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EURO-ANSCHLUSS: IL FANTASMA DI MORGENTHAU
Pubblicato su 8 Ottobre 2014 da frontediliberazionedaibanchieri in ECONOMIA
Verso la fine della II Guerra Mondiale gli USA avevano un piano, il Piano Morgenthau, per eliminare dopo la guerra tutte le industrie tedesche, facendo della Germania un paese puramente agricolo. Il mezzo per ottenere ciò era semplice: imporre alla Germania l’unione monetaria con gli USA, la cui moneta era allora molto forte: il prezzo delle merci tedesche si sarebbe moltiplicato e le aziende avrebbero chiuso, non potendo più esportare, e l’industria yankee avrebbe preso i suoi mercati e i suoi assets migliori gratis o quasi. Gli Stati Uniti non fecero questo alla Germania dopo la sua resa, però la Germania Ovest lo fece poi alla Germania Est negli anni ’90. E ora lo fa all’Italia.
Oramai è stato acquisito: Essendosi inchiodata a un cambio elevato e fisso – elevato sia rispetto agli altri paesi dell’eurozona, che rispetto agli altri – e non potendo più svalutare la moneta per mantenersi competitiva sui mercati internazionali, l’Italia, per restare competitiva e limitare la sua deindustrializzazione, ha dovuto svalutare i lavoratori, riducendo i salari/redditi, tassandoli di più, tagliando e differendo le pensioni. Ma la riduzione dei redditi ha automaticamente causato il crollo della domanda interna e della capacità della gente di pagare i debiti già contratti, quindi un crollo degli incassi di chi produce per il mercato interno e un’impennata delle insolvenze e dei fallimenti. La riduzione dei salari viene in parte compensata con ammortizzatori sociali finanziati con più tasse e contributi, in parte scaricando i disoccupati e i sottoccupati sui risparmi della famiglia e sulle pensioni dei genitori o dei nonni. Tutto ciò sta consentendo una parziale conservazione dell’industria e dei mercati esteri, ma, abbisognando di drenare risparmi e andando a colpire il settore immobiliare (quello che innesca le fasi di espansione e di contrazione), non può tirare avanti ancora a lungo. Inoltre, i vincoli di bilancio, il limite del 3% al deficit sul pil, la botta dei trasferimenti al Meccanismo Europeo di Stabilità (57 miliardi), la connessa ascesa della pressione fiscale fa chiudere o emigrare le aziende. Emigrano anche tecnici, professionisti, capitali. Questi sono i risultati dei “compiti a casa”. Sostanzialmente, la recessione è guidata da una costante sottrazione di liquidità voluta politicamente da Berlino via Draghi, che garantisce di fare tutto ciò che serve per sostenere i debiti pubblici, ma a condizione che si facciano quei compiti a casa, ossia che si demolisca l’economia e la si doni a un capitalismo di conquista, apolide e antisociale.
Tutti questi meccanismi operano costantemente, appunto come meccanismi, e giorno dopo giorno demoliscono l’Italia e la rendono dipendente, sottomessa, povera rispetto alla Germania. Un po’ più di flessibilità e un po’ meno di spread o un po’ più di spesa e inflazione in Germania non risolverebbero quanto sopra, non fermerebbero la macchina della deindustrializzazione, anche se Renzi cerca di distogliere da ciò l’attenzione attirandola su di sé con la sua azione frenetica e inconcludente (se non nel male). Non la fermerebbe nemmeno un aumento della domanda interna, perché questo si dirigerebbe verso beni di importazione, avvantaggiati dalla forza dell’Euro.
E poi ci sono gli utili tromboni dell’europeismo idealista, che evocano le favole moralistiche di Spinelli e soci per coprire una realtà di scontro di interessi oggettivamente contrapposti, di sopraffazioni spietate, di colonizzazione.
Sarebbe molto utile, a coloro che cercano di tutelare gli interessi italiani in relazione alle politiche europee e monetarie della Germania attuale, a coloro che trattano questi temi nelle sedi europee e nazionali, conoscere come il grande capitale privato tedesco occidentale, durante il processo di riunificazione della Germania iniziato nel 1989, usò una serie di mezzi, alcuni dei quali terroristici, altri formalmente criminali, per impadronirsi delle aziende, dei beni immobili, delle risorse naturali, dei mercati della Germania orientale senza pagare o quasi, espropriandone la popolazione che era giuridicamente proprietaria di questi assets, e trasferendo i costi dell’operazione a carico dei conti pubblici, ossia dei contribuenti della Germania occidentale nonché a carico dei lavoratori della Germania orientale, di cui persero il posto di lavoro circa 2 milioni e mezzo, su circa 16 milioni di abitanti. E’ tutto descritto nel recentissimo saggio di Vladimiro Giacché Anschluss. Queste cose vanno sapute per poterle sbattere sul muso a Merkel, Schäuble, Katainen, smascherando i loro veri fini, quando si mettono a predicare i compiti da fare a casa, mentre dovrebbero finire davanti a una Norimberga finanziaria assieme ai loro mandanti.
I metodi usati per depredare la Germania Orientale furono molteplici, iniziando con la creazione di allarme default della Germania orientale, nella prima fase, in tutto analogo a quello che i banchieri tedeschi scatenarono nel 2011 contro il btp per sostituire Berlusconi con un premier che li servisse bene.
E anche:
- imposizione di un’unione monetaria con cambio uno a uno tra marco orientale e marco tedesco per le partite correnti, che determinò, di punto in bianco gola la quadruplicazione dei prezzi delle merci della Germania orientale, con la conseguente perdita dei mercati in favore di aziende concorrenti della Germania occidentale, e naturalmente la chiusura delle imprese orientali con massicci licenziamenti;
-il sistematico ricorso al falso in bilancio per far apparire irrecuperabili molte aziende sane della Germania orientale, onde poterle comperare a costo nullo o quasi; -la rimozione dei pochi funzionari onesti, che rifiutavano di dichiarare il falso;
-l’imposizione delle “regole di mercato” – in realtà, della potenza economica e politica – onde occupare i mercati della Germania orientale con merci di produzione occidentale e così favorire le aziende che producevano queste merci a danno della produzione locale;
-la costante collaborazione del governo federale (Kohl) con gli avidi criminali del grande capitale – e l’autorevole appoggio di… Jean Claude Junker!
Eh sì, le “integrazioni” sono sempre, nella realtà, business sfrenato e disumano, ora come allora. La Germania fa le integrazioni col disintegratore. L’agenzia fiduciaria incaricata della vendita dei beni del popolo della Germania orientale, la Treuhandanstalt, un veicolo per realizzare questi fini e, in luogo di concludere la suggestione con un utile netto derivato dalla vendita privatizzazione dei beni pubblici orientali, produsse un buco di oltre 1 miliardo di marchi, sicché i cittadini orientali, ciascuno dei quali aveva ricevuto l’assegnazione di una quota azionaria nell’agenzia fiduciaria, del valore teorico di 40.000 marchi, alla fine dei conti non ricevettero nemmeno un pfennig per l’espropriazione dei beni popolari che avevano subito.
Dopo il saccheggio, furono intentati processi penali, civili, indagini formali sull’operato dell’agenzia fiduciaria e su altre vicende relative all’annessione della Germania orientale, ma, grazie all’opposizione del governo, all’inerzia del Parlamento, agli insabbiamenti giudiziari, al fatto che tutta la gestione della missione era stata impostata e imperniata su tecnocratici a bassa o nulla responsabilità e ad alta opacità, come gli attuali eurocrati, i processi le indagini finirono nel nulla. Il profitto compera tutti i poteri dello Stato.
Per contro, mentre il pil della Germania Orientale crollava (- 40,8% nei primi 2 anni, export – 60%), quello della Germania occidentale, grazie alle acquisizioni sottocosto di cui sopra, fece un balzo all’insù di circa il 7%. A dispetto della vulgata ufficiale, ancora oggi la Germania orientale rimane un paese, un pezzo di paese, arretrato, che non ha agganciato la parte occidentale, che vive di trasferimenti posti a carico del contribuente occidentale, in quanto il deficit commerciale dell’Est è del 45% mentre quello del Meridione è solo il 12,5%: quindi la Germania orientale è messa molto peggio della cosiddetta Terronia. Ma, ovviamente, non è colpa sua, bensì effetto di una rapina assistita dal governo di Bonn, nell’interesse del capitalismo tedesco occidentale, e con la giustificazione pseudo scientifica dell’ideologia del mercato e delle sue regole, in cui si nasconde il fatto che il mercato non è libero ma è l’arena di scontri e rapporti di forza e sopraffazione.
Qualcosa del genere dell’unificazione tedesca del 1990 era già avvenuto in Italia, con la annessione del Sud, un’area complessivamente meno produttiva del Nord - annessione che aveva portato non ha una convergenza delle due parti d’Italia, ma a una maggiore divergenza in termini di efficienza e produttività e competitività, in quanto il Nord attraeva distoglieva capitali e competenze dal Sud, che quindi si deindustrializzava e se votava a diventare restare un’area agricola e marginale. Analoga operazione sta avvenendo oggi sotto il pretesto della unificazione europea e della unione monetaria, ossia dell’euro.
La Germania entrò nell’euro a condizione che vi entrasse d’Italia, l’altro paese ad alta capacità manifatturiera. Perché? Perché se l’Italia fosse rimasta fuori avrebbe fatto una forte concorrenza alla Germania, mentre per contro l’euro avrebbe alzato il corso della valuta italiana e abbassato il corso della valuta tedesca, in tal modo favorendo le esportazioni tedesche soprattutto entro l’unione monetaria europea e limitando quelle italiane, che diventavano meno competitive. Così è avvenuto: contrariamente alla quasi totalità dei paesi dell’eurozona, in cui la quota manifatturiera del pil è calata fortemente, la Germania, con l’euro, ha avuto un aumento di circa il 25% della detta quota, dovuto soprattutto ad esportazioni nei mercati dei paesi partners dell’eurozona, ossia dovuta a quote di mercato sottratte ad essi. Esportazioni che i banchieri tedeschi hanno sostenuto facendo prestiti e investimenti verso i paesi eurodeboli, Grecia e Spagna in testa, ben sapendo che prima o poi quei paesi non sarebbero riusciti a sostenere le scadenze di pagamento – anche poiché i loro conti erano stati truccati ad hoc – e che, a qual punto, sarebbe scoppiata quella crisi che ha poi in effetti consentito alla Germania di imporre le sue regole, i suoi interessi e i suoi uomini al potere, grazie al suo controllo sulla BCE, e a costringere altri paesi, Italia in testa, a svenarsi per prestare a Spagna, Grecia, Portogallo e Irlanda i soldi necessari a realizzare i loro lucri usurari e fraudolenti. Anche se a molti può venire il pensiero che il vero compitino da fare a casa sia liberarsi della Germania una volta per sempre, quanto sopra descritto non va letto e presentato in chiave nazionalistica, ossia come una colpa della popolazione tedesca – sostanzialmente inconsapevole – bensì in chiave di guerra di classe, perché, sotto mentite spoglie ideologiche, è una campagna di conquista del capitalismo finanziario a spese della popolazione generale.
L’Italia ha un’arma negoziale molto potente nei confronti della Germania: minacciare di uscire dall’Eurosistema (cosa che farebbe saltare l’Euro e condannerebbe la Germania a una rivalutazione monetaria fortissima, che metterebbe fuori mercato le sue produzioni e in ginocchio la sua economia). Non usare quest’arma e lasciare che il paese sia fatto a pezzi giorno dopo giorno, è un delitto capitale. Ai governanti italiani che, facendo finta di non vedere la realtà, hanno collaborato e collaborano a questo disegno a danno di tutti noi, vorrei chiedere: lo fate perché minacciati, perché ricattati, o perché pagati? Quanto?
07.10.14 Marco Della Luna
 
