Macroeconomia Quale Futuro per le banche? (2 lettori)

mostromarino

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L'OPINIONE
UBS e la trappola americana
Paolo Bernasconi *
Il Procuratore Pubblico Alexander Acosta ha firmato il 18 febbraio l’accordo mediante il quale UBS si impegna davanti al Governo americano di mettere a disposizione una serie di nominativi di suoi clienti statunitensi, riconoscendo di avere commesso in modo continuativo dal 2000 al 2007 violazioni per frodare gli Stati Uniti e le sue istanze amministrative.

Il giorno dopo, lo stesso Procuratore Acosta firma un’istanza di fronte allo stesso Tribunale a Miami, chiedendo di obbligare UBS a fornire tutti i nomi dei contribuenti statunitensi che hanno beneficiato dell’appoggio della banca per violare i propri obblighi fiscali americani.
Quale principale motivazione per convincere il Tribunale di Miami viene allegata la lunga confessione firmata da UBS il giorno prima davanti allo stesso Tribunale.
Il decreto John Doe
Il 1. luglio 2008 il Tribunale di Miami aveva emanato un decreto a carico di UBS che nel gergo giudiziario americano viene denominato «John Doe».
Si tratta di un tipico provvedimento procedurale, mediante il quale il tribunale ordina al destinatario di mettere a disposizione documenti oppure informazioni, avvertendo che il destinatario si espone ad una sanzione qualora non dovesse adempiere al decreto.
Simili provvedimenti appartengono alla prassi giudiziaria anche di molti altri paesi, Svizzera compresa.
Nel caso dell’UBS, il decreto rappresentava una novità storica, poiché per la prima volta veniva notificato ad una banca avente la sua sede centrale fuori dagli Stati Uniti.
Ciò non impediva però, secondo il Tribunale di Miami, che UBS dovesse fornirgli la lista di tutti i contribuenti americani sospettati, indipendentemente dal paese in cui costoro avessero depositato i propri averi rispettivamente aperto il proprio conto.
Bastava che il conto fosse stato aperto presso una banca appartenente al Gruppo UBS.
Un’altra particolarità era costituita dal fatto che UBS veniva obbligata a produrre informazioni non riguardo ad un gruppo di persone ben identificate con nome e cognome, bensì riguardo ad una categoria di persone.
La categoria venne individuata come quella delle persone che erano sospettate di avere violato le norme fiscali americane.
A sostegno del decreto emanato il 1. luglio 2008, il Tribunale aveva ricevuto un’importante serie di mezzi di prova che diverse autorità americane avevano raccolto durante anni di osservazione delle attività di funzionari di USB sul territorio americano, cui si erano aggiunti documenti messi a disposizione da diverse agenzie governative, nonché la deposizione auto-accusatoria dell’ex dirigente di UBS Bradley Birkenfeld.
Il rapporto di oltre cento pagine della Commissione senatoriale d’inchiesta pubblicato il 7 luglio 2008 rese accessibili mondialmente i mezzi di prova a carico di UBS.

Confrontato con la gravità del provvedimento e specialmente con la gravità del pregiudizio che un simile provvedimento poteva rappresentare nel futuro, il Governo svizzero rammentò agli Stati Uniti l’esistenza di un accordo fra i due Stati che, appunto, disciplinava le modalità di raccolta sul territorio svizzero di informazioni necessarie per l’autorità fiscale americana.
Si tratta della Convenzione contro la doppia imposizione stipulata nel 1956, che venne riveduta nel 1996 dopo anni di negoziati.
La Convenzione, analogamente a tutte quelle stipulate dalla Svizzera con quasi un centinaio di paesi, contiene una clausola che disciplina in particolare lo scambio di informazioni fra le autorità fiscali dei due paesi.
L’iniziativa diplomatica ebbe successo: il Tribunale di Miami accettò di sospendere l’intimazione del decreto «John Doe».
Pertanto, il decreto non diventava esecutivo. In questo modo si voleva dare il tempo alle autorità svizzere di esaminare le domande presentate da parte dell’agenzia fiscale americana (IRS) all’Amministrazione federale delle contribuzioni, in data 7 agosto 2008.
In alcuni casi, l’Amministrazione fiscale svizzera accettò la tesi americana e obbligò UBS a produrre i documenti riguardanti determinati contribuenti americani e decise di trasmetterli al fisco americano.
I contribuenti però interposero ricorso al Tribunale federale amministrativo, facendo valere numerose obiezioni.
Il Tribunale federale amministrativo sta ancora esaminando questi ricorsi: la sentenza potrebbe essere pronunciata nel prossimo mese di aprile.
Troppo tardi per le autorità americane; per cui riuscirono a indurre UBS a firmare l’ormai storico accordo del 18 febbraio scorso.
Ed ecco quella che, salvo nuove rivelazioni, rappresenterebbe una sorpresa: il giorno successivo, lo stesso Procuratore Acosta chiede allo stesso Tribunale di Miami di riattivare l’esecutività del suddetto decreto emanato il 1. luglio 2008.

