cui vicende sono torbidamente intrecciate con l’intelligence americana», scrive l’avvocato Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, che denuncia il ruolo degli 007 nella strategia della tensione. Una regia occulta, da cui oggi proverrebbero gli attentati in Europa firmati Isis.

Tre giorni dopo quello strano messaggio di Gelli sulle “palme” svedesi in procinto di essere “abbattute”, alle 23,21 del 28 febbraio 1986, Olof Palme venne ucciso da un sicario in una strada centrale di Stoccolma, non lontano dalla stazione. Palme era il leader del partito socialdemocratico, ed era in pima linea nella lotta contro l’apartheid e i regimi autoritari in Sud America. Venne freddato con due colpi di pistola. «Ma soprattutto – aggiunge il newsmagazine “BergamoPost” – l’episodio avvenne lontano dalle telecamere, e senza che il politico fosse seguito dalla scorta, motivo per il quale l’attentatore non fu mai trovato». Un caso che ricorda, da vicino, l’omicidio di Jfk a Dallas. Sempre il “BergamoPost” ha scovato un indizio curioso: l’ultimo a vedere Palme vivo fu un giovane italiano di origini pugliesi, Nicola, che all’epoca aveva 22 anni. Oggi vive nell’hinterland della capitale svedese e ha lavorato nella ristorazione proprio a Stoccolma. La sua testimonianza è stata utilizzata dalla polizia nei giorni successivi, e ha raccontato brevemente l’accaduto anche al giornale online bergamasco. «Ho incrociato i Palme qualche minuto prima dell’omicidio, Olof e la moglie Lisbeth. Dietro la coppia camminava un uomo: ovviamente non sono riuscito a dargli una connotazione, altrimenti sarei stato molto più utile».

Quando si è reso conto dell’omicidio, Nicola? «Ho sentito gli spari in lontananza, poi ho realizzato che poteva essere Palme e mi sono girato, ho guardato per un po’ e poi mi sono rimesso in cammino». L’indagine, ricorda “BergamoPost”, è stata fra le più costose della storia e, con oltre 700mila pagine di documenti accumulati, è la più ampia in tutto il mondo. La polizia interrogò il giovane italiano solo un paio di volte: «La prima alcuni giorni dopo, la seconda l’anno seguente, quando – racconta – mi fecero osservare alcuni sospetti, dei quali non riconobbi nessuno». La ricostruzione degli eventi, resa pubblica nel corso delle indagini, indica come Nicola avesse incrociato la coppia all’altezza del numero 56 di Sveavägen, la stessa via in cui, all’incrocio successivo con Tunnelgatan (dai 2 ai 3 minuti a piedi), Palme venne ucciso e la moglie ferita lievemente. Nicola vide anche, dieci metri più avanti, un uomo con una grossa giacca blu, mentre seguiva con passo spedito la coppia. Dal report della polizia, l’italiano dichiara di aver pensato che si trattasse di una guardia del corpo in borghese, ma che sembrava anche troppo anziano per essere tale. La maggior parte dei testimoni che videro l’attentatore lo descrissero come una persona fra i 35 e i 40 anni. E il primo sospettato, Christer Pettersson, ne aveva 39.

Ma dov’erano le guardie del corpo? «All’epoca, in Svezia non vi erano seri timori di agguati nei confronti di personaggi politici di spicco, e la sicurezza veniva impiegata per lo più in occasione di eventi pubblici», continua “Bergamo Post”. Olof Palme, la moglie Lisbeth, il figlio e la fidanzata di quest’ultimo trascorsero la serata al cinema Grand (sempre su Sveavägen) prima di ritornare a casa. «Mårten Palme, il figlio del primo ministro, riconobbe un uomo all’uscita del cinema, la cui figura poi venne prima associata a Pettersson, poi, in un recente sviluppo, all’agente segreto sudafricano Eugene De Kock, che sarebbe stato individuato dalle telecamere della Svt il giorno dopo all’aeroporto di Stoccolma, particolare che ha ipotizzato un coinvolgimento del Sudafrica nell’uccisione». Ma l’uomo ha negato di essere mai stato in Svezia. All’epoca dell’omicidio, De Kock aveva 37 anni. La sequenza di sangue è nota: il primo ministro e la sua famiglia arrivarono all’incrocio con Tunnelgatan quando l’attentatore si parò di fronte a Palme e lasciò partire due colpi di pistola verso il primo ministro (di cui uno fatale, al petto) e uno che colpì di striscio la moglie. Poi rimase qualche secondo ad assistere alla scena, tanto da essere riconosciuto da Lisbeth Palme (e dal figlio, che lo aveva visto di fronte al cinema prima di tornare a casa con la fidanzata), la cui testimonianza portò dapprima in carcere Pettersson.
 
