Riflessioni

Amleto

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Un buon discorso anche se perfettibile (e cosa non lo è) e con dei risvolti che forse e giustamente riguardano solo le persone direttamente coinvolte.
Saluti

Roma, 3 giu . (Adnkronos/Ign) - ''Sono disposto ad accettare anche il giudizio inappellabile di quel severissimo tribunale della storia che è l'opinione pubblica. Quel che non accetto è di rimanere ostaggio perpetuo della memoria, del mio passato e di ciò che ho fatto trent'anni fa''. E' quanto si legge in una lettera che Sergio D'Elia (nella foto), fondatore di 'Nessuno tocchi Caino' e oggi esponente della Rosa nel pugno, ha inviato al presidente della Camera Fausto Bertinotti e ai colleghi deputati in seguito alle polemiche sulla sua elezione a segretario alla presidenza della Camera.

Il parlamentare radicale spiega che la sua elezione ''non è una vergogna'', ma la ''parabola felice di una storia'' di cui lo ''Stato italiano può andare fiero'', perché dimostra che ''l'uomo della pena può divenire un uomo diverso da quello del delitto''. E chi ''vuole cristallizzare la mia vita nell'atto criminale'' di trent'anni fa ''rischia di non cogliere il senso profondo della giustizia, del carcere e della pena descritto dalla nostra Costituzione''.

''Sono stato uno di 'Prima linea', trenta anni fa. Accetto che si dica ancora oggi di me: un 'terrorista di Prima Linea', mi rifiuto però di credere - avverte - che qualcuno pensi davvero che sia il termine giusto, vero o esatto per dire, non solo quello che sono io oggi, ma anche quello che sono stato ieri. La mia identità politica e la mia lotta degli anni Settanta possono forse essere approssimate alle idee 'libertarie' (il che non vuol dire: nonviolente) di un anarchico dell'Ottocento, non certo assimilate al terrorista suicida e omicida degli anni Duemila''.

''Insieme ai miei compagni - comincia il racconto di D'Elia - ero cresciuto con l'idea che fosse possibile cambiare il mondo, tutto e subito'', e ''pensavamo che fosse a portata di mano la realizzazione del paradiso in terra''. ''Ritenemmo la lotta armata come mezzo necessario per accelerarne l'avvento o, comunque, verificarne la probabilità. Una sorta di 'demone della verifica' ci ha spinto all'azione estrema e irreparabile'', spiega. ''Il fine che giustifica i mezzi a cui molti aderivano culturalmente e filosoficamente per noi è stata linea di condotta coerente e pratica. Che fosse vero il contrario, cioè che i mezzi prefigurano i fini - sottolinea ancora D'Elia - per me c'è voluta l'esperienza della lotta armata e del carcere e poi, quand'ero ormai pronto, l'incontro con Marco Pannella''.

''In quegli anni - ricorda - i radicali erano gli unici a non considerarci dei mostri e quando Marco Pannella diceva 'violenti e nonviolenti sono fratelli' capivamo il senso di quelle parole: violenti e nonviolenti avevano in comune la voglia di cambiare l'esistente, senza cedere all'indifferenza e alla rassegnazione. Noi, violenti, con la forza dell'odio; loro, nonviolenti, con la forza del dialogo e dell'amore. Nel momento della rinuncia alla violenza come forma di lotta politica era quindi naturale, volendo mantenere il nostro impegno politico e sociale dalla parte dei più deboli e indifesi, che incontrassimo e ri-conoscessimo il partito del diritto e della nonviolenza''.

''I due anni di lotta armata mi avevano ampiamente dimostrato che la nostra lotta era vana rispetto agli obiettivi che ci eravamo dati e che le ragioni e le speranze di quella lotta erano andate distrutte dai mezzi usati per affermarle. Avevo accettato interiormente la verità della sconfitta, ancor prima della sua evidenza storica e politica. E quindi aspettavo il momento dell'arresto come un epilogo necessario. Giunse - racconta D'Elia - in una bella giornata di maggio del '78, e fu una liberazione. Personalmente non ho mai sparato a nessuno, anche se è stato solo un caso. Sarebbe potuto accadere a me, esattamente, come è successo a molti miei compagni, con cui ho condiviso tutto, di uccidere e-o essere uccisi. In quegli anni, solo una serie di fortunate circostanze mi hanno impedito di diventare un assassino''. ''Sono stato condannato in base a uno dei postulati della dottrina emergenzialista dell'epoca, per cui il responsabile di un'organizzazione terroristica andava considerato responsabile dei crimini commessi nel territorio in cui operava. Agli occhi dei giudici - spiega D'Elia - non valeva il principio costituzionale della responsabilità penale personale ma quello ben più politico del concorso morale''.