Nel decreto di allora, come nel decreto di ieri, non figura il nome di nessun un cliente, bensì semplicemente una categoria di clienti.
Ma non figura nemmeno il numero. Dal momento che questo numero (52.000) circola sulle prime pagine del Wall Street Journal e del Financial Times è facile ritenere che alla cifra di ventimila clienti menzionata nel Rapporto della Commissione senatoriale americana l’efficientissimo fisco USA ne abbia aggiunti ancora circa trentamila.

La Forza e il Diritto
Lex americana: così si chiama l’art. 161 del Codice penale svizzero che punisce l’insider trading, perché il Parlamento svizzero lo aveva approvato in fretta e furia per salvare alcune banche svizzere da pesanti multe che, mesi prima, il Procuratore Pubblico Morgenthau di New York aveva imposto a causa del rifiuto di fornire il nome di clienti che dalla Svizzera avevano ordinato operazioni sospettate come frutto di insider trading. Così, il 1. luglio 1988, entrò in vigore l’art. 161 CPS (Il Diritto), dopo che l’Associazione Svizzera dei Banchieri aveva trovato una soluzione per soddisfare le richieste americane senza violare il segreto bancario, attraverso la famosa Convenzione XVI.
Fu poi la volta del procedimento contro Marc Rich, residente a Zugo, che venne salvato dall’ordine di consegnare informazioni alle autorità fiscali americane da un ordine di sequestro del Ministero Pubblico della Confederazione.
Fu la SEC, anni dopo, a subire addirittura un blocco per alcuni anni da parte del Tribunale federale riguardo alla trasmissione di informazioni da parte dell’allora Commissione federale delle banche (oggi FINMA) a favore dei procedimenti amministrativi americani per sospetto insider trading.
Tutti successi della diplomazia elvetica nel tentare di ricondurre sui binari della norma giuridica e di procedure garantiste quanto estenuanti, l’irruenza del pragmatismo statunitense.
Anche questa volta la diplomazia svizzera ha lavorato molto. Ma invano: poiché la Forza ha capito che molti, troppi, usavano il Diritto per farsi beffa del gigante USA, il quale ha a disposizione, oltre alle multe colossali, anche la revoca del riconoscimento nei confronti di UBS della qualifica di Qualified Intermediary (QI), grazie alla quale circa settemila banche straniere possono operare in territorio americano, specialmente sulla Borsa americana.
La revoca di questo riconoscimento avrebbe risultati disastrosi per una banca di dimensioni internazionali
. Ne sa qualcosa la LGT del Liechtenstein, dove, per evitare la revoca della licenza, il prezzo finora pagato è stato quello di un Trattato, imposto dagli USA al Liechtenstein nel dicembre scorso, in base al quale il fisco americano ha facoltà di ottenere informazioni e documenti bancari riguardanti contribuenti statunitensi non solo per il perseguimento della frode e della sottrazione fiscale, ma anche per completare gli accertamenti in vista della tassazione.
* Avvocato, Lugano
21.02.09 01
 

mostromarino

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è bello ma noioso,lo consiglio solo a chi interessato al problema specifico

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COMMENTO – Segreto bancario
Linea debole per rischi molto forti
Alfonso Tuor
La vicenda giudiziaria di UBS negli Stati Uniti non si è chiusa con l’accordo annunciato mercoledì notte dal Consiglio federale.

La conferma è giunta giovedì sera: il Dipartimento della Giustizia americano ha intentato una causa in Florida in cui accusa la maggiore banca svizzera di aver violato le leggi americane sulla sicurezza e di aver aiutato 52.000 contribuenti americani ad evadere le tasse costituendo finte società offshore.

L’esito di questo procedimento potrebbe essere pesantissimo: se UBS venisse giudicata responsabile di questi reati, le verrebbe tolta la licenza di intermediario finanziario qualificato indispensabile per operare negli Stati Uniti.

In pratica, si arriverebbe alla stessa conclusione che la FINMA (l’Autorità federale di sorveglianza sui mercati finanziari) e il Consiglio federale si sono proposti di scongiurare piegandosi al diktat americano.

È purtroppo verosimile che lo sbocco del procedimento sia proprio questo.

Ora si impongono alcune considerazioni sulle intenzioni di Washington e sulla linea di difesa del segreto bancario adottata dal Consiglio federale.