mano è la stessa
«Lo stesso Pettersson, che in passato era stato condannato per omicidio ed era coinvolto in piccole attività criminali, venne poi scarcerato per mancanza di indizi», aggiunge il giornale online. «Altre quattro persone si trovavano entro una ventina di metri, molto più vicine rispetto a Nicola, ma non riuscirono a identificare l’aggressore, di cui si persero le tracce una volta che egli svoltò sulla scalinata che sovrasta Tunnelgatan». Un caso non ancora risolto, dopo 31 anni. L’arma del delitto non è mai stata trovata, ma si tratta probabilmente di una 357 Magnum. Sigge Cedergren, un malavitoso che temeva Christer Pettersson, dichiarò di aver smarrito quel tipo di pistola e che il principale sospettato sapeva dove era nascosta. Nel 2006, continua “Bergamo Post”, venne ritrovata un’arma simile sul fondo di un lago nella Svezia centrale, ma era troppo arrugginita per poter permettere qualsiasi tipo di ricostruzione. La stessa scena del crimine fu inquinata dai numerosi passanti e curiosi che assistettero all’arrivo dell’ambulanza, e poi da chi lasciò fiori e ricordi di vario genere sul marciapiede. Le indagini sul Dna vennero introdotte solo a partire dagli anni ‘90 e non era possibile, all’epoca, poterle utilizzare.

Christer Pettersson, a sua volta, «è morto nel 2004 in seguito a ferite al cranio mai chiarite». Pochi mesi prima, «si era rivolto a Mårten Palme, dicendo di volerlo incontrare per parlare della morte del padre». Sfortunatamente, «l’incontro non avvenne mai, e la morte di Pettersson mise fine a qualsiasi speranza». Strano, no? L’ex principale sospettato contatta il figlio della vittima ma, prima di portergli parlare, viene ucciso da “ferite al cranio mai chiarite”. Qualcuno sta dunque lavorando nell’ombra, ancora, per impedire che emerga la verità sul caso Palme? Ne è convinto l’avvocato Carpeoro, massone, che denuncia apertamente il ruolo criminale di una parte della massoneria internazionale, al centro di torbidi intrecci e depistaggi come quelli che tuttora inquinano le indagini sul terrorismo finto-islamico che colpisce a Parigi, Londra, Nizza, Bruxelles e Berlino. L’accusa: l’élite mondialista “reazionaria” si avvale di settori dei servizi segreti per fabbricare una nuova strategia della tensione, impiegando manovalanza presentata oggi come islamista. Obiettivo: seminare il caos, la paura, perché nulla cambi e il sistema resti com’è, fondato sul dominio della finanza a spese della democrazia.

Olof Palme? Un uomo-simbolo: «Era il padre spirituale del welfare europeo, il sistema di diritti estesi su cui la sinistra moderata e riformista ha costruito il benessere dell’Europa nel dopoguerra: cioè quel sistema contro cui si batte, strenuamente, l’Unione Europea del rigore e dell’austerity». E se non bastano la super-tassazione e l’euro, i tagli alla spesa e il pareggio di bilancio, a “spegnere la luce” sulla democrazia «può intervenire anche il terrorismo». Allora impegnato nel movimento socialista europeo, Carpeoro assistette personalmente a congressi del partito svedese di Palme: era il politico che, più di ogni altro – per capacità, coraggio e autorevolezza – avrebbe impresso un’impronta “sociale” alla politica europea, sbarrando la strada, sul nascere, alla presente Ue degli orrori finanziari. «Un uomo come Palme rappresentava un pericolo mortale, per questa élite: andava tolto di mezzo».

