L’ascesa del Petroyuan e l’erosione dell’egemonia del dollaro
agosto 7, 2014
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Tyler Durden
Zerohedge 05/08/2014
Per 70 anni uno dei fondamenti cruciali del potere statunitense è stato il dollaro quale moneta più importante del mondo. Negli ultimi 40 anni, pilastro del primato del dollaro è stato il ruolo dominante del verdone nei mercati energetici internazionali. Oggi, la Cina sfrutta l’ascesa a potenza economica e di mercato sempre più importante per gli esportatori di idrocarburi del Golfo Persico e dell’ex-Unione Sovietica, circoscrivendo il predominio mondiale del dollaro nell’energia, con possibili profonde implicazioni per la posizione strategica degli USA.
Dalla seconda guerra mondiale, la supremazia geopolitica degli USA riposava non solo sulla forza militare, ma anche sulla posizione del dollaro quale principale valuta di transazione e di riserva mondiale. Economicamente, il primato del dollaro deriva dal “signoraggio”, la differenza tra costo per la stampa del denaro e il suo valore, sugli altri Paesi, minimizzando il rischio del cambio per le aziende degli USA. La sua reale importanza, però, è strategica: il primato del dollaro permette agli USA di colmare il cronico deficit di bilancio e correntizio mediante l’emissione di ulteriore moneta, proprio come Washington finanzia la propria proiezione di potenza da oltre mezzo secolo. Dagli anni ’70, pilastro del primato del dollaro è stato il ruolo di moneta dominante sui prezzi di petrolio e gas, con cui le vendite internazionali di idrocarburi sono fatturate e liquidate. Ciò permette di mantenere alta la domanda mondiale di dollari, nutrendo anche l’accumularsi tra i produttori di energia delle eccedenze in dollari, rafforzandone la posizione di prima riserva patrimoniale del mondo “riciclabile” nell’economia degli Stati Uniti per coprirne i deficit. Molti ritengono che la preminenza del dollaro nei mercati dell’energia deriva dallo status di maggiore valuta transazionale e di riserva mondiale. Ma il ruolo del dollaro in questi mercati non è naturale e né basato su una posizione dominante. Piuttosto, fu ideata dai politici statunitensi dopo il crollo dell’ordine monetario di Bretton Woods nei primi anni ’70, ponendo fine alla versione iniziale del primato del dollaro (“egemonia del dollaro 1.0″). Collegare il dollaro alla negoziazione internazionale del petrolio fu la chiave per crearne la nuova versione (“egemonia del dollaro 2.0″) e, per estensione, finanziare altri 40 anni di egemonia statunitense.
Egemonia oro e dollaro 1.0
Il primato del dollaro fu sancito in occasione della conferenza di Bretton Woods del 1944, dove gli alleati non comunisti degli USA aderirono al progetto di Washington per un ordine monetario internazionale del dopoguerra. La delegazione della Gran Bretagna guidata da Lord Keynes, e praticamente ogni altro Paese partecipante salvo gli Stati Uniti, favoriva la creazione di una nuova valuta multilaterale con il neonato Fondo monetario internazionale (FMI) quale principale fonte di liquidità globale. Ma ciò avrebbe ostacolato le ambizioni statunitensi per l’ordine monetario dollaro-centrico. Anche se quasi tutti i partecipanti preferivano l’opzione multilaterale, la potenza schiacciante degli USA fece sì che, alla fine, le sue preferenze prevalessero. Così, con il gold exchange standard di Bretton Woods, il dollaro fu ancorato all’oro e le altre valute al dollaro, facendone la principale forma di liquidità internazionale. C’era però una contraddizione fatale nella visione basata sul dollaro di Washington. L’unico modo con cui gli USA potevano diffondere abbastanza dollari per soddisfare le esigenze di liquidità mondiali, era il disavanzo a tempo indeterminato. Mentre Europa occidentale e Giappone recuperavano e riconquistavano competitività, il deficit cresceva. Gettandosi nella domanda crescente di dollari per finanziare l’aumento dei consumi, l’espansione dello stato sociale e la proiezione di potenza globale, gli USA presto offrirono più moneta statunitense di quella pari alle proprie riserve auree. Dagli anni ’50, Washington agì per convincere o costringere i titolari di dollari stranieri a non cambiare i verdoni con l’oro. Ma l’insolvenza non poteva essere scongiurata per molto: nell’agosto 1971, il presidente Nixon sospese la convertibilità dollaro-oro, ponendo fine al
gold exchange standard; nel 1973, anche i tassi di cambio fissi scomparvero.