È difficilmente contestabile che gli Stati Uniti stiano usando la vicenda UBS per scardinare il segreto bancario svizzero.

È pure evidente che il comportamento arrogante e pressapochista di UBS abbia offerto a Washington un’occasione d’oro da cogliere.

E ciò non riguarda solo l’attività ai tempi di Marcel Ospel, ma anche quella della nuova dirigenza che ancora poco più di due mesi orsono ha sottratto team di consulenti finanziari a Goldman Sachs e a Merrill Lynch a suon di bonus milionari, dimostrando di non capire la portata dei suoi problemi politici e giudiziari negli Stati Uniti. In questo modo il segreto bancario svizzero è diventato una specie di ostaggio della vertenza di UBS con le autorità fiscali americane.


In questa trappola, ed è l’aspetto più preoccupante, sono caduti pure la FINMA e il Consiglio federale. Berna mercoledì scorso ha avallato la sottoscrizione di un accordo che non concludeva la vertenza.

Al contrario, l’accordo dice esplicitamente che esso «non pregiudica le iniziative di qualsiasi tipo di altre agenzie statunitensi».

Ed è quanto il Dipartimento della Giustizia americano ha immediatamente fatto.

Questi pericolosissimi sviluppi mettono in discussione la linea seguita fin qui dal Consiglio federale e dalle autorità di vigilanza delle banche:

identificare le sorti della Svizzera con quelle di UBS,




per cui il segreto bancario diventa ostaggio della vertenza giudiziaria di UBS negli Stati Uniti e l’intera Svizzera sta diventando ostaggio della banca.

Questa politica si sta rivelando sempre più debole e priva di risultati.

Essa è cominciata in ottobre con la decisione di salvare la banca dal fallimento con un prestito di 6 miliardi di franchi della Confederazione e con il trasferimento di 60 miliardi di dollari (poi ridottisi a 39,1 miliardi) di titoli tossici della banca ad un fondo finanziato e ora anche detenuto dalla Banca Nazionale Svizzera.

Quella scelta non era l’unica possibile.

Le altre vie erano lasciare che UBS venisse acquisita da terzi (ed ora si sa che ce ne erano alcuni interessati) oppure, per salvaguardare la sua elveticità, la Confederazione avrebbe potuto usare quei soldi pubblici per acquisire la parte sana della banca (attività commerciale, retail e gestione patrimoniale), lasciando che le attività negli Stati Uniti, in primis l’investment banking, si sottoponessero al giudizio del mercato.


A partire da quella discutibile scelta le sorti di UBS si sono invece sempre più degradate fino al punto di mettere ora in forse il futuro stesso del segreto bancario e quindi della piazza finanziaria elvetica.

Queste scelte sono state presentate come inevitabili e senza reali alternative.


Questa è una tesi molto discutibile. Da più parti sono stati inoltre criticati e giudicati poco sostenibili i legami tra il consigliere federale Hans Rudolf Merz (ex dipendente di UBS), Eugen Haltiner (ex direttore di UBS), presidente di una FINMA che ha svolto un ruolo di primo piano in queste vicende, e la banca e soprattutto l’ex presidente di UBS Marcel Ospel.

Si impongono ora alcune conclusioni.

I risultati finora conseguiti inducono a ritenere che si sia incrinata la fiducia nelle autorità che hanno finora determinato la politica della Confederazione e delle sue diverse autorità verso UBS.

L’attuale vertenza americana non rimette in forse solo il futuro del segreto bancario, ma anche le possibilità di sopravvivenza di UBS.


In secondo luogo UBS ha messo malauguratamente in una posizione di grande difficoltà il nostro Paese in un momento in cui si giocherà una battaglia decisiva sul futuro del segreto bancario.

Il campo di battaglia sarà il G20, che sta preparando le nuove regole del settore finanziario e che nelle prime bozze di risoluzione del vertice, che si terrà il prossimo 2 aprile a Londra, prevede la chiusura dei paradisi fiscali e l’abolizione del segreto bancario per i non residenti.

In questo ambito né la Svizzera né gli altri Paesi, come Austria, Belgio e Lussemburgo, che finora l’hanno sostenuta, sono presenti.

Mentre l’attacco statunitense, sicuramente condiviso dal presidente Barack Obama, esplicita chiaramente la posizione americana che è sostenuta dai principali Paesi europei (Germania, Francia, Italia e Gran Bretagna).

La difesa del segreto bancario non può più essere condotta invocando soltanto questioni giuridiche formali, come il Trattato sull’imposizione del risparmio sottoscritto con l’Europa e gli accordi firmati con gli Stati Uniti: gli eventi di questi mesi hanno evidenziato che gli Stati più forti sono pronti a calpestare le regole formali pur di far prevalere i loro interessi.