Nel suo libro, pubblicato da “Revoluzione”, Carpeoro sostiene che il pericolo è più che mai vicino: e denuncia il ruolo, in molti retroscena oscuri, del politologo Michael Ledeen, «uomo Cia, esponente nella super-massoneria reazionaria nonché del B’nai B’rith, la massoneria israeliana prossima al Mossad». Secondo Carpeoro, lo stesso Ledeen – definito “vicino” a Philip Guarino all’epoca del messaggio di Gelli alla vigilia dell’omicidio Palme – sarebbe un esponente-chiave della “sovragestione” politica dell’Italia, affidata a potenti apparati. Carpeoro dichiara che Ledeen avrebbe “sovragestito” «prima Craxi e poi Di Pietro, quindi Renzi e, contemporaneamente, il grillino Di Maio». Secondo questa tesi, lo stesso potere occulto manovra – da decenni – per condizionare, a nostra insaputa, il corso degli eventi. L’obiettivo sarebbe sempre lo stesso: sabotare la democrazia, di cui in Europa un leader come Olof Palme sarebbe stato un autentico campione, a danno delle lobby che oggi hanno in mano il bilancio degli Stati, per via bancaria, fino al paradosso della Bce che rappresenta l’unico, vero governo dell’Unione Europea, al riparo da qualsiasi “rischio” democratico.
 
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Scritto il 21 aprile 2017 by Federico Dezzani
Twitter: @FedericoDezzani


Giovedì sera, a distanza di nemmeno di 72 ore all’apertura delle urne, la Francia è stata vittima di un attentato terroristico dalla forte carica simbolica: un agente di polizia è stato ucciso sugli Champs-Elyées da un presunto affiliato all’ISIS. L’Esagono sceglierà così il prossimo presidente della Repubblica non solo in pieno stato d’emergenza, ma oppresso anche da una cappa di terrore appena rinfocolata: è il coronamento di un’inutile strategia della tensione con cui il sistema euro-atlantico ha cercato di compattare l’elettorato attorno ai propri partiti. La tempistica dell’attentato conferma che Marine Le Pen gode di un ampio margine di vantaggio: la tensione, in Francia e sul piano internazionale, aumenterà costantemente fino al ballottaggio del 7 maggio, ed oltre.

Ultime incertezze dissolte: Marine Le Pen ha la vittoria in pugno…
Niente testimonia meglio la crisi dell’oligarchia euro-atlantica che l’incessante stillicidio di attentati che continua ad insanguinare l’Occidente: attacchi terroristici, più o meno eclatanti, più o meno letali, si sono moltiplicati a partire dal 2015 sino ad occupare le prime pagine dei giornali con cadenza settimanale o, al massimo, mensile. Ogni attentato rimane in primo piano per due o tre giorni, quindi scivola velocemente nel dimenticatoio: permane il senso di inquietudine, ma né la magistratura, né la politica, né i media, hanno interesse a scavare a fondo, ponendosi interrogativi sulle falle negli apparati di sicurezza che permettono a terroristi, tutti puntualmente noti alle forze dell’ordine, di agire indisturbati. Scavando, infatti, scoprirebbero che le falle sono in realtà connivenze e che i terroristi, tutti puntualmente uccisi nel corso dell’operazione, siano in realtà semplici pedine, manovrate, più o meno consapevolmente, dai servizi segreti: nessun ministro dell’Interno si è mai dimesso, nessuna testa è mai caduta dentro la polizia od i servizi, perché sono tutti custodi dello stesso segreto. Non è l’ISIS ad architettare le stragi, ma le varie CIA, MI6, DGSE, Mossad, etc. etc.

Tra tutti i Paesi europei, la Francia è stata oggetto del maggior numero di attacchi terroristici, una sequela quasi ininterrotta che parte nel gennaio 2015 con l’assalto alla redazione di Charlie Hebdo e raggiunge i nostri giorni. Il fenomeno non è casuale: l’Esagono è l’unico Stato, per dimensioni e sistema elettorale, a rappresentare una minaccia strategica per la UE/NATO. La vittoria di un movimento populista è resa possibile dal doppio turno per l’elezione del Presidente della Repubblica ed un Eliseo in mano alle forza anti-sistema, equivarrebbe alla definitiva rottura del motore franco-tedesco ed alla conseguente dissoluzione dell’Unione Europea: parliamo di istituzioni che, dalle sanzioni all’Iran fino al recente bombardamento americano della Siria, passando per il golpe ucraino del 2014, hanno confermato di essere la semplice estensione sul Vecchio Continente di Washington e Londra, il contraltare politico dell’Alleanza Nord Atlantica.