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sabato 11 ottobre 2014

V€RSO LA SCHIAVITU': DALL'ORDOLIBERISMO AL LAVORO MERCE.



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1. Per parlare (ancora) dell'ordoliberismo vorrei prendere spunto da questa immagine-citazione tratta da un contributo su twitter.
La traduciamo così non ci sono equivoci:
"Non penso che sia una buona idea rimpiazzare questo metodo lento ed efficace - che solleva gli Stati nazionali dall'ansia mentre vengono privati del potere- con grandi balzi istituzionali...Perciò preferisco andare lentamente, frantumando i pezzi di sovranità poco a poco, evitando brusche transizioni dal potere nazionale a quello federale. Questa è il modo in cui ritengo che dovremo costruire le politiche comuni europee...".


Rammentiamo così questa sintesi della natura strumentale dell'ordoliberismo:
"Ordoliberismo: veste €uro-attuale del neo-liberismo che, imperniata sull'obiettivo del lavoro-merce, prende atto dell'ostacolo delle Costituzioni sociali contemporanee (fondate sul lavoro), ed agisce divenendo "ordinamentale", cioè impadronendosi delle istituzioni democratiche per portarle gradualmente ad agire in senso invertito rispetto alle previsioni costituzionali."

Questa vicenda di gradualità nell'impossessamento delle istituzioni democratiche, per invertirne la direzione di intervento, cioè per portarle a tutelare e realizzare interessi di segno opposto a quello per cui vennero concepite dalle Costituzioni nate dalla caduta del nazifascimo, riposa su una precisa forma "etico-comunicazionale", il "pop", una precisa fase operativa che ne consente l'attuazione tecnocratica, ed una precisa ideologia economica di tipo restaurativo, come fine ultimo.

2. Qui una ricostruzione:


"...lo stesso instaurarsi del consumismo di massa in sè, indicava una via di reazione che il sistema conteneva già in sè e consentiva, quindi, un'evoluzione adattativa che restaurasse il modello capitalista auspicato (quello del famoso passaggio di Kalecky).
E questo nella coscienza che ciò potesse farsi con la dovuta gradualità necessaria per attendere sia il consolidarsi della imminente vittoria definitiva sul socialismo "reale", che lo sfaldamento della linea politico-elettorale incentrata su diversi livelli di concessione sul fronte del welfare (che pareva accomunare nella irreversibilità tutti i partiti in campo, nei limiti della funzionalità alla strategia di sedazione dell'avanzata dei partiti comunisti: inutile dire che era, specie in partiti come il Repubblicano USA, una linea "rebus sic stantibus" e tatticamente accettata obtorto collo. Lo stesso, poteva dirsi di settori della democrazia cristiana, come dimostra la vicenda dell'evoluzione delle posizioni sulla banca centrale da quella di Carli anni '70 a quella di Andreatta-Ciampi, primi anni '80)...".


3. Ora questa aspirazione alla restaurazione aveva già espresso, in Europa, cioè nel contesto in cui sarebbe stato connaturato cercare di applicarlo, un sistema di pensiero economico-politico, in sè compiuto.
Questo va identificato nella assoluta contiguità - storicamente attestata da prove inconfutabili (tanto che coloro che si identificano in questa "scuola" non intendono confutarlo ma semmai confermarlo) tra la scuola austriaca di von Mises e von Hayek, e la elaborazione della c.d. "terza via" di Roepke, cioè l'ordoliberismo in senso proprio (la distinzione attiene più alle biografie dei rispettivi protagonisti, cioè a fortune politiche e mutevoli sedi di insegnamento accademico, che ad una reale separazione politico-ideologica, come vedremo).


