La cattiva infermiera
di
Toni Capuozzo
Oggi voglio distrarre me stesso e voi raccontandovi una storia legata a un altro dramma ( i drammi degli altri sono più facili da sopportare).
Mi è venuta in mente quando mi sono reso conto che l’altro ieri, il 14 aprile,
era l’anniversario della morte di Fabrizio Quattrocchi in Iraq.
Avrei potuto e dovuto ricordarlo, ma l’ho già fatto tante volte, sin dall’inizio, in una della molte battaglie perse del mio giornalismo.
Da lì ho pensato agli ospedali iracheni: i primi, quando c’era ancora Saddam, e ti portavano a vedere le conseguenze dell’embargo americano sui malati.
Ma nel nuovo secolo non avevo molti ospedali nei taccuini, a parte quelli da campo militari e quello, che fu per me un’oasi,
della Croce Rossa italiana a Baghdad, che in un primo momento fu da campo e poi andò a occupare un piano di un ospedale iracheno,
curando i grandi ustionati (l’oasi ? Andavo a trovare il mio amico Enrico Santinelli, che aveva una scorta di salami proibiti,
e mi preparava un panino che aveva il profumo di casa). E poi non ricordo altri ospedali.
Mi ricordo le ambulanze sui luoghi degli attentati, gli americani che arrivavano sul posto in cui una roadside bomb aveva colpito qualcuno dei loro,
con le iniezioni di morfina già in mano, ma non gli ospedali. E neppure medici o infermieri.
Così il pensiero si è spostato su Israele, e le ambulanze sui luoghi degli attentati terroristi,
con i volontari di un’organizzazione ortodossa che raccoglievano ogni brandello di vita, o di morte.
Ma anche lì, non sono mai andato negli ospedali.
Solo funerali, che da una parte diventavano lamenti, o un picchetto che sparava per omaggiare il commilitone ucciso.
Dall’altra diventavano manifestazioni e c’era da stare attenti ai proiettili di kalashnikov in ricaduta..
Ho pensato a medici e infermieri, e mi è tornata in mente lei, l’infermiera cattiva.
Ora ogni categoria ha le sue pecore nere –anche i medici e gli infermieri che sono gli eroi di questi giorni- e i giornalisti e gli avvocati.
Ma Wafa Idris, 28 anni, non fu protagonista di una storia di cronaca nera,
come certe infermiere che dalle nostrte parti uccidevano i pazienti per turbe psichiche.
No, lei fu una lucida militante, e fu la prima donna terrorista suicida, il 27 gennaio del 2002, tanto che Time le dedicò una copertina.
I terroristi suicidi – che molti miei colleghi si ostinano a chiamare kamikaze, insultando la memoria di militari giapponesi
che si uccidevano e uccidevano militari, non civili, nelle pieghe di una guerra – sono stati una piaga, all’inizio di questo secolo,
suturata da quel cerotto orrendo che è il muro di separazione.
Una barriera di cemento che ha diviso vite e uliveti, attratto fotografi, senza però che mai nessuno notasse
come la costruzione del muro abbia ridotto, quasi azzerato, il numero degli attentati.
I sostenitori della causa palestinese(non dei diritti dei palestinesi, che sono cosa diversa)
sostengono che lo scemare degli attentati è figlio di un ripensamento, di un cambio di strategia delle organizzazioni militanti palestinesi.
A lungo, come potete immaginare, il terrorismo suicida è stato un incubo per gli israeliani.
C’era un montatore, un ebreo argentino di nome Michael, con cui lavoravo, che aveva due figli in età scolare.
Li mandava a scuola, quando non poteva accompagnarli, su due autobus diversi della stessa linea, prima uno poi l’altro,
anche se la scuola era la stessa, per non perdere, nel caso, entrambi i figli.
Alla fine di marzo del 2002 ero in Israele. Non ricordo dove avessimo in mente di andare, io e Garo, l’operatore armeno che per me è come un fratello.