Tali eventi sollevarono interrogativi fondamentali sulla solidità a lungo termine dell’ordine monetario basato sul dollaro. Per conservarne il ruolo di primo fornitore di liquidità internazionale, gli Stati Uniti avrebbero dovuto continuare a mantenere i disavanzi delle partite correnti. Ma questo deficit si espanse, avendo l’abbandono di Washington di Bretton Woods intersecatosi con altri due sviluppi cruciali: gli USA diventarono importatori netti di petrolio nei primi anni ’70 e l’affermazione sul mercato dei membri chiave dell’organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio (OPEC) nel 1973-1974, causando un aumento del 500% del prezzo del petrolio, aggravando la pressione sulla bilancia dei pagamenti. Con il legame tra dollaro e oro reciso e tassi di cambio non più fissi, la prospettiva che il deficit degli Stati Uniti divenisse sempre più grande aggravò le preoccupazioni sul valore a lungo termine del dollaro. Tali preoccupazioni ebbero risonanza speciale per i grandi produttori di petrolio. Il petrolio sui mercati internazionali era valutato in dollari almeno dagli anni ’20, ma per decenni la sterlina fu usata almeno con la stessa frequenza dei dollari negli acquisti di petrolio transnazionali, anche dopo che il dollaro aveva sostituito la sterlina come prima valuta commerciale mondiale e di riserva. Finché la sterlina era ancorata al dollaro e il dollaro era “buono come l’oro”, ciò era economicamente sostenibile. Ma dopo che Washington abbandonò la convertibilità dollaro-oro e la transizione mondiale passò dai tassi di cambio fissi a quelli fluttuanti, il regime di valuta nel commercio del petrolio era in palio. Con la fine della convertibilità dollaro-oro, i principali alleati degli USA nel Golfo Persico, Iran dello Scià, Quwayt e Arabia Saudita, favorirono il passaggio del sistema dei prezzi dell’OPEC dai prezzi in dollari a un paniere di proprie valute. In tale contesto, molti alleati europei degli USA ripresero l’idea (già affrontata da Keynes a Bretton Woods) di fornire liquidità internazionale sotto forma di valuta multilaterale emessa dal FMI, governata dai cosiddetti “diritti speciali di prelievo” (DSP). Dopo che l’aumento dei prezzi del petrolio gonfiò i loro conti correnti, Arabia Saudita e gli altri alleati arabi del Golfo degli Stati Uniti spinsero l’OPEC ad iniziare le fatturazioni in DSP. Inoltre approvarono le proposte europee per riciclare gli avanzi in petrodollari nel FMI, per incoraggiarne l’emersione quale principale fornitore di liquidità internazionale post-Bretton Woods. Ciò avrebbe significato che Washington non poteva continuare a stampare dollari, mentre voleva sostenere l’aumento di consumi, spese sociali e grande proiezione di potenza globale. Per evitarlo, i politici statunitensi dovettero trovare nuovi modi per incentivare gli stranieri a continuare a mantenere sempre più grandi eccedenze di ciò che erano ormai dollari fiat.