La Svizzera deve dunque cominciare a chiedersi se vuole impegnarsi in una battaglia campale (ad esempio ancorando il segreto bancario nella Costituzione) oppure trovare un compromesso con i Grandi del mondo


. È comunque certo che questa vicenda americana di UBS restringe ulteriormente i nostri margini di manovra.
21.02.09 01:07:10
 

mostromarino

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EDITORIALE – Crisi
La Svizzera e la nuova Versailles
Giancarlo Dillena
Novant’anni fa, in questi mesi, si teneva a Versailles la Conferenza voluta per definire quello che oggi si chiamerebbe «il nuovo ordine mondiale» sulle macerie della Grande Guerra. C’erano tutti: le potenze europee vittoriose, gli USA assurti a nuovo status internazionale, le entità emerse con il crollo degli imperi tedesco, austro-ungarico e ottomano. Nei disegni del presidente statunitense Wilson quella era l’occasione per creare uno spirito nuovo, con regole nuove per dirimere i futuri conflitti, nel segno della pace e della diplomazia. Uno spirito che sarebbe stato incarnato dalla Società delle Nazioni, da lui fortemente voluta. Per le potenze europee si trattava soprattutto di trarre il massimo vantaggio possibile a detrimento degli sconfitti, cui imporre sanzioni e umiliazioni, e di spartirsi il bottino coloniale. Nei fatti, sull’idealismo di Wilson prevalse questa seconda visione. Come andò poi a finire, ahimé, lo sappiamo bene.
Il prossimo G20 di Londra non sarà una riunione di vincitori ma di Ppaesi in piena guerra, che hanno subìto e subiscono devastanti rovesci da un nemico comune che ognuno si ritrova in casa, la crisi finanziaria e la recessione che la sta seguendo. L’obiettivo è anche qui di stabilire un «nuovo ordine mondiale», stavolta in materia finanziaria. Quello che viene da chiedersi è fino a che punto alle buone intenzioni proclamate corrisponda una effettiva volontà di cercare nuovi equilibri nel rispetto dei diversi attori sulla scena. E in quale misura, invece, si prepari un rinnovato balletto di interessi particolari, con qualche capro espiatorio da sacrificare, ufficialmente sull’altare di un assetto più stabile della finanza internazionale, ma in realtà per mettere le mani sul bottino che rappresenta (una primaria piazza finanziaria).
Come dopo Versailles la pace si rivelò per alcuni più difficile e gravida di conseguenze della guerra appena conclusa, così dopo l’imminente appuntamento londinese c’è chi rischia di fare più di altri le spese non solo dei propri problemi, ma anche di quelli altrui. La Svizzera sembra candidata a questo poco invidiabile ruolo. E stavolta non c’è neppure un Wilson a cui appellarsi. Anzi, la prima minaccia viene proprio da quegli Stati Uniti a cui ha a lungo guardato come ad un amico e che ora – per la seconda volta dopo la vicenda dei cosiddetti «fondi ebraici» (e ancora una volta sotto un’amministrazione democratica) – scopre schierata, con tutta la sua potenza, contro il piccolo Paese di Guglielmo Tell. La verità è che nei rapporti internazionali, sia in pace che in guerra, non ci sono amici ma solo soci in affari per interessi comuni o alleati contro un comune nemico, pronti comunque a cambiare sponda non appena il vento spira in un’altra direzione.
Questo ci condanna alla parte della vittima di turno? La partitita non è così semplice, per fortuna. Anche lo schieramento dei nostri antagonisti, pur impressionante, è tutt’altro che immune da divergenze e conflitti di interesse. Agli Svizzeri di muoversi con prudenza, accortezza e intelligenza su questa complessa scacchiera. Evitando da un lato irrigidimenti, dettati da pur comprensibili sussulti d’orgoglio, ma poco realistici ed efficaci in un mondo globalizzato in cui chiudersi in un illusorio, rinnovato Ridotto nazionale vorrebbe dire isolarsi e quindi farsi ancor più male. Ma evitando anche di cullarsi in illusioni opposte, come quella legata agli effimeri benefici che può dare in termini di immagine qualche minuta partecipazione ad operazioni di polizia internazionale in mari lontani.
Mesi difficili e delicati attendono la nostra diplomazia – quella istituzionale e quella del mondo finanziario. Un tempo erano note per essere tanto discrete quanto abili ed efficaci, in sintonia con una Svizzera consapevole dei propri limiti al cospetto delle grandi potenze, ma anche delle proprie risorse in termini di capacità, serietà, rigore, efficienza, qualità. Oggi, dopo gli eccessi innescati dalle ambizioni megalomani di certuni e di fronte alla fragilità di molta classe politica, si possono avere dubbi non infondati sulla capacità di condurre con successo un’azione diplomatica così complessa e sensibile.
Ma dietro le debolezze resta un Paese che ha ancora le risorse e la forza di farsi apprezzare per quello che vale e può offrire. Facendo appello a queste risorse, affidandole alla guida di persone che le sappiano mobilitare, valorizzare ed esprimere – dopo aver messo da parte chi ne è la negazione vivente – sarà possibile uscire anche da questa crisi e avviare il processo di rilancio della piazza elvetica (non solo finanziaria). Un cammino di ricostruzione che si annuncia lungo, faticoso, pieno di curve insidiose. E tutto in salita. Ma che è l’unica strada praticabile. Che non dovrebbe però spaventare un paese che ha costruito la sua storia, i suoi valori e il suo benessere ancorandoli alle granitiche cime delle Alpi.
27.02.09 07:26:49
 