Se l’Italia, grazie al bicameralismo perfetto ed al ruolo del Movimento 5 Stelle come “stampella del potere”, non costituisce un’emergenza; la Francia, in virtù della sua costituzione “monarchica” concepita da Charles De Gaulle, è una mina piantata alle fondamenta del sistema: un Président de la République française “populista” implica il collasso di Bruxelles e dell’intera architettura geopolitica edificata negli ultimi 70 anni. Ne è cosciente Vladimir Putin che, interessato ad allentare la presa angloamericana sull’Europa, prima finanzia il Front National attraverso le banche russe e poi, in vista del voto, “benedice” Marine Le Pen con un ricevimento ad hoc al Cremlino. Nell’ottica dell’élite atlantica, qualsiasi mossa è quindi lecita per impedire l’affermazione di Marine Le Pen, compresa la più classica strategia della tensione.

Se il Front National trae i suoi consensi dall’esplosione della disoccupazione, dal crescente malessere sociale, dalla stagnazione economica, dall’ostilità dei cittadini verso le istituzioni di Bruxelles ed i palazzi di Parigi, si alimenta ad hoc un’emergenza, quella del terrorismo, così da spingere l’elettorato verso i partiti che difendono lo status quo. I benefici che il Front National trarrebbe dal terrorismo islamico (tutti da dimostrare) non sono altro che indesiderati effetti collaterali di questa guerra psicologica, finalizzata a mantenere la società francese in una perdurante cappa di paura, cosicché gli elettori evitino alle urne pericolosi salti nel vuoto ed optino per i partiti filo-establishment. Il fallimento dell’élite e la crisi economica hanno alimentato il Front National, non il terrorismo islamico, e le stesse cause hanno gonfiato il M5S e la Lega Nord in Italia, dove l’ISIS non si è mai “manifestato”: la strategia delle tensione è la disperata e scomposta reazione del sistema alla ribellione della società.

Poche date sono sufficienti per inquadrare l’esplosione del terrorismo in Francia: nell’autunno 2014 l’indice di gradimento del presidente François Hollande e dell premier Manuel Valls tocca i minimi1. Pesa soprattutto l’inefficace lotta alla disoccupazione, in costante peggioramento ed ormai estesa a 5,2 milioni di persone2. Nel gennaio 2015 si consuma il primo atto della guerra psicologica contro la popolazione francese: è l’attentato a Charlie Hebdo che regala ad Hollande un immediato “raddoppio” della sua popolarità3. È un rimbalzo effimero e chi sfoglia freneticamente i veri sondaggi sa che il consenso del governo si sta drammaticamente sfaldando, sotto il peso della crisi economica e sociale: nel novembre del 2015, quando mancano poche settimane alla cruciali elezioni nei dipartimenti, si torna all’attacco con la carneficina del Bataclan e l’attacco allo Stade de France. I giornali affermano che il gradimento di Hollande, capo di una nazione che è ora ufficialmente in stato d’emergenza, è ormai vicino al 50%, ma le urne incoronano il Front National come primo partito di Francia4. L’agonia della presidenza Hollande è ulteriormente complicata dall’adozione di una serie di riforme neoliberiste (legge El Khomri) che mettono sul piede di guerra sindacati e lavoratori: riparte lo stillicidio di attentati, che culmina nel luglio 2016 con la strage di Nizza. Lo stato d’emergenza, vicino alla scadenza, è ulteriormente prorogato: per la prima volta dalla guerra d’Algeria, i francesi sceglieranno il loro presidente della Repubblica in condizioni eccezionali.

Attentati sventati e minacce di nuovi atti terroristici accompagnano la fase finale della campagna elettorale: sebbene la maggioranza dei sondaggi insista nel presentare l’ex-banchiere Rothschild, Emmanuel Macron, come il presidente in pectore, si radica il timore che il ballottaggio del 7 maggio sia conquistato dalle due ali opposte del populismo, la “nera” Marine Le Pen ed il “rosso” Jean-Luc Mélenchon, spianando così la strada dell’Eliseo al Front National. Il timore, riportato dai giornali francesi ed esplicitato dallo stesso Hollande5, è più concreto che mai, considerando che la strategia della tensione, a lungo latente, riemerge quando mancano meno di 72 ore all’apertura dei seggi e lo fa in maniera spettacolare, adoperando come palcoscenico nientemeno che gli Champs-Elysées.