So che c’è un modo di dire cinico ma efficace, tra gente che fa questo lavoro e deve correre dove c’è stato un attentato o è scoppiata una bomba, o un missile:
devi essere abbastanza vicino da arrivare presto, prima che sigillino la scena, e abbastanza lontano da non esserne colpito.
Viaggi con la radio accesa, e i finestrini sempre un po’ abbassati per sentire meglio sirene o esplosioni.
Se si tratta di un bombardamento aereo, c’è una colonna di fumo che ti guida come una tragica stella cometa, un ago magnetico nella bussola della guerra.
Quel giorno eravamo abbastanza vicini, e arrivammo sul luogo, l’ingresso di un supermercato, che ancora dovevano tendere i nastri della scena del crimine.
Si vedevano ancora dei corpi a terra, e i barellieri affannarsi, fino a quando le ambulanze hanno coperto la visuale dell’orrore.
Naturalmente non sapevamo nulla, e non avremmo saputo per ore chi era l’attentatore e chi la vittima, o le vittime.
Con il passare delle ore si capì che una vittima era il vigilante che stava davanti al mercato,
Un ruolo non da prima linea, aveva 55 anni e si chiamava Haim Smadar.
E per qualche ora ancora continuò a girare la voce che gli altri due corpi, due ragazze, fossero quelli di due attentatrici suicide, o maldestre.
Poi venne fuori che una era Ayat al Akhras, la terrorista di 18 anni, e l’altra Rachel Levy, una diciassettenne che stava entrando nel supermercato
per comprare qualcosa, e non era stato facile distinguere l’una dall’altra.
Nei giorno successivi le indagini appurarono che Ayat era stata accompagnata in auto nei pressi del suo bersaglio da un’altra militante,
che aveva lavorato proprio in quel supermercato.
Prima di dirigersi verso l’entrata aveva mormorato qualcosa a due donne palestinesi che vendevano le loro verdure davanti al market, e queste si erano allontanate.
La cosa aveva insospettito il vigilante, che cercando di fermare Ayat aveva salvato molte vite, ma non quella di Rachel Levy, e la sua propria.
Quello che era seguito apparteneva a un copione ormai consolidato: la rivendicazione, la messa in onda di un testamento video della terrorista,
i parenti che celebrano il martirio (davanti alle case vengono offerti dolcetti come per una festa, qualcuno lancia parole d’ordine,
le madri trattengono le lacrime trasformandole in un sorriso d’ordinanza, a mostrare la fierezza di avere un figlio martire).
La casa verrà poi distrutta dai bulldozer israeliani, come impotente mossa a frenare i terroristi suicidi.
E le famiglie riceveranno per sempre una specie di pensione dall’organizzazione militante,
in questo caso le Brigate Al Aqsa, legate a Fatah, il movimento di Yasser Arafat.
L’unico dettaglio diverso dal copione fu che le autorità israeliane, due anni dopo, restituirono il corpo di Ayat alla famiglia, che potè celebrare dei funerali.
E che un documentario raccontò la storia delle due madri, il microcosmo dolente di una tragedia collettiva.
C’erano per me, però, due cose indimenticabili: il fatto che la terrorista avesse ucciso, per caso, una sua coetanea.
Che le due ragazze addirittura si somigliassero: minute, capelli bruni.
E il fatto che, nel campo profughi di Deheishe a Betlemme,, dove era cresciuta, in una famiglia di quattro maschi e sette femmine,
si fosse rivelata una brava studentessa e sognasse di fare la giornalista.
Un fratello maggiore era stato arrestato due volte durante la prima intifada, e una ventina di giorni prima dell’attentato
un vicino di casa era stato ucciso da un proiettile vagante, sparato dagli israeliani.
Cercai di dimenticare quelli che sapevo essere i commenti italiani – ecco dove porta la disperazione, eccetera –
mi interrogai su quella passione, il giornalismo, che non era riuscita a distoglierla dal terrore
e mi arresi davanti alle convinzioni religiose che sempre accompagnano l’ultimo messaggio del terrorista suicida.
Però cercai di capire chi erano le altre due.
Perché Akhras era la terza donna suicida, in quell’inizio del 2002.