stockuccio

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ARTICOLO DI CAMILLA CONTI E LORENZO DI LENA

Cosa succederebbe se lo stress test sulla solidità patrimoniale delle banche Usa fosse applicato anche per le big del credito italiane? Guardando i numeri rischierebbe di trasformarsi in un crash test da cui, con l’eccezione di Ubi, il cui coefficiente patrimoniale “tangibile” si ridurrebbe comunque, la forza patrimoniale degli istituti nostrani verrebbe quasi dimezzata. Oggi in America inizieranno gli stress test sull’adeguatezza patrimoniale delle principali banche americane, come aveva preannunciato nei giorni scorsi il ministro del Tesoro Timothy Geithner. La novità è che i test utilizzeranno come indicatore di criticità non il tier 1, ovvero il coefficiente patrimoniale di base calcolato sugli attivi ponderati per il rischio, ma piuttosto il cosiddetto Tce ratio (Tangible common equity), ossia un rapporto che tiene in considerazione le sole attività materiali e include nel computo del patrimonio le sole azioni ordinarie. In sostanza il Tce indica quanto gli azionisti ordinari otterrebbero in ipotesi di scioglimento della società, ed esclude dal calcolo titoli ibridi e soprattutto e i beni intangibili, come l’avviamento, i marchi e le altre attività immateriali. Utilizzando questo rigido criterio di valutazione, l’amministrazione Obama vuole verificare in modo ultimativo la capacità delle banche statunitensi di stare in piedi da sole, per poi decidere il da farsi.
Ma cosa succederebbe se il Tce dovesse essere usato come nuovo standard di valutazione della solvibilità delle banche anche in Europa e Italia? Certo, per adesso si tratta solo di un esercizio. Comunque utile per far capire la solidità “materiale” delle big del sistema creditizio sui cui bilanci pesano gli avviamenti da fusioni accumulate negli ultimi anni. In America il caso esemplare è quello di Citigroup: mentre il Tier 1 è all’11,8%, ben al di sopra del livello richiesto per considerare una banca ben capitalizzata, il Tce, stando almeno alle rilevazioni effettuate lo scorso 31 dicembre, è solo all’1,5%, ben al di sotto del 3%, livello che gli investitori considerano accettabilmente sicuro. E le banche italiane quanto sono “stressate”? Partiamo dal vertice della top ten del credito. E prendiamo come riferimento il rendiconto al 30 settembre del 2008 insieme all’attivo e patrimonio tangibile al 30 giugno. Ebbene, se Unicredit oggi può contare su un coefficiente di base (tier 1) del 7,34% (includendo l’effetto dell’aumento di capitale da 3 miliardi), lo stress test farebbe emergere un coefficiente di base tangibile al 3,34 per cento. Intesa Sanpaolo ha un coefficiente di base del 6,90%, cui corrisponde un patrimonio netto tangibile pari al 3,58% dell’attivo tangibile. Non se la passerebbero tanto meglio il Banco Popolare con un tier 1 del 5,70% ma un Tce del 3,40% e il Monte dei Paschi, che dopo l’operazione Antonveneta ha un Tier 1 del 5,20% e un tangibile book ratio del 3,30 per cento. Più morbida la caduta di Ubi che oggi presenta un coefficiente patrimoniale di base del 7,59% e in caso di stress test scenderebbe a un 5,10% di Tce. In tutti i casi, comunque, va rilevato che il Tce ratio, per quanto ridimensionato rispetto al tier1, resterebbe sopra la soglia (ritenuta) di sicurezza del 3%.
L’esercizio appena fatto è puramente teorico. Ma utile, se considerato come una sorta di check up dello stato di salute del credito. E in questo caso la “prognosi” sarebbe riservata. Secondo i prezzi di mercato le banche oggi valgono molto meno del valore di libro, in qual che caso appena il 20-30% del patrimonio netto contabile, quello “ufficiale” che risulta dai bilanci. Ciò significa che gli operatori ritengono che molte attività siano da svalutare o che la redditività sia destinata a peggiorare in futuro, per effetto di una grave crisi che comporterà perdite sensibili su crediti e simili (o un mix delle due cose). Lo stress test varato negli Usa, servirebbe inoltre a dimostrare se e quali banche abbiano un patrimonio netto “fittizio”, dato da avviamenti immaginari, che come tale non ha alcuna rilevanza dal punto di vista dei coefficienti patrimoniali. Dimostrando magari che se la crescita fosse stata davvero “sana”, ovvero attraverso aumenti di capitale reali, ora avrebbero coefficienti patrimoniali tangibili molto più alti, in certi casi doppi.
Ieri il presidente della Fed, Ben Bernanke ha ribadito che il governo sta fissando le condizioni per sostenere le banche sottolineando però che i fondi non vengono elargiti «per far sì che le banche facciano ciò che vogliono delle risorse ottenute». E che lo stress test previsto nel piano di Obama ha come obiettivo quello di determinare il capitale necessario ed è condotto «su un’orizzonte temporale di due anni». Di certo, se i 20 grandi istituti di credito americani non superassero l’esame, dimostrandosi in grado di garatirsi in autonomia la sopravvivenza in un contesto economico in peggioramento, il governo Usa è già pronto a pretendere quote azionarie con diritto di voto in cambio dei suoi interventi.
 