Egemonia petrolio e dollaro 2.0
A tal fine, le amministrazioni degli Stati Uniti dalla metà degli anni ’70 misero a punto due strategie. massimizzare la domanda di dollari come valuta transazionale ed invertire le restrizioni di Bretton Woods sui flussi di capitali transnazionali; con la liberalizzazione finanziaria, gli USA potevano fruttare ampiezza e profondità dei propri mercati di capitali, e coprire il cronico deficit di bilancio e partite correnti attirando capitali stranieri a costi relativamente bassi. Forgiare stretti legami tra vendita di idrocarburi e dollaro si dimostrò cruciale su entrambi i fronti. Creando tali collegamenti, Washington estorse efficacemente ai suoi alleati arabi del Golfo un silenzio condizionato garantendosi la loro propensione ad aiutare finanziariamente gli Stati Uniti. Rinnegando le promesse ai partner europei e giapponesi, l’amministrazione Ford spinse clandestinamente l’Arabia Saudita e altri produttori arabi del Golfo a riciclare quote sostanziali delle loro eccedenze in petrodollari nell’economia degli Stati Uniti, tramite intermediari privati (in gran parte degli Stati Uniti), piuttosto che attraverso il FMI. L’amministrazione Ford chiese anche il supporto del Golfo arabo a una Washington in ristrettezze finanziarie, concludendo accordi segreti con le banche centrali di Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti per acquistare grandi quantità di titoli del Tesoro USA al di fuori delle aste normali. Tali impegni aiutarono Washington ad impedire al FMI di soppiantare gli Stati Stati quale principale fornitore di liquidità internazionale, dando anche un fondamentale impulso alle ambizioni di Washington nel finanziare il deficit riciclando avanzi dei dollari esteri tramite mercati finanziari privati e l’acquisto di titoli di Stato statunitensi. L’impegno dell’OPEC al dollaro come moneta per le vendite internazionali del petrolio fu fondamentale per l’ampia adozione del dollaro quale valuta transazionale dominante sul mercato petrolifero. Pochi anni dopo, l’amministrazione Carter siglò un altro accordo segreto con i sauditi, per cui Riyadh s’impegnava ad esercitare la propria influenza per garantire che l’OPEC mantenesse i prezzi del petrolio in dollari. Quando il sistema di prezzi amministrati dell’OPEC crollò a metà degli anni ’80, l’amministrazione Reagan incoraggiò l’uso universale dei dollari nelle vendite di petrolio internazionali nelle nuove borse del petrolio di Londra e New York. I prezzi quasi universali del petrolio e poi del gas, in dollari, furono rafforzati dalla probabilità che le vendite di idrocarburi non fossero solo espresse in dollari, ma anche trattate, generando il costante sostegno alla domanda di dollari in tutto il mondo.
In breve, queste occasioni furono fondamentali nella creazione dell'”egemonia del dollaro 2.0″. E sostanzialmente ressero nonostante la periodica insoddisfazione araba del Golfo verso la politica mediorientale degli Stati Uniti, il fondamentale allontanarsi degli Stati Uniti da altri importanti produttori del Golfo (Iraq di Sadam Husayn e Repubblica islamica dell’Iran), e dall’interesse sul “petro-euro” nei primi anni 2000. I sauditi, in particolare, hanno vigorosamente difeso i prezzi del petrolio esclusivamente in dollari. Mentre Arabia Saudita e altri grandi produttori di energia accettavano il pagamento delle loro esportazioni di petrolio in altre valute principali, la quota maggiore delle vendite mondiali di idrocarburi continuava ad essere regolata in dollari, perpetuando lo status del dollaro a prima valuta transazionale del mondo. Arabia Saudita e altri produttori arabi del Golfo completarono il sostegno al nesso petrolio-dollari con grandi acquisti di armi avanzate statunitensi; la maggior parte agganciò le proprie valute al dollaro, un impegno che alti funzionari sauditi descrivono come “strategico”. Mentre la quota del dollaro nelle riserve globali è scesa, il riciclaggio dei petrodollari del Golfo arabo permette di mantenerlo come valuta di riserva mondiale.
La sfida della Cina
Eppure, storia e logica cautela delle pratiche attuali non sono scolpite sulla pietra. L’ascesa del “petroyuan” verso un regime valutario meno dollaro-centrico nei mercati energetici internazionali, con implicazioni potenzialmente gravi per la posizione del dollaro, è già in corso. Mentre la Cina è emersa quel principale attore sulla scena energetica mondiale, ha anche intrapreso un’estesa campagna per internazionalizzare la propria valuta. Una quota crescente del commercio estero della Cina viene espressa e regolata in renminbi; l’emissione di strumenti finanziari denominati in renminbi è in crescita. La Cina persegue un processo prolungato di liberalizzazione essenziale alla piena internazionalizzazione del renminbi in conto capitale, permettendo maggiore flessibilità dei tassi di cambio dello yuan. La Banca Popolare di Cina (PBOC) ha ora accordi di swap con oltre 30 altre banche centrali, il che significa che i renminbi è già un’efficace valuta di riserva. Guardando al futuro, l’uso del renminbi nella vendita degli idrocarburi internazionale sicuramente aumenterà, accelerando il declino dell’influenza statunitense nelle regioni-chiave produttrici di energia. I politici cinesi apprezzano i “vantaggi di agente storico” di cui il dollaro gode; il loro scopo non è il renminbi che sostituisce il dollaro, ma affiancare lo yuan al verdone quale valuta transazionale e di riserva. Oltre ai benefici economici (ad esempio, riducendo i costi di cambio per le imprese cinesi), Pechino vuole, per motivi strategici, rallentare ulteriormente la crescita delle sue enormi riserve in dollari. La Cina ha visto aumentare la propensione statunitense ad escludere Paesi dal sistema finanziario statunitense come strumento di politica estera, e si preoccupa di come Washington cerchi di sfruttare ciò; l’internazionalizzazione del renminbi può mitigare tale vulnerabilità. In generale, Pechino comprende l’importanza del potere del dollaro nel dominio statunitense; intaccandolo la Cina può contenere l’eccessivo unilateralismo degli Stati Uniti.