L'ordoliberalismo, infatti, fin dalla sua genesi, si pone come un tentativo linguisticamente e ideologicamente (nel senso della enunciazione dei valori perseguiti) mirato a rendere accettabile la sostanziale realizzazione -o "rivincita"- del liberismo, cioè del "governo del mercato" sull'intera società; e questo, conservando la facciata del soggetto, lo Stato strutturato (in una molteplicità di funzioni di pubblico interesse), che era visto come la principale interferenza contraria a tale realizzazione.
4. E' ovvio che, nella fase del nazifascismo, questa strategia si potè valere, certamente in Germania e, per certi innegabili aspetti in Italia, della coincidenza (transeunti, ma "eticamente" favorevole) dello Stato, avversario tout-court, con quello storicamente manifestatosi nel totalitarismo militarista e guerrafondaio di tale epoca (almeno nei luoghi di nascita dello stesso ordoliberismo).
La legittimazione, addirittura "pacifista", del liberismo compromissorio (nella sola fase iniziale) e strumentale (data la permanente mira alla restaurazione del modello liberista nella sua sostanza integrale), potè quindi godere di un'ambigua investitura "etica" di opposizione al totalitarismo.
In effetti, però, l'ordoliberalismo al totalitarismo non rimproverava affatto la soppressione di quelle libertà "attive" (contro cui si era sempre mobilitato) che contraddistinguevano la democrazia abbattuta dagli stessi totalitarismi: in altri termini, rispetto alla soppressione-negazione (eventuale) dei diritti c.d. sociali (ovvero di tutela del lavoro e del welfare), che erano considerati dai neo-liberisti di ogni "scuola" quali inaccettabili distorsioni del mercato (in particolare e soprattutto, di quello del lavoro), rimaneva in posizione neutra.
La posizione ordoliberista sulla progressiva natura "interventista" dei totalitarismi, poi, divenne inevitabilmente critica, in nome di un indistinto richiamo alla libertà, dato che i "fascismi", seppure con livelli quantitativi "non inflattivi" e compatibili con l'alleanza organica col capitalismo industriale nazionale, aderirono in vario modo all'idea rinnovata, (post crisi del '29), dell'erogazione delle "sicurezze" sociali alle masse governate come pure di una forte presenza pubblica nel settore bancario.
Anzi, questo versante della critica al nazifascismo, è tutt'ora utilizzato dalla parte liberista più ostinatamente (e strumentalmente) ignara delle reali vicende storiche e dei relativi dati economici: estrapolando le politiche sociali dei totalitarismi come elemento caratterizzante principale (se non unico) degli stessi, propone la mistificatoria equazione tra i totalitarismi e lo stesso Stato democratico pluriclasse improntato al welfare (si tratta del fenomeno dell' Antistalismo libertario "liceale")


5. Questa confusione - se non altro su natura e reali ragioni dell'opposizione agli stessi totalitarismi, (determinata da un'equivoca contingenza storica), - non può certo dirsi casuale, dato che i totalitarismi fascisti si rivelarono come efficaci rimedi proprio al fallimento dei metodi di controllo sociale in precedenza predicati dall'imperante liberismo, quellodell'epoca del gold-standard, del colonialismo e dell'avversione al "monopolio" sindacale.
Quello stesso fallimento, poi, aveva semmai dato luogo, nelle sue più radicali conseguenze, all' "opposto" totalitarismo del comunismo sovietico, che era l'avversario comune sia del nazifascimo che del liberismo. Ma, notare bene, ciò avvenne più per la sopravvenuta sussidiarietà-alleanza del primo con il secondo, che per un'autonoma vocazione "ideologica" dello stesso nazifascimo nel concepire radicalmente lo scontro di classe (che veniva dissolto, piuttosto, nel concetto cooperativo e "corporativo" di popolo-ceto produttivo).


Nondimeno, questa militanza oppositiva, - determinata in ultima analisi dalla (consueta) insofferenza liberista verso mediatori "politici" estranei all'oligarchia liberista, e la cui stessa esistenza attestava la natura fallimentare della società (neo)liberista-, consentì ai liberisti di sedersi al tavolo della "ricostruzione" con un'insperata legittimazione.
Ancorchè, quantomeno in Italia, gli stessi, in sede di Assemblea Costituente, risultassero recessivi; e parliamo proprio degli Einaudi, dei Nitti, e dei vetero-liberisti strettamente connessi, nella loro traiettoria culturale, proprio ai von Hayek-von Mises e ai Roepke. Cioè, pur nella dialettica delle posizioni su "come", - in tema monetario o di attuazione dell'internazionalismo dei mercati, paludato da "federalismo" europeo-, restaurare il mercato del lavoro perfettamente flessibile, che è il "core" del liberismo, Einaudi e, per certi versi (più politici), de Gasperi (e apertamente Sturzo), furono certamente attratti dall'area ordoliberista.


6. Tutti i passaggi finora accennati possono trovare, senza grandi sforzi bibliografici, un'agevole conferma sia storica che contenutistica, nelle vicende e nelle biografie che contrassegnarono i protagonisti prima del dopoguerra (ri-costruzione), poi della stessa "costruzione europea", nelle sue fasi "comunitarie" e, successivamente "federal-unioniste".
Per semplificare questa conclusione consigliamo la lettura integrale di questo paper che, sul principale teorico dell'ordoliberismo e della "terza via", cioè di quella che sarà poi la struttura fondamentale del Trattato di Maastricht.
Va peraltro precisato che lo stesso Roepke non proponeva la definizione di "terza via" :

"Röpke non disegna una terza via tra l'economia di mercato e l'economia collettivista. Lo dice lui stesso in forma esplicita nel già citato importante scritto del 1961 (L'anticamera del collettivismo): “Chiunque tema il rimprovero d'aver ignorato i segnali della storia mondiale si guarderà bene dal parlare ancora di un “sistema misto”, come se ci fosse una terza possibilità, atta a risparmiare la scelta, spesso scomoda, fra economia di mercato e collettivismo quali principi dell'ordine economico”.
Ma questa esplicitazione semmai conferma la natura "cosmetica" dell'uso del termine sociale da parte dell'ordoliberalismo. in quanto strumentalmente agevolativo di una restaurazione del libero mercato tout-court, (senza particolari concessioni che non siano, appunto, la mera aggiunta del termine "sociale").

Curiosamente, a conferma di quanto per questa restaurazione occorra tener conto di esigenze di marketing politico-comunicazionale, elemento principe della strategia di "costruzione europea", vediamo come, non casualmente, da parte della sinistra filo-europeista si ponga invece un'enfasi prioritaria sulla "terza via"; e ciò specialmente suggerendo una presunta attenzione di "social-lavoristica" di Roepke (ed Einaudi), legata alla sua enunciazione pro-concorrenziale della tutela dei consumatori, (legittimati in realtà solo come "produttori"); in qualche modo, politicamente e mediaticamente, si ritiene vantaggioso lasciar vivere l'equivoco che la tutela dei consumatori equivarrebbe ad una più moderna, ed inevitabilmente "nuova", tutela dei "lavoratori", laddove questa preoccupazione non aveva alcuna cittadinanza nella visione di Roepke.

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"Il pensiero di Röpke è stato profondamente segnato da alcuni eventi storici come la Prima Guerra Mondiale, la crisi economica degli anni ’30, la nascita di movimenti nazionalistici e socialisti, la
Seconda Guerra Mondiale, il secondo dopoguerra e dalla sua esperienza personale in particolare il servizio militare prestato durante la prima Guerra Mondiale e l’autoesilio.

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Significativa è stata anche la sua partecipazione nel 1938 al Colloque di Walter Lippman, famoso tra gli intellettuali di indirizzo liberale dell’epoca; l’incontro con Luigi Einaudi nel 1944, che diventerà un suo grande amico e con il quale condividerà ampiamente il suo pensiero e le sue teorie: sarà Einaudi ad applicare la teoria della “terza via” di Röpke in Italia per la rinascita economica del secondo dopoguerra; ed infine il periodo passato a Graz (1928-1929), dove entra in contatto con la Scuola di economia austriaca, rappresentata da von Hayek e von Mises. L’Ordoliberalismo nasce quindi come espressione di due scuole di economia: quella austriaca (Friedrich von Hayek, Ludwig von Mises) e quella friburghese (Walter Euken , Eugen von Böhm-Bawerk , Alexander Rüstow e Wilhelm Röpke) rappresentata da eminenti intellettuali, considerati i padri dell’economia sociale di mercato...