mostromarino

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Per il segreto bancario in vista una soluzione
Alfonso Tuor
Si susseguono i vertici dei capi di Stato e di governo per arginare l’incendio che sta devastando l’economia mondiale. L’ultimo in ordine di tempo è quello dell’Unione europea chiamato ad affrontare la crisi dei Paesi dell’Est.
Ma per la Svizzera la notizia più rilevante proveniente da Bruxelles riguarda il futuro del segreto bancario. Il presidente francese Nicolas Sarkozy, il cancelliere tedesco Angela Merkel e il primo ministro inglese Gordon Brown hanno chiaramente dichiarato al termine del vertice che non è ancora caduta l’ultima parola sull’inserimento della Svizzera nella lista nera dei paradisi fiscali che verrà compilata al vertice del G20 di Londra che si terrà il prossimo 2 aprile. Tutto induce anzi a ritenere che vi siano ancora ampi spazi di trattative, anche se i tempi sono molto stretti. Del resto, negli ultimi giorni anche da parte svizzera si era lasciato intendere che esistono ancora margini di manovra. L’ultimo segnale in questa direzione era stato dato sabato scorso al Congresso del Partito liberale dallo stesso consigliere federale Hans Rudolf Merz.
I termini generali di una possibile soluzione appaiono evidenti. Bruxelles vuole che il segreto bancario svizzero non sia uno strumento usato dai cittadini europei per evadere il fisco. Quindi se il nostro Paese accetterà di riversare ai rispettivi Paesi le imposte sui redditi generati dai capitali gestiti in Svizzera, la disputa sul segreto bancario potrebbe essere superata. In pratica, si tratterebbe di seguire la strada già indicata dal Trattato sulla tassazione del risparmio già sottoscritto con l’Unione europea. Evidentemente la trattativa verterà anche sull’eliminazione di quelle scappatoie, che rendono molto facile eludere il pagamento dell’euroritenuta sugli averi da interesse dei non residenti. Ma queste scappatoie - è bene sottolinearlo con forza - non sono state volute dalla Svizzera ma dalla Gran Bretagna. E infatti ieri a Bruxelles il presidente francese ha chiaramente alluso al fatto che è radicalmente cambiata la posizione britannica. Sebbene in tali questioni il diavolo si nasconda nei dettagli, si può ragionevolmente ipotizzare che una soluzione è all’orizzonte. Questa via d’uscita permetterebbe alla Svizzera di mantenere il segreto bancario e di preservare le attività della piazza finanziaria elvetica legate alla gestione patrimoniale. Permetterebbe ai Paesi dell’Unione Europea di aumentare le loro entrate fiscali e di evitare che questi capitali vengano a mancare ai mercati finanziari europei (si pensi solo al mercato monetario) dopo essersi trasferiti in altri centri finanziari, come Singapore o Hong Kong.
Sebbene sia opportuno essere prudenti, da Bruxelles giunge pertanto la chiara indicazione che è possibile e forse anche imminente una soluzione alla disputa con l’Unione Europea sul segreto bancario.
Il vertice europeo era comunque dedicato alla crisi dei Paesi dell’Est. Il risultato è stato simile a quello di altri summit: si cerca di evitare il peggio applicando nuovi cerotti. È quanto è successo anche ieri a Bruxelles dove, dopo aver racimolato circa 24 miliardi di euro presso alcune organizzazioni internazionali (Banca Mondiale, Banca Europea degli Investimenti ecc.), si è deciso di affrontare la crisi caso per caso, pur assicurando che nessun Paese verrà abbandonato a sé stesso. A prima vista l’approccio appare corretto, poiché la realtà di queste economie non è omogenea, ma l’Unione europea non sembra aver considerato il rischio del contagio, che è esaltato da alcuni tratti comuni delle attuali difficoltà dell’Est. I Paesi dell’ex blocco sovietico accusano pesanti deficit della loro bilancia delle partite correnti, che non sono più in grado di finanziare a causa del prosciugamento dell’afflusso dei capitali esteri e per effetto della contrazione delle loro esportazioni. Inoltre le famiglie e le imprese di alcuni Paesi (in primis Ungheria, Romania e Polonia) si sono indebitate in valuta estera (ossia in euro o in franchi svizzeri) con la conseguenza che la svalutazione delle loro monete fa esplodere il loro debito e rende insostenibile la situazione finanziaria, esacerbando ulteriormente la crisi delle loro economie. Nelle prossime settimane si capirà se il cerotto applicato ieri risulterà almeno temporaneamente sufficiente oppure se la crisi spingerà alcuni Paesi (quelli più a rischio sono Ucraina, Lettonia ed Ungheria) ad un’insolvenza che potrebbe mettere in ginocchio non solo alcune banche austriache, italiane e svedesi che hanno una forte esposizione nei confronti di questi Paesi, ma innescare un processo simile anche in alcuni membri di Eurolandia (come Austria, Irlanda e Grecia), la cui situazione debitoria appare insostenibile. Lo sbocco finale della crisi dei Paesi dell’Est europeo appare comunque segnato. Essi devono scegliere tra politiche monetarie e fiscali di lacrime e sangue oppure rischiano di essere travolti da una recessione mondiale che per rapidità ed entità è superiore ad ogni più pessimistica previsione.
 