Il fondatore di Nessuno tocchi Caino ricorda che nonostante fosse lontano da Firenze al momento dei fatti e non fosse stato tra gli esecutori o gli ideatori della tentata evasione dal carcere delle Murate, ''ero da considerare a tutti gli effetti responsabile dell'omicidio''. ''Una logica perversa che in futuro non sarebbe più stata applicata'', dice l'esponente della Rosa nel pugno.

''Sono stato condannato in primo grado a trenta anni di carcere, poi ridotti in appello a venticinque, infine dimezzati con l'applicazione della legge sulla dissociazione dal terrorismo e altri benefici di legge. Sono uscito - continua il racconto di D'Elia - dopo aver scontato dodici anni di carcere e, nel 2000, sono stato completamente riabilitato con sentenza del Tribunale di Roma, riabilitazione richiesta dallo stesso procuratore generale e sostenuta anche da decine di lettere di vittime dei miei reati, tra cui quella che mi ha fatto più piacere del capo della Digos di Firenze''.

''Avevamo sciolto Prima Linea nei primi anni Ottanta e, nell'86, insieme a moltissimi miei compagni di detenzione, mi ero iscritto al Partito radicale e, dopo poche settimane, il giudice di sorveglianza mi aveva concesso il permesso di uscire dal carcere per recarmi al congresso del partito, dove mi accolsero tra gli altri Enzo Tortora e Mimmo Modugno, parlamentari e presidenti del partito stesso. Era gennaio del 1987 e, davanti ai congressisti riuniti all'Ergife, consegnai simbolicamente Prima Linea, me stesso e la mia storia violenta, al partito della nonviolenza. Non si trattò di un bagno purificatore, di una catarsi nella folla del popolo radicale. Fu un vero e proprio evento politico: l'approdo definitivo alla democrazia e alle sue regole - scandisce il parlamentare radicale - di chi la democrazia e le sue regole le aveva così tragicamente violate''. Nel 1993, ricorda ancora D'Elia, ''fondammo Nessuno tocchi Caino con la mia compagna Mariateresa Di Lascia'', ora ''sono stato eletto deputato della Rosa nel pugno al Parlamento italiano assumendo un ruolo anche di responsabilità: credo che sia questo un altro fatto politico che può essere letto, non come la vergogna che denuncia il collega Giovanardi, ma come la parabola felice di una storia, che è storia di cittadinanza democratica e di accoglienza umana e civile di cui, non solo Marco Pannella, ma anche lo Stato italiano può andare fiero... Se ha senso l'articolo 27 della nostra Costituzione, se hanno senso le parole lì scritte sulla rieducazione e il reinserimento sociale del condannato''.

''Se qualcuno, ancora oggi, dopo trenta anni, vuole cristallizzare la mia vita nell'atto criminale di allora (che non ho materialmente commesso) e non tener conto della semplice verità che l'uomo della pena può divenire un uomo diverso da quello del delitto, rischia - ammonisce - di non cogliere il senso profondo della giustizia, del carcere e della pena descritto dalla nostra Costituzione''.

''Ho pagato con 12 anni di carcere il conto che lo Stato e la legge italiana mi hanno presentato per ciò che ho fatto o non fatto. Non sono il solo a ritenere di aver compiutamente e consapevolmente pagato anche l'altrimenti non necessario, il 'sovrapprezzo' dovuto a leggi, tribunali, procedure e regole, opzioni politiche che si imposero come necessarie, carceri e detenzione speciali''.

''Ora, sono disposto ad accettare anche il giudizio inappellabile di quel severissimo tribunale della storia che è l'opinione pubblica. Quel che non accetto - avverte D'Elia - è di rimanere ostaggio perpetuo della memoria, del mio passato e di ciò che ho fatto trenta anni fa''.

(Adnkronos)
 
Nessuno tocchi Caino ha fatto e sta facendo delle lotte meritevoli.
Sono e sarò sempre con loro.

Riguardo la storia di d'Elia:

- non la conosco bene;
- penso che qualsiasi persona, seppur abbia commesso un reato, debba avere sempre e comunque la possibilità di riabilitarsi nei confronti della società.
se d'Elia lo ha meritato non lo so.
Ma se così fosse non ci sarebbe nulla di male ma bisognerebbe gioire.
 

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