...E’ importante precisare che l’Ordoliberalismo ha dato i natali a quella “terza via” che si imponeva come opzione tra il liberalismo economico e la pianificazione economica, generando quello che è oramai conosciuto come economia sociale di mercato, dove lo Stato assume un ruolo di regolatore al fine ultimo di realizzare il benessere della società in un contesto di libero mercato attraverso i punti programmatici fondamentali dell’economia sociale di mercato.
Questi puntii programmatici, nella versione dei padri fondatori dell’ordoliberalismo, si possono sintetizzare così:
• un severo ordinamento monetario;
• un credito conforme alle norme di concorrenza;
• la regolamentazione della concorrenza per scongiurare la
formazione di monopoli;
• una politica tributaria neutrale rispetto alla concorrenza;
• una politica che eviti sovvenzioni che alterino la
concorrenza;
• la protezione dell’ambiente;
• l’ordinamento territoriale;
• la protezione dei consumatori da truffe negli atti d’acquisto."



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7. Si può dunque senza particolare sforzo riconoscere che questi "punti fondamentali", non soltanto sono ritrovabili con esattezza quasi compilativa nei trattati sull'Unione Europea, ma, di più, essi hanno la "accortezza" di non parlare direttamente, come appunto gli stessi Trattati, dei riflessi IMMANCABILI che la loro attuazione, in termini di regole dominanti nella società interessata (in pratica, quella dei paesi aderenti all'UE), avrebbe avuto sul restaurazione del mercato del lavoro perfettamente flessibile che è, poi, in sostanza, l'unica irrinunciabile rivendicazione del liberismo.
Al momento in cui, come abbiamo visto sopra, maturarono le condizioni per passare dalla fase difensiva (cioè dalle mere reisistenze in sede Costituente e nell'attuazione della Costituzione) alla fase "operativa", l'ordoliberismo si affidò a uomini come Mitterand, soprattutto, lo stesso Amato e Carli in Italia, Tony Blair, Olof Palme.

Con ciò era saldata, adeguandosi ai tempi (di una minaccia "comunista" che si andava dissolvendo, fino alla caduta del Muro di Berlino), la tradizione "cristiano-democratica" con quella "socialista-liberale", essendo la seconda molto più in grado, per la sua pregressa legittimazione pro-welfare, di far accettare con immediatezza il "TINA" insito nella restaurazione.
Quest'ultima però veniva, ed è tutt'ora, proposta come "nuovo", reso necessario da una liberalizzazione dei capitali e dei movimenti di forza lavoro e non solo più delle merci, che veniva simultaneamente propugnata e costruita.
Sul piano della comunicazione politico-economica, quindi si andava creando una sorta di petizione di principio, euristica: cioè la causazione artificiale - e "a posteriori", rispetto alla sua stessa enunciazione- della "necessità senza alternative" che andava giustificando l'affidamento di eccezionali poteri sovranazionali erosivo delle sovranità nazionali. Quelli di cui parla appunto Amato nell'incipit.

8. Ci sarebbe da interrogarsi sulle mutazioni politico-internazionali che condussero a tale saldatura.
L'auto-proposizione dell'ordoliberismo come "terza via", (nominale e tattica più che sostanzialmente differente dal liberismo), rese quasi naturale ciò per un processo transitivo di "interpolazione": se occorreva configurare un'alternativa di riequilibrio tra capitalismo sfrenato, in quanto socialmente inaccettabile nell'evoluzione del conflitto di classe nel corso del '900, ed ogni forma di economia pianificata e tendente al "collettivismo" inefficiente, quest'ultimo polo della "triade" compromissoria, - via via che si dissolveva, implodendo, il socialismo reale-, finì per essere identificato col modello economico-misto delle Costituzioni democratiche del welfare.
La costruzione europea attraverso l'ordoliberismo, dunque, come implicano le stesse parole rivelatrici di Amato, si rivelò come occasione di rigenerazione dei partiti socialdemocratici (o riqualificatisi tali) in funzione antitetica al "costituzionalismo": si considera eticamente "correct" superare la sovranità costituzionale nazionale in nome della "efficienza" sovranazionale (il "vincolo esterno"), ed inizia, segnatamente in Italia, la grande stagione della "revisione" delle Costituzioni basate sulla rigidità dei principi sottostanti ai diritti sociali.
In generale, in tutta Europa inizia l'offensiva (OCSE-led) delle "riforme", variamente proposte come soluzioni parificate ad una grund-norm dinamica addirittua sovra-costituzionale; una proposizione che tende a far dimenticare ogni passato collegamento con il marxismo e che "nova" la sinistra filo-europea da pro-labor a "progressista", legittimata dunque, dall'idea di "progresso", a derogare o sospendere l'applicazione dei fondamenti costituzionali del dopoguerra.


9. Questa conclusione sul ruolo dell'ordoliberismo (alquanto lineare per un osservatore non superficiale) può trovare un'autorevole interpretazione autentica nelle stesse complessive parole di Draghi:
- sia nella qualificazione della natura della BCE:
"In this context, it is worth recalling that the monetary constitution of the ECB is firmly grounded in the principles of ‘ordoliberalism’, particularly two of its central tenets:

First, a clear separation of power and objectives between authorities;

And second, adherence to the principles of an open market economy with free competition, favouring an efficient allocation of resources."

- sia nel costante e significativo invito all'effettuazione di riforme strutturali che altro che non sono che il completamento del mercato del lavoro auspicato come "essenza autosufficiente" della rivendicazione liberista.


10. E sul punto specifico, poi, come già ci ha dimostrato questo bel post di Arturo, non esiste un fondamentale dissenso tra, più o meno rivendicate, posizioni ordoliberiste "di sinistra" e posizioni più prettamente "conservatrici": entrambe condannano la tutela collettiva dei lavoratori, sia che fosse vista come miope perseguimento di "interessi sezionali" forieri addirittura del conflitto tra le Nazioni, sia che fosse, come oggi, sanzionata come principale caso di monopolio "avversario del funzionamento del magico "sistema dei prezzi" di mercato, tanto più se legittimato dal deprecato riconoscimento normativo dello Stato.


Le dispute al riguardo, semmai, confermano che, come in tutte le realizzazioni di un programma politico-ideologico, possono esistere diversi punti di vista sulla miglior via di realizzazione del programma stesso, per lo meno per quanto riguarda la suddetta rivendicazione irrinunciabile.
E che questa realizzazione abbia, per l'Europa, utilizzato come perno la "costruzione federalista" - salvo poi rinnegarla de facto, ma nel modo tecnico-paludato e mimetico dei trattati, quando si è trattato di realizzare l'altro caposaldo (più che mai tattico) ordoliberista, quello della moneta unica-, è un fatto storico su cui, il crescendo culminato nei fatti odierni, non dovrebbe lasciare più alcun dubbio.