piergj

Forumer attivo
Che stress...

ARTICOLO DI CAMILLA CONTI E LORENZO DI LENA

Cosa succederebbe se lo stress test sulla solidità patrimoniale delle banche Usa fosse applicato anche per le big del credito italiane? Guardando i numeri rischierebbe di trasformarsi in un crash test da cui, con l’eccezione di Ubi, il cui coefficiente patrimoniale “tangibile” si ridurrebbe comunque, la forza patrimoniale degli istituti nostrani verrebbe quasi dimezzata. Oggi in America inizieranno gli stress test sull’adeguatezza patrimoniale delle principali banche americane, come aveva preannunciato nei giorni scorsi il ministro del Tesoro Timothy Geithner. La novità è che i test utilizzeranno come indicatore di criticità non il tier 1, ovvero il coefficiente patrimoniale di base calcolato sugli attivi ponderati per il rischio, ma piuttosto il cosiddetto Tce ratio (Tangible common equity), ossia un rapporto che tiene in considerazione le sole attività materiali e include nel computo del patrimonio le sole azioni ordinarie. In sostanza il Tce indica quanto gli azionisti ordinari otterrebbero in ipotesi di scioglimento della società, ed esclude dal calcolo titoli ibridi e soprattutto e i beni intangibili, come l’avviamento, i marchi e le altre attività immateriali. Utilizzando questo rigido criterio di valutazione, l’amministrazione Obama vuole verificare in modo ultimativo la capacità delle banche statunitensi di stare in piedi da sole, per poi decidere il da farsi.
Ma cosa succederebbe se il Tce dovesse essere usato come nuovo standard di valutazione della solvibilità delle banche anche in Europa e Italia? Certo, per adesso si tratta solo di un esercizio. Comunque utile per far capire la solidità “materiale” delle big del sistema creditizio sui cui bilanci pesano gli avviamenti da fusioni accumulate negli ultimi anni. In America il caso esemplare è quello di Citigroup: mentre il Tier 1 è all’11,8%, ben al di sopra del livello richiesto per considerare una banca ben capitalizzata, il Tce, stando almeno alle rilevazioni effettuate lo scorso 31 dicembre, è solo all’1,5%, ben al di sotto del 3%, livello che gli investitori considerano accettabilmente sicuro. E le banche italiane quanto sono “stressate”? Partiamo dal vertice della top ten del credito. E prendiamo come riferimento il rendiconto al 30 settembre del 2008 insieme all’attivo e patrimonio tangibile al 30 giugno. Ebbene, se Unicredit oggi può contare su un coefficiente di base (tier 1) del 7,34% (includendo l’effetto dell’aumento di capitale da 3 miliardi), lo stress test farebbe emergere un coefficiente di base tangibile al 3,34 per cento. Intesa Sanpaolo ha un coefficiente di base del 6,90%, cui corrisponde un patrimonio netto tangibile pari al 3,58% dell’attivo tangibile. Non se la passerebbero tanto meglio il Banco Popolare con un tier 1 del 5,70% ma un Tce del 3,40% e il Monte dei Paschi, che dopo l’operazione Antonveneta ha un Tier 1 del 5,20% e un tangibile book ratio del 3,30 per cento. Più morbida la caduta di Ubi che oggi presenta un coefficiente patrimoniale di base del 7,59% e in caso di stress test scenderebbe a un 5,10% di Tce. In tutti i casi, comunque, va rilevato che il Tce ratio, per quanto ridimensionato rispetto al tier1, resterebbe sopra la soglia (ritenuta) di sicurezza del 3%.