La Cina da tempo ha inserito gli strumenti finanziari nei suoi sforzi per accedere agli idrocarburi stranieri. Ora Pechino vuole che i principali produttori di energia accettino il renminbi come valuta transazionale, anche per concludere l’acquisto di idrocarburi, incorporando il renminbi nelle riserve della banca centrale cinese. I produttori sono motivati ad accettarlo. La Cina è nel prossimo futuro, di gran lunga il principale mercato in crescita per i produttori di idrocarburi nel Golfo Persico e dell’ex-Unione Sovietica. Le ampie aspettative di lungo termine sull’apprezzamento dello yuan rendono l’accumulazione delle riserve di renminbi una “bazzecola” in termini di diversificazione del portafoglio. Mentre gli USA sono sempre più visti come potenza egemone in declino, la Cina è vista come potenza in ascesa per eccellenza. Anche per il Golfo arabo, che da tempo si affida a Washington come ultimo garante della sicurezza, ciò fa sì che più stretti legami con Pechino siano un imperativo strategico. Per la Russia, i rapporti deterioratisi con gli Stati Uniti spingono a una maggiore cooperazione con la Cina, contro ciò che Mosca e Pechino considerano i declinanti, ma ancora pericolosamente instabili ed iperattivi USA. Per diversi anni, la Cina ha pagato le importazioni di petrolio dall’Iran in renminbi; nel 2012, la BoPRC e la Banca Centrale degli Emirati Arabi Uniti istituirono uno swap in valuta da 5,5 miliardi di dollari, ponendo le basi per la conclusione in renminbi delle importazioni di petrolio cinesi da Abu Dhabi, un’importante espansione dell’uso del petroyuan nel Golfo Persico. L’accordo sul gas sino-russo da 400 miliardi di dollari concluso quest’anno, prevede l’acquisto cinese di gas russo in renminbi; se completato, ciò darà un ruolo apprezzabile al renminbi nelle transazioni di gas transnazionali.
Guardando al futuro, l’uso del renminbi nelle vendite di idrocarburi internazionali sicuramente aumenterà, accelerando il declino dell’influenza statunitense nelle regioni-chiave produttrici di energia. Rendendo anche più difficile per Washington finanziare quello che la Cina ed altre potenze in ascesa considerano una politica estera interventista; una prospettiva su cui la classe politica statunitense ha appena cominciato a riflettere.
Traduzione di Alessandro Lattanzio –
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L’MH17 una false flag della CIA che non vola
agosto 5, 2014
4 commenti
F. William Engdahl
Nsnbc 2 agosto 2014
Il mondo ha già visto tali sceneggiate. Ha visto l’incidente sotto falsa bandiera del Golfo del Tonchino durante la guerra del Vietnam. Ha visto l’episodio del finto gas Sarin di CIA e sauditi, nel 2013, che ha portato il mondo sull’orlo della guerra mondiale. Ha visto l’episodio dell’uranio yellowcake fasullo del Niger usato per costringere il Congresso degli Stati Uniti alla guerra contro l’Iraq di Sadam Husayn nel 2003, per le cosiddette armi di distruzione di massa che non furono mai trovate. Ora il mondo vede di nuovo le frenesie del dipartimento di Stato degli Stati Uniti e della CIA per cercare d’accusare la Russia di Putin di fornire ai separatisti dell’Ucraina orientale armi antiaeree altamente sofisticate russe che sarebbero state utilizzate per abbattere l’aereo delle
Malaysia Airlines. Putin, accusa il segretario di Stato John Kerry su cinque (!) talk show del 20 luglio, di non controllare i ribelli dell’Ucraina orientale. La prova di tutto questo? I “social media”, secondo il portavoce ufficiale del dipartimento di Stato. La buona notizia per quelle anime sobrie che non desiderano vedere la terza guerra mondiale tra Cina-Russia e Paesi BRICS contro USA/NATO, trasformando l’Europa occidentale in un Trümmerfeld devastato per la terza volta in un secolo, è che tale tentativo d’incolpare la Russia di Putin si ritorce contro, anche s’è stato deciso.