11. L'ordoliberismo, quindi, per la sua natura tattica (cioè di compromesso o "terza via", apertamente postulati, per rendere accettabili i suoi fini ultimi) è uno strumento ideologico-politico più efficace della dura teorizzazione anti-keynesiana e darwinista sociale di Hayek, perlomeno assunta al suo stato più puro: questi è portato ad ammettere apertamente la preferenza per la dittatura rispetto ad una democrazia (evidentemente "sociale", cioè pluriclasse e non oligarchica) che ostacoli la Grande Società del mercato.
L'ordoliberismo invece svuota gradualmente dall'interno la democrazia, predicando il riduzionismo "idraulico-sanitario" della democrazia già definito da Hayek, ma preferendo farlo in una cornice di apparente conservazione del quadro istituzionale, tale da consentire lo svuotamento della democrazia sostanziale ("necessitata") del secondo dopoguerra, con un'alternanza di gradualità ed accelerazioni sostenute da una forte cornice morale accuratamente proclamata: quest'ultima la fa "assomigliare" all'ordinamento democratico, naturalmente imperniato sui valori solidaristico-umanisti, eliminando così, almeno ad un primo impatto, il senso di minaccia per le comunità sociali coinvolte. Almeno fino a quando la minaccia non sia stata tradotta in un risultato acquisito ed irreversibile.
Il che ci riporta direttamente al "metodo" teorizzato da Giuliano Amato all'inizio di questa trattazione .
Ma ciò conferma anche il senso dello "stile" della tecnocrazia rivestita da slogan moralistici pop, quale ci descrive il famoso brocardo di Juncker, che riassume in tutta la sua efficienza la tattica politica ordoliberista:

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Pubblicato da Quarantotto a 09:11 Nessun commento: Invia tramite emailPostalo sul blogCondividi su TwitterCondividi su FacebookCondividi su Pinterest
 
venerdì 7 dicembre 2012

PER CHI...NON GUARDASSE SOLO GOOGLE E FOSSE INTERESSATO ALL'ARTIGLIERIA PESANTE ;);):):):V




Per gentile concessione dell'autore
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, pubblichiamo il testo integrale dell'articolo che, già pubblicato sulla rivista giustamm.it (e in versione ridotta sul numero di Novembre del Foro.iT), tratta il tema affrontato nella relazione di apertura del Convegno di Pescara, presso il Dipartimento di Economia della Università "G. D'Annunzio", del 1° dicembre 2012 (fate attenzione alle note che costituiscono "archivio dati" pro-memoria futura...di facile e pronta consultazione!)


A proposito, questo, per chi non lo avesse ancora visto, è il video dell'intervento...per come è "venuto fuori"





AREA EURO, MERCANTILISMO E VIOLAZIONI DEL TRATTATO
Sommario: 1- LA GERMANIA E LA CRISI DELL’EURO; 2- IL DISEGNO COMPLESSIVO INSITO NELL’EURO; 3- EURO E VIOLAZIONE DELLE NORME DEI TRATTATI, ISTITITUVO E SUL FUNZIONAMENTO DELL’UE, DA PARTE DI GERMANIA E ISTITUZIONI UE; 4- QUESTIONE DI DIRITTO RELATIVA ALL’EURO-EXIT


1- LA GERMANIA E LA CRISI DELL’EURO
Le polemiche che, in varie forme, si protraggono da mesi, circa l’attivazione di meccanismi di finanziari di intervento sugli spread tra i titoli del debito pubblico dei diversi paesi euro, in specie sulla conformità alla Costituzione tedesca dell’European Stability Mechanism (c.d. ESM), evidenziano i limiti “genetici” del trattato UEM (oggi trasposto, in un’inestricabile commistione di tematiche e oggetti “promiscui” all’area euro in senso proprio e a quella UE allargata, nel c.d Trattato sul funzionamento dell’unione europea –ora c.d. TFUE -, che costituisce la versione consolidata, a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, del “vecchio Trattato istitutivo della Comunità europea –c.d. TCE).
Lo scontro politico-economico fra paesi UE, drammaticamente sottostante a tali polemiche, dimostra l’ambiguità normativa sul ruolo della BCE, perseguita, a scopi ideologici, con la formulazione del trattato, alla luce della più accreditata teoria economica della moneta. Una banca centrale, diversamente da quanto implicato dalla disciplina “contraddittoria” che oggi si dice di “voler forzare”,- non solo l’art.123, ma il complesso degli artt.120-128 TFUE-, deve poter funzionare come Lender of Last Restort (LOLR),: e ciò sia, a rigore della locuzione, rispetto al sistema bancario che utilizza quella divisa in via principale, cioè comunque “residente” in quell’area valutaria, sia nella funzione, attualmente più controversa, di “tesoriere del governo” o, comunque, del centro di imputazione della politica fiscale ed economica della medesima area valutaria.[1]
Ciò perché, altrimenti, la moneta che stampa tale banca centrale va “fuori controllo”: cioè, quantomeno, i tassi del debito pubblico, se emesso indipendentemente dai vari paesi aderenti, da qualche parte e inevitabilmente -cioè è certo- saliranno in modo rilevante e ineguale, divergendo tra loro e mettendo in crisi la sostenibilità della moneta stessa, come strumento fiduciario di pagamento all’interno dell’area (c.d. moneta “fiat”, uno strumento di pagamento non coperto da riserve di altri materiali, ad esempio: riserve auree, e quindi privo di valore intrinseco anche indiretto). Questo assunto, connesso alla parallela istituzione di un’autorità “federale” capace di operare trasferimenti fiscali a favore delle aree in squilibrio commerciale (e di liquidità), fa parte della teoria base delle “aree valutarie ottimali”, la cui formulazione, nel 1961, ha fruttato all’economista statunitense Robert Mundell il Nobel per l’economia).[2] Poi, va subito precisato, non è affatto vero che un intervento della BCE avrebbe potenziali maggiori costi per i tedeschi (fermo il fatto giuridico-economico che, comunque, tale intervento, in forma di emissione di moneta per acquisti di titoli, non grava direttamente sul bilancio federale).
Il timore invocato dai tedeschi è quello dell'inflazione, che farebbe salire anche i tassi nominali del debito tedesco, svalutando il valore di bilancio (specialmente bancario, secondo il controverso criterio c.d. mark to market imposto dall’EBA a fine 2011), dei corsi dei bund emessi in precedenza.
Ma l'inflazione, in relazione alle dimensioni dell’intervento BCE oggi immaginato, non salirebbe oltre i limiti della tollerabilità: è stato infatti calcolato che il "Non Inflationary Loss Absorbing Capacity-NILAC" della BCE è attualmente di oltre 3300 miliardi di euro.[3] E’ infatti, evidente, che il solo fatto che una banca centrale assicuri acquisti illimitati nell’ammontare e nel tempo, determina la rinuncia alla speculazione sui titoli “protetti” e, anzi, permette alla banca centrale stessa di “fermarsi” a un volume di interventi nei fatti limitato, realizzando anche plusvalenze sugli acquisti dei titoli emessi con rendimenti precedenti più alti.
Solo oltre la soglia del NILAC si avrebbero effetti inflattivi, mentre la trasmissione dell'incremento monetario all'inflazione stessa sarebbe, nell’attuale situazione di “raffreddamento” della domanda in tutta l’area, molto basso e lento ad agire. Praticamente effetti inflattivi di una certa “rilevanza”, seguendo le opportune misure tecniche, si avrebbero per il doppio dell’evidenziato ammontare del NILAC (cioè oltre quota 6000 miliardi di euro di emissione di nuova moneta per la funzione specifica qui commentata).
In sostanza, col LOLR si produrrebbe un certo impatto sui tassi dei bund, e quindi sulle “tasche” dei tedeschi, minore di quello causato dal rapido “bruciarsi” dei fondi impiegati negli interventi via EFSF e ESM, che si prospettano, nella pratica, quasi inutili.
“Inutili” in quanto qualsiasi garanzia "limitata" nell'ammontare non è attendibile agli occhi dei mercati, sortendo l'atteso effetto contrario di affrettare le vendite del titolo il cui valore (riflesso nei rendimenti) si vorrebbe proteggere: ciò nel timore degli operatori, detentori dei titoli, di arrivare tardi rispetto all'esaurimento del fondo limitato...che, appunto, esaurirebbe il suo plafond molto prima che in una situazione in cui lo stesso esborso monetario per acquisti fosse effettuato da una banca centrale che agisca come LOLR, costando perciò molto di più, e senza risolvere comunque gli squilibri alla base delle divergenze dei tassi, ai contribuenti tedeschi.[4]
In effetti, la gente "comune" in Germania soffre di effetti restrittivi della domanda interna e, prima di tutto, delle dinamiche salariali, ma essi non sono certo dovuti alla dimensione del debito e della spesa pubblica negli altri paesi dell’area UEM, sebbene alle politiche adottate dai propri governi, originate dall’obiettivo di dover sfruttare, come programmato alla luce delle note dinamiche della aree valutarie teorizzate da Mundell, la valuta unica.[5] E come tale occasione…"unica" doveva essere sfruttata?