La seconda era stata Darin Abu Aysheh, 21 anni.
Si era fatta saltare a un posto di blocco israeliano nei territori occupati.
Era cresciuta in un villaggio vicino a Nablus, e studiava in quella università.
Aveva lasciato un messaggio molto bellicoso: “Il codardo Sharon sappia che ogni donna palestinese partorirà un esercito di martiri,
e il suo ruolo non sarà solo quello di accudire a un figlio, un marito, un fratello, ma di diventare anch’essa martire”.
I fratelli – sette sorelle e due fratelli – la descrissero come molto religiosa, e dissero che alla vigilia del martirio trascorse lunghe ore a recitare il Corano.
Uscì di casa senza aver mangiato, senza salutare in modo particolare la madre, si avvicinò in auto a un posto di blocco, scese,
e si fece saltare, provocando solo il ferimento di quattro militari israeliani. L’operazione era stata preparata da Hamas.
Il 2000 avrebbe dovuto essere, come ovunque, un anno beneaugurale del secolo, e in quelle terre si registrarono solo 5 attentati.
Nel 2001 furono 40. Il 2002 avrebbe superato quella cifra, ma sarebbe stato ricordato perché il 27 gennaio
il secondo attentato dell’anno sarebbe stato compiuto da una donna, Wafa Idriss, la prima donna a buttare la propria vita pur di uccidere il nemico,
facendosi esplodere nel mucchio. Wafa aveva 28 anni, passati nel campo profughi di Amari, vicino Ramallah.
Aveva appena 12 anni al tempo della prima intifada e si era impegnata in un lavoro di assistenza umanitaria,
distribuzione di cibo, assistenza alle famiglie dei prigionieri. Si era sposata con un cugino a soli sedici anni (entrambe le cose non sono così rare, in quella società).
Aveva faticato a diventare madre: restò incinta a ventitrè anni, ma perse il bambino in un aborto spontaneo.
Probabilmente in conseguenza a questo, il marito aveva divorziato, e lei era tornata a vivere con la madre e il fratello.
E aveva preso a fare servizio volontario con la Mezzaluna Rossa, seguendo dei corsi di formazione e prestando la sua opera specie il venerdì,
quando dopo la preghiera, c’erano gli scontri (non sorprenda: era un appuntamento fisso per noi delle televisioni e per i fotografi, come un’agenda).
Idriss quel 27 gennaio 2002 riuscì a raggiungere il centro di Gerusalemme, Jaffa Road, una specie di Corso Buenos Aires a Milano.
Portava l’esplosivo in uno zainetto, invece che legato al corpo. Uccise, oltre a se stessa, solo un anziano di 81 anni, e ferì 100 persone.
La tecnica dello zainetto, il fatto che non avesse lasciato alcun testamento video,
lasciò per un po’ l’ incertezza se fosse davvero la prim terrorista suicida o solo una terrorista morta sul lavoro.
Ma le brigate di Al Aqsa rivendicarono l’operazione , con qualche giorno di ritardo: come se ci fosse stata incertezza e discussione sul ruolo della donna,
su questa grottesca raggiunta parità di genere. La sua famiglia dichiarò che, da infermiera, aveva visto troppo ragazzini feriti e uccisi durante le sassaiole,
in quell’impari scontro tra ciottoli e proiettili di gomma che spesso uccidevano.
La stampa araba parlò di lei come di una donna ferita dalle violenze del nemico:
“che si è fatta esplodere, e con lei ha fatto saltare tutti i miti sulla debolezza la sottomissione, la schiavitù delle donne”.
Neanche una parola, ovviamente, sull’ottantunenne, vittima collaterale di questi gloriosi traguardi.
Nel giro di due mesi, le altre due ragazze ne avrebbero seguito l’esempio: la cattiva infermiera, o l’infermiera cattiva,
un lavoro che presuppone la compassione e la cura delle sofferenze altrui come una qualifica professionale, aveva fatto scuola.
Torneremo al virus un’altra volta, e teniamoci stretti i nostri infermieri.