L’esercizio appena fatto è puramente teorico. Ma utile, se considerato come una sorta di check up dello stato di salute del credito. E in questo caso la “prognosi” sarebbe riservata. Secondo i prezzi di mercato le banche oggi valgono molto meno del valore di libro, in qual che caso appena il 20-30% del patrimonio netto contabile, quello “ufficiale” che risulta dai bilanci. Ciò significa che gli operatori ritengono che molte attività siano da svalutare o che la redditività sia destinata a peggiorare in futuro, per effetto di una grave crisi che comporterà perdite sensibili su crediti e simili (o un mix delle due cose). Lo stress test varato negli Usa, servirebbe inoltre a dimostrare se e quali banche abbiano un patrimonio netto “fittizio”, dato da avviamenti immaginari, che come tale non ha alcuna rilevanza dal punto di vista dei coefficienti patrimoniali. Dimostrando magari che se la crescita fosse stata davvero “sana”, ovvero attraverso aumenti di capitale reali, ora avrebbero coefficienti patrimoniali tangibili molto più alti, in certi casi doppi.
Ieri il presidente della Fed, Ben Bernanke ha ribadito che il governo sta fissando le condizioni per sostenere le banche sottolineando però che i fondi non vengono elargiti «per far sì che le banche facciano ciò che vogliono delle risorse ottenute». E che lo stress test previsto nel piano di Obama ha come obiettivo quello di determinare il capitale necessario ed è condotto «su un’orizzonte temporale di due anni». Di certo, se i 20 grandi istituti di credito americani non superassero l’esame, dimostrandosi in grado di garatirsi in autonomia la sopravvivenza in un contesto economico in peggioramento, il governo Usa è già pronto a pretendere quote azionarie con diritto di voto in cambio dei suoi interventi.




....mamma mia che stress. Che dite mi pagheranno lo stipendio per un altro annetto ?

Vorrei andare in vacanze in Sud Tirolo e farmi un nuovo giradischi.

Poi al diavolo, meglio la cassa integrazione. Sono stressato!

Saluti

PJ
 

ZYGMUNT

Forumer attivo
....mamma mia che stress. Che dite mi pagheranno lo stipendio per un altro annetto ?

Vorrei andare in vacanze in Sud Tirolo e farmi un nuovo giradischi.

Poi al diavolo, meglio la cassa integrazione. Sono stressato!

Saluti

PJ

beh, almeno chi, nel settore bancario, ha un rapporto a tempo indeterminato può utilizzare il fondo di tutela dei bancari "invecchiati precoci" e, se no, scivoli , incentivi ecc.
Quindi, non essere troppo stressato:)
 

piergj

Forumer attivo
Non ci rientro...

22 anni di contributi x 44 anni di età + 1 anno di servizio di leva.

non sono vecchio, non sono giovane.

Ecco, cosa sono ?

Ciao e grazie per il tentativo di consolarmi

Pierluigi
 

ZYGMUNT

Forumer attivo
22 anni di contributi x 44 anni di età + 1 anno di servizio di leva.

non sono vecchio, non sono giovane.

Ecco, cosa sono ?

Ciao e grazie per il tentativo di consolarmi

Pierluigi

Cosa sei ? un assediato in un fortino.
Sperando che lo stesso non diventi un fort Alamo e tu Davy Crockett:)
E poi, alla mala parata, da ex bancario potrai iscriverti senza esami nell' "album" ( :D) dei finanziari consulenti indipendenti.
 

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