Mediante una politica economica che viene definita "imperialismo mercantilista", in quanto tende alla universalizzazione, in una certa area -tendenzialmente l'Europa, data appunto la presenza della moneta unica-, della propria supremazia commerciale, e, quindi, ad “asservire” alla propria offerta la domanda del "vicino", che, inevitabilmente, ne risulta impoverito dopo una fase iniziale espansiva "precolonizzazione" economica [6],[7]. E che le cose stiano esattamente così, in termini di definizione della politica tedesca all’interno dell’area monetaria, è affermazione degli stessi esponenti tecnici della governance di quel paese.[8]
Dunque, lo strumento principale che ha conferito un’efficacia senza precedenti a tale mercantilismo è proprio la moneta unica che consente, a differenza del cambio flessibile (che produce, in ragione delle differenze di inflazione, l'effetto opposto in termini di competitività commerciale), di sfruttare vantaggiosamente il deliberato perseguimento di un differenziale favorevole di inflazione. Tale effetto è stato indicato chiaramente da Mundell nella sua teoria delle aree valutaria ottimali (Optimun Currency Area, c.d OCA). E la relativa politica tedesca, col termine di "mercantilismo", è registrata come tale anche dal FMI [9], dall’ILO,[10] nonchè, tra i numerosi altri, da De Grauwe, forse il più prestigioso economista europeo del momento[11].
Occorre infatti considerare che, in un'area valutaria ottimale (OCA), il sistema di deflazione competitiva (svalutazione reale, cioè deprezzamento del c.d. tasso di cambio reale che permane, ancorato ai diversi rispettivi livelli dei prezzi in ciascun paese, anche in situazione di cambi nominali fissi) tende a dare un decisivo vantaggio sul lato dell'offerta e nulla ha a che fare con lo spirito cooperativo (debolmente) espresso nei trattati UE.
Unitamente a ciò, il paese che opera tale svalutazione reale, persegue simultaneamente la necessità iniziale di sostenere la domanda dei paesi resi meno competitivi attraverso il tasso di cambio reale -simmetricamente rivalutatosi, nel loro caso- erogando crediti funzionali all'acquisto dei propri beni, in modo da rendere operativo il vantaggio in termini di attivo della propria bilancia dei pagamenti.
Per deflazionare, in funzione competitiva, lo strumento unico a disposizione di una paese appartenente a un'OCA è agire -in via preventiva e non necessitata da fattori ciclici esterni all’area- sul costo del lavoro. E a ciò hanno provveduto le riforme Hartz[12] (dal nome del ministro, ed ex a.d. di una fabbrica di auto, proponente delle leggi che hanno riformato il mercato del lavoro e del welfare relativo): queste riforme hanno svolto i loro effetti, sia chiaro, partendo comunque da una situazione di preesistente inflazione più bassa, che corrisponde a una tradizione economico-commerciale propria della Germania, accompagnata da una costante compressione della propria domanda interna.
Questo solo in estrema sintesi, dato che vari altri corollari dimostrano la natura ideologico-politica, e anticooperativa (piuttosto pan-germanica), di questa strategia che, ovviamente, può reggere a un sereno vaglio di praticabilità all’interno di una “unione”, asseritamente politica, o quantomeno economica, prima che monetaria, solo fondandosi su luoghi comuni mediatico-propagandistici sulla propria “virtuosità” nel fare costanti sacrifici, simmetrici a quelli che vengono proposti agli italiani ed espressi nella “parola d’ordine” "debito-pubblico-brutto-abbiamo-vissuto-al-di-sopra-dei-nostri-mezzi".
Il metodo seguito dai tedeschi per abbassare l’inflazione, ben al di sotto del 2% indicato come limite di convergenza “cooperativo” nel trattato UEM - cioè un limite su cui si dovrebbe esattamente convergere non solo deflazionando se si è oltre, ma anche “riflazionando” se se ne è al di sotto-, è lecito o non lecito (come si vedrà più oltre) a seconda della lettura delle clausole dei trattati congeniale…ai più forti.
E quindi ai paesi "core", che non si trovano mai in minoranza nel "consiglio" UE, sebbene il meccanismo, -amplificato nei suoi effetti deflazionistici dal c.d. fiscal compact, fino a innescare un trend recessivo esteso a tutta l’area-, cominci a essere “denunziato” nelle trattative sotterranee che i francesi in primis tenderanno a intraprendere, per correggere gli squilibri commerciali senza dover inseguire una politica deflazionistica a costi sociali crescenti, assistendo cioè al dilagare di una disoccupazione non tollerabile e non necessaria in una razionale politica di crescita.
2- IL DISEGNO COMPLESSIVO INSITO NELL’EURO.
La questione, una volta subentrata la pesante crisi da squilibri commerciali attuale, viene spesso posta in termini di recupero della competitività mediante aumento della produttività. Ma tale controversa impostazione non può nascondere le evidenze scientifiche che comprovano che la competitività e la bassa inflazione dipendono essenzialmente dal Costo del Lavoro per Unità Produttiva (CLUP) e quindi ogni politica di correzione, finisce in ultima analisi per perseguire la contrazione del costo del lavoro (variazioni comparate dei salari reali) e la caduta della domanda interna.[13]
Nè si può, poi, seriamente dimostrare, in situazione recessiva e con diminuzione di consumi e, specialmente, di investimenti, che si possa ottenere un aumento della produttività "non a causa di stipendi in diminuzione", uscendo tale assunto da ogni verosimiglianza scientifica; a ciò segue la inattendibilità della concomitante ipotesi, contraria a ogni evidenza, di considerare, o quantomeno di “dichiarare”, la recessione indotta da austerity fiscale come l'ambiente ideale per effettuare immaginifici “massicci” investimenti in Innovazione, Ricerca &Sviluppo, facendogli avere effetto in 1 o 2 anni (!), laddove, invece, si registrano insolvenza diffusa e caduta verticale di risparmi e investimenti.
Ma anche a voler adottare ora la stessa strategia della Germania, i problemi sono difficilmente superabili: la diminuzione dei salari reali, comunque, potrebbe portare al "recupero" di competitività su altri paesi (che utilizzino la stessa moneta…se no ci pensavano molto meglio le variazioni naturali dei cambi nominali) solo se non perseguita, come ora si vuole nei PIGS, in direzione pro-ciclica, allorchè la inevitabile caduta della domanda aggregata interna, porta a disoccupazione e deindustrializzazione, nonché all’apertura ulteriore di tali economie al controllo estero delle proprie imprese, più facilmente acquisibile a vantaggio dei paesi in attivo commerciale.
Questi ultimi, pur ove, per taluni settori (soltanto, quelli esportatori), riaumentino i livelli dei salari, hanno goduto e continuano a godere di un vantaggio di competitività (da tasso di cambio reale), hanno dunque accumulato prolungati attivi della bilancia dei pagamenti e dispongono, per tale motivo, dei capitali per impadronirsi delle economie indebitate (ancor più dagli effetti recessivi dell'austerity).
Si può riscontrare come, ad es;, l'Irlanda (estero controllata sul piano dei capitali immobilizzati) non può che rischiare di riprodurre meccanismi shock legati alla dipendenza dai mercati finanziari esteri, dato che può “punire” i salari quanto vuole, ma non può raddrizzare strutturalmente il carico dell'indebitamento privato con l'estero e stabilizzare l'attivo della bilancia dei pagamenti, se non a costo di una costante ulteriore compressione salariale e della domanda interna (accompagnato da una sostanziale “istituzionalizzazione” della proprietà estera di capitali produttivi, con esportazione dei relativi profitti e interessi sui capitali investiti, incidente, come pare dimenticare l’attuale dibattito in Italia, sulla voce dei redditi del saldo- negativo- della partita corrente della bilancia dei pagamenti).
L'assurdità di questi riallineamenti al ribasso dei CLUP, - operati pro-ciclicamente, quale regola-guida dell' "austerità espansiva" durante una crisi da debito, privato (cioè originato dagli squilibri commerciali e dall’import) e non pubblico-, viene proposta come una di quelle riforme di "lungo-periodo" che dovrebbero in qualche modo riallineare i paesi in difficoltà (le cosiddette cicale) verso i virtuosi.
Si omette perciò di considerare il fatto che le cosiddette “formiche” (cioè i virtuosi che stanno sotto il target fissato del 2% di inflazione), hanno preventivamente, e senza alcuna giustificazione se non quella della competizione commerciale, aggiustato il tasso di cambio reale via deflazione salariale (-6% in termini reali, per i salari dei lavoratori tedeschi nell'ultimo decennio), con la segnalata distorsione del mercato UEM, attraverso "svalutazione competitiva" volta all’export e alla minor convenienza dell’importazione dai partners. Contemporaneamente, il sistema manifatturiero-produttivo tedesco ha fruito di una fiscalizzazione dei propri costi: infatti, lo Stato federale, a seguito delle riforme Hartz ha amplificato il proprio deficit oltre il limite sancito da Maastricht, nei primi anni di circolazione dell’euro, a causa della spesa pubblica originata dal welfare connesso a disoccupazione e sotto-occupazione (i c.d minijob).
Si tratta di un’antica propensione di politica economica intesa all’aggressività verso i mercati degli altri paesi. Già l'economista italiano Serra nel 1613, prima di Kaldor (il grande economista vicino a Keynes) ad esempio, riconosceva che l'industria manifatturiera è uno dei motori della crescita, posto che non dipende dalle condizioni climatiche, produce beni durevoli, ed è soggetta a rendimenti di scala crescenti in quanto può essere moltiplicata con minore proporzione di spesa.
I tedeschi (e gli altri paesi “core”, ex area-marco) in uno scenario che, almeno fino alla crisi finanziaria mondiale dei sub-prime, registrava una domanda dei loro beni, hanno incentivato quest’ultima mediante credito (privato) largamente concesso dal loro sistema bancario, inoculando la “droga” dei capitali prestati ai paesi periferici (per permettere a questi ultimi l'acquisto di auto e beni durevoli ecc.), con l’effetto anche di aumentare il livello, e il differenziale, di inflazione in tali ultimi paesi, a causa del forzoso aumento della domanda e dei consumi, amplificando i differenziali di tasso di cambio reale .[14]