Domande senza risposta
Una delle caratteristiche più scioccanti della copertura dei media mainstream occidentali sul caso del MH17 è la totale mancanza di un serio e prudente giornalismo investigativo, esistente solo pochi anni fa. Invece di peccare per eccesso di cautela prima di giudicare una situazione che potrebbe facilmente innescare una nuova Guerra Fredda o, peggio, CNN,
New York Times,
Washington Post e la maggior parte dei media UE, tra cui quelli tedeschi, hanno semplicemente citato i funzionari del governo di Kiev, tra cui dei neo-nazisti, come se fossero credibili. Una vera inchiesta deve esaminare le domande insolute. In primo luogo dovremmo cominciare con molte domande, senza risposta, assai cruciali, prima di decidere cosa sia successo al Boeing 777 del MH17, quel 17 luglio.
Screenshot da
FlightAware.com compilato da Vagelis Karmiros che collaziona tutte le rotte del MH-17 tracciate da FlightAware mostrando come, mentre tutti gli ultime 10 rotte passano tranquillamente a sud della regione di Donetsk, sorvolando il Mare di Azov, solo il 17 luglio, il tragico volo MH17 passò proprio sul Donetsk.
Il primo è il motivo per cui il controllo del traffico aereo di Kiev del ministero dell’Aviazione dell’Ucraina, ordinò al MH17 di deviare dalla rotta pianificata che evitava la zona di guerra nell’Ucraina orientale? Secondo rapporti iniziali di
FlightAware.com, che traccia online tutti gli aeromobili civili, il 17 luglio il Boeing 777 del Volo MH17 delle Malaysia Airlines, dall’aeroporto Schiphol di Amsterdam a Kuala Lumpur in Malesia, deviava in modo significativo in altitudine e rotta da tutti gli altri voli commerciali che dall’inizio della guerra civile in Ucraina orientale, ad aprile, volano a sud della regione in conflitto. Le domande chiave prima d’incolpare qualcuno, furono completamente ignorate dal governo ucraino a Kiev, dall’amministrazione Obama a Washington, dalla maggior parte dei media occidentali, è perché il pilota deviò dalla rotta? Perché sorvolò lo spazio aereo vietato? E quali istruzioni diede il controllo aereo di Kiev al pilota, nei minuti prima della tragica esplosione? Curiosamente, dopo che i dati di FlightAware furono pubblicati inizialmente, il sito cambiò versione sulla rotta del MH17. Perché l’ha fatto?
Il falso video della ‘pistola fumante’ di Kiev
La maggior parte delle argomentazioni dell’amministrazione Obama su chi sia responsabile del MH17 cita i funzionari del governo di Kiev. Eppure hanno mentito ripetutamente dal colpo di Stato del 22 febbraio 2014, che li ha messi al potere illegalmente con le armi. Poche ore dopo la notizia dell’abbattimento dell’aereo, l’intelligence ucraina diffuse ciò che sosteneva essere la “prova” che il MH17 era stato abbattuto dai separatisti agli ordini diretti della Russia. Il video su YouTube di 2:23 minuti pretese di dimostrare che “
i militanti del ‘gruppo Bes’, usando un missile antiaereo russo, avevano abbattuto l’aereo di linea Boeing 777 delle Malaysia Airlines da Amsterdam a Kuala Lumpur‘. L’intelligence ucraina presentò ciò che pretendeva essere le registrazioni delle conversazioni tra un separatista filo-russo e il suo coordinatore Vasil Geranin, che sarebbe un colonnello del Primo direttorato dell’Intelligence dello Stato Maggiore Generale delle Forze Armate russe. Si parla dell'”abbattimento di un jet”, senza capire se si tratta di un jet civile o militare, potendo anche riferirsi a un Su-25 ucraino abbattuto alcune ore prima nei combattimenti. Nel video su
YouTube non c’è modo di provare che l’audio non sia semplicemente un copione letto da due attori in uno studio. La “pistola fumante” di Kiev, il video, scomparve dai media quando diligenti ricercatori informatici scoprirono che data/ora mostravano che il fu messo online il 16/07/2014 alle 19:10 ora di Kiev, il giorno prima dell’abbattimento del MH17. Ops! Tornate a studiare a Langley, ragazzi. Questo per quanto riguarda la credibilità del governo di Kiev, che ha sempre mentito fin dal primo giorno al potere.