Un pregiudicato 39enne, noto ovviamente ai servizi segreti, apre il fuoco contra una camionetta della polizia ed uccide un agente, prima di essere a sua volta liquidato dalle forze di sicurezza (nessun terrorista del Califfato è mai preso vivo, nonostante il contesto spesso favorevole ad una “neutralizzazione” non letale): curiosamente, l’attentatore era già stato condannato per il tentato omicidio di un ausiliario della polizia nel 2005 e, secondo i conoscenti, mostrava evidenti segni di squilibrio mentale6. Si tratta, come in molti casi analoghi di terrorismo “indotto”, di un individuo facilmente manipolabile, più che di un fanatico religioso. Sulla sua auto abbandonata, sono però rinvenuti “un Corano e fogli scritti inneggianti all’ISIS, così come messaggi di sostegno allo Stato islamico sarebbero stati ritrovati accanto al cadavere7: elementi, uniti alla quasi immediata rivendicazione del Califfato attraverso il consueto Site Intelligence Group, che consentono di “archiviare” il caso quando i due cadaveri sono ancora caldi.



Curioso è anche il profilo della vittima, che sembra appositamente studiato per minimizzare le possibili ricadute dell’operazione a favore del Front National: si tratta, infatti, dell’agente di polizia Xavier Jugelé, iscritto “all’associazione di lesbiche, gay, bi e trans della polizia e della gendarmeria. Aveva un compagno al quale si era unito civilmente ma nessun figlio8”. È, curiosamente, lo stesso elettorato che l’ex-banchiere Rothschild, Emmanuel Macron, sta cercando di conquistare in vista del voto9. Ed è sempre Emmanuel Macron a intervenire per primo, durante l’ultimo confronto televisivo prima del voto, sull’attentato appena avvenuto, asserendo che “cette menace, elle fera partie du quotidien des prochaines années10. L’ultimo assist servito in extremis al candidato dell’establishment.

Che conclusioni si possono trarre da quest’ennesimo atto di guerra psicologica?

  • Marine Le Pen è saldamente in testa nei sondaggi “segreti” e vincerà con ampio margine il primo turno;
  • la strategia della tensione si intensificherà in vista del ballottaggio;
  • ampi spezzoni dello Stato, in primis i servizi segreti, lavoreranno contro la presidenza di Marine Le Pen;
Il 2017 entrerà nel vivo tra poco meno di 48 ore e l’attentato agli Champs-Elysées è solo il chicco di grandine che anticipa la tempesta.



 
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Gotham Shield: il governo USA simulerà un’esplosione nucleare su Manhattan
aprile 22, 2017 Lascia un commento