Sopraggiunta la crisi dei sub-prime, di cui la Germania con la Deutsche Bank è stata protagonista in negativo, il cosiddetto sudden stop creditizio ha provocato la caduta della domanda dei paesi periferici, scoperchiando il vaso di pandora dei loro crescenti debiti privati ed esteri. Il mantenimento persistente di tassi di inflazione al di sotto della media europea ha causato la paralisi/morte dei “più deboli” sistemi produttivi: quindi un maggior CLUP, corrispondente a minor competitività, per i partner europei quali Grecia, Portogallo e Spagna, a vantaggio dei tassi di interesse reali sempre più alti, goduti dai paesi creditori.
Ora si chiede che tutti, in Europa, si riallineino abbassando i CLUP. Certo, è teoricamente possibile. Ma si deve sapere che ciò è realizzabile solo creando ampia disoccupazione e connessa recessione. La curva di Phillips ci spiega che la crescita del salario è inversamente proporzionale rispetto al tasso di disoccupazione: la direzione di tale politica e dei suoi effetti trova conferma nei tassi di disoccupazione di Spagna, Grecia, Irlanda, Italia (e, perchè no, della Germania durante i primi anni di applicazione delle riforme Hartz, quando si è avviata preventivamente la accelerazione deflattiva).
L’impostazione rende logico porsi questo interrogativo: se tutti sono parimenti competitivi a chi si vendono questi beni "equivalenti" nei prezzi (in mera teoria)? La verità, sempre ipocritamente taciuta, è che in un'OCA”imperfetta” per ammissione dei suoi stessi creatori, quale indubbiamente è l’area euro, chi "colpisce" per primo, comprimendo i salari e il CLUP (quindi i tassi di cambio reale legati all'inflazione differenziale) consolida il vantaggio.
Il riallineamento competitivo via “taglio” dei salari "successivo", infatti, unito alle misure di austerità imposte per l'ugualmente pro-ciclico consolidamento fiscale (che tende rigidamente a garantire i creditori interni alla stessa area), provoca una tale caduta della domanda nel paese "a maggior inflazione" (salariale e anche indotta dalla domanda drogata dai crediti esteri) da:
-deindustrializzarlo e vanificare con un "effetto strozzatura" la ipotetica riespansione della produzione (impianti in gran parte smantellati);
- colonizzarne a "fabbrica cacciavite" l'economia (lavorazioni a minor valore aggiunto, non esigenti investimenti, resi progressivamente impossibili dalla caduta verticale della domanda e dal credit crunch).
Questa seconda ipotesi è quella che più incombe sull'Italia, anche a causa della originaria via italiana al "tentativo" di deflazione salariale, cioè il precariato "sotto-demansionante", che dissuade, in pratica, data la maggior convenienza industriale del lavoro sotto-qualificato e temporaneo, da investimenti in IR&S. La “regressione industriale” non potrà nemmeno essere scongiurata da, peraltro denegati, interventi "illimitati" della BCE-ESM riduttivi degli spread che, come già evidenziato, agiscono sugli effetti e non sulle cause degli squilibri provocati dalle "monete uniche".
Stiamo correndo, comunque, vada, verso la dissoluzione della democrazia fondata sulla tutela del lavoro (art.3, paragrafo 3, tr. istitutivo UE e 145-148 tr. sul "funzionamento" dell'UE) e più ancor che l'Europa, stiamo distruggendo la sua cultura civile, vìolando, oltretutto, come si vedrà, le stesse regole "fondamentali" che Stati membri e istituzioni UE si erano imposte.
Bisogna dunque essere coscienti che, in esito al processo di riallineamento attualmente perseguito, si creerebbe, all’interno dell’Europa, una "specializzazione" produttiva e finanziaria tra:
1. paesi centrali UEM, destinati a mantenere un più forte avanzo commerciale, perchè lo nutrirebbero di merci ad alto valore assoluto e aggiunto;
2. paesi "cacciavite", soggetti a concorrenza e congiuntura più forti, in ragione della maggiore esposizione concorrenziale extra-UEM, cioè da parte dei paesi emergenti.
Tanto più che il "cosa" produrre e "dove", in questo assetto, lo deciderebbe la Germania, o altro paese “core”, che acquisirebbero il controllo dei sistemi bancari e produttivi degli altri (di fatto la cosa è già in atto e il vero rischio, per la Germania, è la pendenza delle sofferenze sub-prime annidate…negli USA, nelle famose controllate “discarica” del loro "estroso" sistema bancario).
Per l'Italia questa non solo sarebbe una colonizzazione neppure strisciante, ma anche la "garanzia" di decine di anni di crescita stagnante, dove il valore ridotto pro-unitario dell'export e la debolezza della domanda interna, si accoppierebbero alla più accentuata ciclicità dei mercati delle tipologie di beni prodotti in concorrenza ai “paesi emergenti”. Ovviamente, la disoccupazione dovrebbe sempre rimanere "incombente", da cui l'attenzione spasmodica sulle riforme "strutturali" che si riducono essenzialmente a politiche di deflazione salariale, o di contrazione della spesa pubblica, cosa che, in termini di praticabilità degli investimenti, e della conseguente crescita della indispensabile occupazione “qualificata”, ha un effetto equivalente.
In questa situazione, la politica tedesca soffre della intrinseca contraddizione logica di imporre prima uno standard di competizione elusivo dello “spirito” cooperativo che dovrebbe permeare le regole dell’Unione, e poi di imputare agli altri, che hanno subito gli effetti distorsivi di tale politica, responsabilità e misure di adeguamento che finiscono per aggravare sia la posizione dei debitori, sia la propria stessa sicurezza nella posizione di creditore. Rifiutando di prestare, ora come prima, la cooperazione indispensabile per poter coesistere all’interno di un’area valutaria comune.[15]
Diciamo che è una questione di "potere", (cioè di un tipico corollario dell’imperialismo mercantilistico), esercitabile su "altri", invece che di giustificabili timori di maggiori aggravamenti dei propri conti pubblici.
Cerchiamo di spiegarci meglio: se “saltano” i sub-prime in USA e le banche tedesche sono "esposte" in sofferenze (e lo sono ancora, come s’è detto, specie le controllate USA), alla Germania non salta in mente di dire alle proprie banche: “avete sbagliato a concedere il credito ora sbrigatevela da soli”. Lo Stato federale è intervenuto a trasferire soldi pubblici (sottratti ad altri scopi del pubblico bilancio) alle banche, del cui "sistema" è, oltretutto, azionista circa al 40%.
Ma se la stessa situazione di insolvenza si verifica per i greci o per gli irlandesi, sono i rispettivi Stati che, - in situazione di crisi di liquidità determinata dall'innalzamento del debito privato oltre ogni sostenibilità (per consumi a "debito"...di beni importati e per afflusso di capitali dai paesi “core”, prestati in ragione di interessi nominali, e reali, più alti e crescenti, espressi nella stessa valuta, ed impiegati in un'eccessiva intrapresa immobiliare)- danno i soldi alle proprie banche.
E come fanno? Emettendo debito pubblico, cioè gravando i cittadini, già debitori a titolo privato degli stessi “creditori”.
Questo debito pubblico, a sua volta, provocando la crescita della domanda di credito in una moneta priva del sostegno di un prestatore di ultima istanza, sarà più difficile da collocare e ne crescerà l'onere per interessi (che gravano sul bilancio pubblico fino a diventare insostenibili). Chi sottoscrive questi titoli pubblici (le stesse banche creditrici dei privati, tra l'altro), dunque e va ribadito, lo fa per gli interessi più alti, guadagnandoci; e, beninteso, come già più alti erano gli interessi reali riscossi per i crediti “facili” erogati, allo stesso sistema privato dei paesi periferici,…proprio per cui sostenerne la domanda di beni importati.
In tale situazione, gli interventi di iniezione di liquidità “a carico”dei vari fondi UE, per salvare il bilancio pubblico del paese debitore dal "fallimento-insolvenza", sono attualmente, per patto tra Stati membri, ripartiti per quote proporzionali tra tutti gli Stati stessi: la Germania eroga, (per ordine di grandezza del PIL) la quota maggiore, anche se però "riceve" in successiva restituzione (del debito privato sottostante) anche una quota ben maggiore del volume complessivo dello stesso intervento, ma non a livello pubblico, appunto a livello privato bancario.
Cioè i soldi tedeschi in uscita per il “salvataggio” (più o meno gravanti su ogni cittadino, procapite, quanto gravano sul cittadino italiano o francese) sono corrisposti emettendo debito pubblico o garanzia equivalente: il che significa che, per rimpolpare, in definitiva, le proprie banche, la Germania emette un debito "avvertito" dai contribuenti in quanto pubblico, e perciò l'esigenza politica di incolpare il debitore privato greco o PIGS di questo "aggravio" fiscale, non addossando in modo trasparente la responsabilità al proprio sistema bancario, irresponsabile prestatore. Ma l'aggravio è sempre molto minore di quello che la Germania dovrebbe sopportare, per gli stessi comportamenti "imprudenti" bancari, al di fuori dell'UEM. In tal caso si prende in carico, sul bilancio pubblico, di tutto il credito bancario inesigibile, com'è accaduto appunto nel caso dei subprime USA.
L'alternativa sarebbe lasciare fallire le banche e nazionalizzarle per garantire i depositi (entro limiti ragionevoli), nonché separando gli istituti di credito commerciale da quelli speculativi finanziari, che agiscono sui mercati con la logica del proprio profitto e non dell’interesse dei risparmiatori che gli affidano i capitali impiegati. Ma le banche comandano (tramite Bundesbank) e non lo consentono...per ora (finchè i cittadini UE tutti non si desteranno dal torpore “europeistico” in cui sembrano piombati).
Alternativamente, appunto, si può creare senza limiti, tramite la BCE, "nuova" liquidità per acquistare i titoli pubblici in euro, nella misura e per tutto il tempo necessari. Ma qui subentra la paura dell'inflazione, irrazionalmente alimentata nei termini visti in precedenza.
Quindi, in definitiva, il rifiuto tedesco (a ogni tipo di intervento) è del tutto irragionevole e determinato esclusivamente da una visione politica di breve termine, che dimentica la "ragione"del credito concesso, privato a privati, e che sta alla base di tutto: il sostegno delle proprie esportazioni agevolate dalla moneta comune (cioè dalla immutabilità del cambio nominale, potendosi invece agire svalutando il tasso di cambio reale, tramite la compressione retributiva). Ma questa è una crisi "tipica" e già ampiamente vista e prevedibile dagli economisti tanto più qualificati, quanto tutt’ora inascoltati. [16]