Le simultanee manovre USA/NATO
Ora passiamo a una coincidenza molto interessante. Proprio come avvenne negli attacchi al World Trade Center del settembre 2001 e al cosiddetto attentato di Boston, e numerosi altri episodi terroristici, vi furono importanti manovre NATO in Ucraina nei giorni prima e dopo l’incidente del MH17. Secondo lo spifferatore di Washington della NSA Wayne Madsen, la NATO e l’esercito ucraino partecipavano ad “esercitazioni” militari congiunte di dieci giorni, nome in codice ‘
Sea Breeze‘, comprendenti l’utilizzo di aeromobili da guerra elettronica e intelligence elettronica, come il Boeing EA-18G
Growler e il Boeing E-3
Sentry Airborne Warning e Control System (AWACS). Sea Breeze, secondo Madsen, includeva l’incrociatore lanciamissili classe AEGIS USS
Vella Gulf. Dal Mar Nero, “
il Vella Gulf poteva seguire il Malaysia Airlines MH17, nonché eventuali missili lanciati contro l’aereo“. Inoltre, gli aeromobili AWACS e d’intelligence elettronica (ELINT) sorvolavano la regione del Mar Nero quando MH17 volava sull’Ucraina. Gli aerei Growler possono bloccare i radar dei sistemi terra-aria. L’esercitazione NATO coincise con l’abbattimento del 17 luglio del MH17, a soli 40 miglia dal confine con la Russia. “
Navi ed aerei della NATO controllavano le regioni di Donetsk e Lugansk con i radar e la sorveglianza elettronica“. (Una nota curiosa è il ricorrente ruolo centrale del vicepresidente Joe Biden negli eventi Ucraina. Biden v’è coinvolto personalmente dall’inizio delle proteste. Ed insolitamente, non fu la NATO, ma il sito dell’ufficio del vicepresidente Joe Biden che per prima annunciò le manovre militari statunitensi
Sea Breeze e
Rapid Trident II, il 21 maggio 2014. Così, con uno sfacciato conflitto di interessi, il figlio di Biden, Hunter, è il direttore della nuova società energetica ucraina
Burisma Holdings, Ltd., di proprietà di Igor Kolomoiskij, l’oligarca mafioso ucraino-israeliano noto come il “Camaleonte”).
La domanda scottante è perché è il governo degli Stati Uniti non ha svelato le immagini del tracciato del volo MH17 del 17 luglio, mostrando con precisione dove volava e dove fu colpito? Forse per paura di rivelare ciò che teme essere un boomerang sui falchi di Washington? Non solo le agenzie statunitensi hanno dati satellitari sul volo MH17, hanno anche immagini precise della batteria lanciamissili che probabilmente aveva sparato il missile che ha distrutto MH17. Secondo il pluripremiato ex-giornalista di
Newsweek Robert Perry, una fonte attendibile gli ha detto che “
le agenzie d’intelligence degli Stati Uniti hanno dettagliate immagini satellitari della probabile batteria lanciamissili che ha sparato il missile fatale, ma la batteria sembrava essere sotto il controllo delle truppe governative ucraine, vestite con ciò che sembrano uniformi ucraine”. Potrebbe essere questa la ragione per cui, finora, l’amministrazione Obama non ha rilasciato le prove dettagliate per dimostrare le sue affermazioni sui “ribelli ucraini appoggiati da Mosca” che avrebbero sparato il missile mortale? Potrebbe mostrare, infatti il contrario, le forze legate a Kiev.