Zerohedge, Strogo Sekretno 21 aprile 2017

Qualcosa suscita l’interesse degli statunitensi… forse un evento troppo “utile”, indicando che i governativi saltano con lo squalo?
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Qual è il motivo per cui, dopo aver scoperto il Project Gotham Shield, Mac Slavo di SHTFplan avvisa che ora è attivo un osservatorio sulle false flag. L’allarme generale riguarda qualcosa d’importante nell’immediato futuro. Speriamo che sia solo un altro falso allarme, invece di un’altra falsa bandiera. Comunque, un pericolo è vicino. Tenuto conto di tutto ciò che succede nel mondo, è davvero strano scoprire che il governo federale ancora insceni disastri fasulli che ricordano in modo inquietante gli attuali eventi mondiali.
Tra pochi giorni, il 24-26 aprile, inizierà l’operazione Gotham Shield. Nel calendario compaiono esercitazioni congiunte inter-agenzie con FEMA, sicurezza nazionale e una miriade di agenzie dell’ordine e militari. Armi di distruzione di massa, unità chimiche e biologiche saranno presenti nel test di risposta a una detonazione nucleare “simulata” nel centro urbano più importante degli Stati Uniti, nell’isola iconica e densamente popolata di Manhattan e nelle vicine sponde del New Jersey. La possibilità che la più esplosiva falsa bandiera metta fuori controllo, dirotti e ‘converta’ le azioni simulate, è fin troppo reale. Ciò è strettamente legato al meccanismo che molti ricercatori ritengono sia all’opera dall’11 settembre, annidando un attacco sotto falsa bandiera nelle grandi esercitazioni che evocano poteri d’emergenza ed attentati simulati in località effettivamente colpite.
Secondo Voice of Reason: “Dal 18 aprile al 5 maggio 2017, le organizzazioni statali, locali e federali pianificano l’operazione Gotham Shield 2017, esercitazione su una detonazione nucleare nella zona di New York-New Jersey e al confine tra USA e Canada. Tale esercitazione riguarda 4 ordigni nucleari, di cui 2 resi “sicuri” durante l’esercitazione Vital Archer del dipartimento della Difesa USA (DoD), uno da 10kiloton che esplode nella zona di NYC/NJ e uno più piccolo che esplode al confine Stati Uniti-Canada“.
Tra le organizzazioni interessate vi sono:
– Dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti (DoE)
– Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti (DOD)
– Ufficio Nazionale per la Rivelazione Nucleare degli Stati Uniti (DNDO)
– Federal Bureau of Investigation (FBI)
– Agenzia federale di gestione delle emergenze statunitensi (FEMA)
– Comando nordamericano (NORTHCOM)
– Ufficio Direzione dell’Emergenza dello Stato di New Jersey
– Ufficio Direzione dell’Emergenza dello Stato di New York
– Ufficio Direzione dell’Emergenza della Città di New York
Il seguente documento viene fornito dal Nevada National Security Service. Il compito primario del governo è garantire la sicurezza degli Stati Uniti e dei suoi alleati sostenendo la gestione del deterrente nucleare, fornendo la risposta alle emergenze e creando e contribuendo alle iniziative di non proliferazione e controllo degli armamenti.
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Un’operazione congiunta, dal nome in codice Gotham Shield, è prevista per il 24 e 25 aprile. La premessa di questa crisi simulata sarà la detonazione di un ordigno nucleare di 10000 tonnellate sul nord-est del New Jersey. L’impulso elettromagnetico (EMP) causato dalla detonazione dell’ordigno provocherà la disattivazione della maggior parte degli apparecchi telefonici, internet e di altri dispositivi elettronici in un raggio di 20 chilometri dal sito di detonazione. L’operazione Gotham Shield è un’esercitazione congiunta di Servizio di Emergenza Radio Amatoriale (ARES), Servizio Radio Ausiliario Militare (MARS), Dipartimento della Difesa (Dod), Federal Emergency Management Agency (FEMA) e Croce Rossa in NY e NJ. MARS ha sede a Fort Huachuca, in Arizona, sede centrale del Network Enterprise Technology Command dell’esercito statunitense (NETCOM). Strogo Sekretno