Il dipartimento di Stato degli Stati Uniti cambia storia
La guerra di propaganda contro la Russia sull’abbattimento del MH17 è diretta, proprio come nel golpe di Majdan, da una cabala di neoconservatori del dipartimento di Stato degli Stati Uniti. La viceportavoce di Victoria Nuland ed ex-addetta stampa della CIA, Marie Harf, nella conferenza stampa del 21 luglio a Washington, affrontò domande insolitamente persistenti e critiche da diversi giornalisti, che chiesero perché, se il segretario John Kerry e il governo degli Stati Uniti possedevano prove “inconfutabili” del coinvolgimento russo e dei ribelli sul caso MH17, si rifiutavano di renderle pubbliche, come fecero gli Stati Uniti in casi precedenti, come nella crisi dei missili di Cuba del 1962. Sulla difensiva e irritata dalle domande, Harf rispose, riferendosi alle dichiarazioni di Kerry del 20 luglio, “secondo la nostra valutazione si trattava di un missile SA-11 sparato dal territorio controllato dai separatisti filo-russi”. Ma, incredibilmente, qual era la prova che i giornalisti chiedevano? Harf rispose, “sappiamo, l’abbiamo visto nei social media e poi i video, abbiamo visto le foto dei separatisti filo-russi vantarsi di avere abbattuto un aereo…” Mi scusi, signore e signori per il sussulto. “
L’abbiamo visto nei social media… poi abbiamo visto le foto dei separatisti filo-russi vantarsi...”, la CIA si occupa anche di fotografie? Con il governo e l’intelligence militare russi rilasciare le proprie prove, l’amministrazione Obama s’è lanciata freneticamente nel “limitare i danni”. Alle 17:57, ora di Washington del 22 luglio, decise di organizzare una conferenza stampa di “anonimi alti funzionari.” “Con anonimi alti funzionari” di solito ci si riferisce ai vertici del governo o agli assistenti dei segretari. Diversi “anonimi alti funzionari statunitensi” tennero una conferenza stampa a Washington. Ufficiali dell’intelligence USA dichiararono che, mentre i russi armavano i separatisti nell’Ucraina orientale, “
gli Stati Uniti non avevano alcuna prova diretta che il missile utilizzato per abbattere l’aereo passeggeri provenisse dalla Russia“. Questa era nuova per Washington. I funzionari dell’intelligence USA continuarono a dire che non sapevano chi avesse sparato il missile o se eventuali operatori russi erano presenti al lancio del missile. Era “incerto” che l’equipaggio del lanciamissili sia stato addestrato in Russia… su chi abbia sparato il missile, dichiararono “
Non sappiamo il nome, non sappiamo il grado e non siamo nemmeno al 100 per cento sicuri della nazionalità…“
Sembrando dei goffi personaggi di un brutto remake hollywoodiano di Laurel & Hardy, gli ‘alti’ ufficiali dell’intelligence degli Stati Uniti, quando gli chiesero dettagli sulle prove, ripeterono il mantra di Marie Harf del dipartimento di Stato. I ‘vertici’ dell’intelligence ebbero la faccia tosta di affermare che “
ci basiamo in parte sui messaggi e video dei social media resi pubblici nei giorni scorsi dal governo ucraino“, anche se apertamente ammisero che non potevano autenticarli tutti. Ad esempio, citarono il video di un lanciamissili che avrebbe attraversato il confine russo dopo il lancio che sembrava privo di un missile. Ma più tardi, interrogati, i funzionari riconobbero che non avevano ancora verificato se il video era esattamente ciò che pretendeva di essere. L’ultimo pezzo della conferenza stampa è sorprendente, perché indicava che qualche briefing, forse della CIA o del dipartimento di Stato, informò il presidente degli Stati Uniti (che presumibilmente ebbe poco tempo per le indagini…), quando poi andò alla televisione nazionale, il 21 luglio, per dire che l’aereo delle
Malaysia Airlines, “
è stato abbattuto sul territorio controllato dai separatisti filo-russi in Ucraina”, dicendo anche che la Russia aveva addestrato i separatisti “armandoli con attrezzature militari e armi, comprese armi antiaeree”. Quel discorso avvicinava il mondo alla Guerra Fredda con la Russia, che facilmente poteva divenire calda. Il giorno dopo, qualcuno assai esperto nell’amministrazione statunitense, chiaramente decise di ridurre massicciamente il confronto.
F. William Engdahl –
RussiaToday
Traduzione di Alessandro Lattanzio –
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