Traduzione di Alessandro Lattanzio – SitoAurora

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DC

Trump perde pezzi davanti Pyongyang
aprile 22, 2017 Lascia un commento

Covert Geopolitics 22 aprile 2017
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Eravamo sconvolti sentendo Mike Pence minacciare la Corea democratica, recandosi sul confine più militarizzato sul pianeta, sapendo che una guerra nucleare con quest’ultima sicuramente coinvolgerebbe Cina, Russia ed Asia orientale. Certamente, non tutti gli statunitensi ne sono interessati considerando che, prima che le guerre venissero combattute al di fuori degli Stati Uniti, una guerra con la Corea democratica sarebbe solo tra coreani e forse la carne da cannone statunitense nelle retrovie. Ma Paul Craig Roberts, che nel 1981 fu Assistente del segretario al Tesoro per la politica economica del presidente Reagan, vede la follia della guerra in tutte le sue forme, in ogni luogo in cui si è avuta.
La scomparsa del presidente Trump
Paul Craig Roberts, 20 aprile 2017
Nella mia lunga esperienza a Washington, i vicepresidenti non fanno importanti annunci di politica estera o minacciano di guerra altri Paesi. Neanche Dick Cheney derubò di questo ruolo lo scadente presidente George W. Bush. Ma ieri il mondo ha visto il vice Pence minacciare la Corea democratica di guerra. «La spada è pronta» diceva Pence come se fosse il comandante in capo. E forse lo è. Dov’è Trump? Per quanto possa dire dalle numerose e-mail ricevute da lui, lavora per vendere la sua presidenza. Una volta vinte le elezioni, Trump, ho iniziato a ricevere offerte infinite per acquistare da Trump berretti da baseball, magliette, braccialetti, tazze da caffè e donare 3 dollari per iscrivermi a una lotteria per vincere dei pezzi da collezione. L’ultima offerta è l’occasione di vincere una delle “cinque incredibili fotografie firmate della nostra storica e massiccia inaugurazione”. Per Trump, la presidenza serve a raccogliere fondi. Se i suoi vicepresidente, consigliere per la sicurezza nazionale, ministro della difesa, ambasciatrice alle Nazioni Unite, direttore della CIA, chiunque voglia la guerra ovunque, sono solo altri pezzi da collezione su cui puntare donando 3 dollari. Come conseguenza del fallimento di Trump nel governare il proprio governo, c’è Pence che racconta a Russia e Cina che potrebbe esserci uno scontro nucleare alle loro frontiere tra Stati Uniti e Corea democratica. Anche se Pence non è abbastanza intelligente da saperlo, non è cosa che Russia e Cina accetteranno. Washington si preoccupa delle armi nucleari della Corea democratica, ma il mondo teme le armi nucleari di Washington. E tanto. Sondaggi mondiali mostrano che la maggioranza della popolazione mondiale è molto più preoccupata dalla minaccia alla pace posta da Washington e Israele che da Iran, Corea democratica, Russia e Cina. Pence ha preceduto la frase “la spada è pronta” con “gli Stati Uniti d’America cercheranno sempre la pace”, che dopo Serbia, Somalia, Afghanistan, Iraq, Libia, Yemen, Pakistan e Siria è la più falsa delle dichiarazioni possibili da fare. Per Washington, le sue vittime sono “sconsiderate e provocatricii”, mai Washington. Gli Stati Uniti sono la guerra. Se il mondo viene guidato all’Armageddon, sarà Washington, non Corea democratica, Iran, Russia o Cina, che metterà fine alla vita sulla terra“.
Perché gli Stati Uniti continuano a provocare i nordcoreani quando la penisola coreana starebbe meglio se lasciata da sola a risolvere le differenze, come prima che gli Stati Uniti applicassero ogni sorta di pressione politica contro l’amministrazione pro-USA di Park? La Corea del Sud compie un passo enorme verso la riunificazione con il Nord. Come abbiamo detto giorni fa, il recente test missilistico fallito dei nordcoreani potrebbe essere stato causato da un’arma elettronica a bordo di una nave da ricognizione russa che avrebbe ombreggiato, insieme a una controparte cinese, l’USS Carl Vinson, il giorno del test. Ogni nave da ricognizione è dotata di potenti radar che potrebbero essere utilizzati per emettere frequenze radio che disattiverebbero i comandi di qualsiasi missile o aereo. In risposta a quest’ultima provocazione statunitense, la Cina ha condotto un’esercitazione di tiro reale con varie armi da un nuovo cacciatorpediniere nel Mar Giallo, al confine occidentale della Corea democratica. Incidentalmente, un pilota statunitense dell’USS Carl Vinson si eiettava dal suo F-18 nel sud del Mar di Celebes, Filippine. Il sistema radar della Cina sulle Spratly ha sabotato i controlli dell’F-18 questa volta? È questo il motivo per cui Trump non si mostra, per evitare l’umiliazione, come suggerisce il cammino erratico dell’USS Carl Vinson? Dove va? L’USS Carl Vinson rintracciata vicino l’Indonesia, non la penisola coreana. (Sputnik) L’USS Carl Vinson doveva dirigersi verso la penisola coreana la settimana scorsa, per proiettare la potenza del Pentagono, ma invece è apparsa a migliaia di chilometri di distanza. (Sputnik).
La superportaerei statunitense dispiegata dal presidente Donald Trump per dissuadere la Corea democratica non ha raggiunto il Mar del Giappone perché i funzionari della Casa Bianca e del dipartimento della Difesa non comunicano efficacemente, secondo i media. (Sputnik). Veramente? Con un potente mix di pessima comunicazione e confusione generale sull’USS Carl Vinson, il comandante del gruppo affermava su facebook che la nave estenderà lo schieramento a “una presenza persistente” nella penisola coreana. (Sputnik) Ciò significa che il Pentagono si agita per una migliore PR da dare ai media mentre in realtà perde il controllo dei pedoni imperiali nell’Asia orientale. Le due Coree vogliono legami migliori; i colloqui di pace tra Russia e Giappone sono intempestivi, dichiarano gli Stati UnitiLa Corea del Sud rifiuta la provocazione del Pentagono contro la Cina.
La Corea del Sud sta per eleggere un nuovo presidente che sarà amichevole verso il Nord. Indagata l’imprevedibile fantoccio degli USA Park Chung-hee, avanza il progressista vicino alla Corea democratica Moon Jae-in.

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Moon Jae In

Traduzione di Alessandro Lattanzio – SitoAurora
 

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