3- EURO E VIOLAZIONE DELLE NORME DEI TRATTATI, ISTITITUVO E SUL FUNZIONAMENTO DELL’UE, DA PARTE DI GERMANIA E ISTITUZIONI UE
Detto questo, sforare, come ha fatto la Germania al tempo delle riforme Hartz, il limite debito/PIL (che quasi inizialmente rispettava) per”fiscalizzare”, (fuori da una situazione congiunturale in atto, attenzione!) i costi di disoccupazione-sottoccupazione, indotte per deflazionare le retribuzioni, vìola:
A) l'art.107, paragrafo 1, ultima parte, dell'attuale trattato sul funzionamento dell'unione (TFUE), in materia di “aiuti di Stato”, laddove si ottenga (appunto "in qualsiasi forma") una riduzione dei costi delle proprie imprese, incidente sugli scambi tra paesi membri, come nel caso, mediante la svalutazione del tasso di cambio reale, che provochi, a sua volta, un vantaggio concorrenziale asimmetrico “intenzionale”, sia per le proprie esportazioni, sia, e ancor più, a favore di una restrizione delle importazioni (questo l'effetto forse più rilevante del gioco sui tassi di cambio reale);
B) l’art.107, paragrafo 3, TFUE, cioè il complesso delle clausole in tema di “legittimazione”, in sede UE, a ricorrere agli aiuti di Stato in funzione anticongiunturale e di tutela di interessi “sensibili”. Ed infatti, la situazione attuale, tra l'altro, autorizzerebbe, (se non ora quando?) tutti i paesi in strutturale deficit della bilancia dei pagamenti, con alti livelli di indebitamento privato/estero -e non pubblico!- oltre la media per un periodo prolungato e significativo, (rilevabile sul sistema T2)- a lanciare programmi di aiuto ai sensi dello stesso art.107, par.3, lett.a), b), d) del Trattato sul funzionamento dell’Unione...ma tali paesi non possono farlo in quanto il fiscal compact, come corpo di disposizioni speciali "euro-zona", impedisce deliberatamente l’adozione di misure essenziali in origine legittime secondo il trattato, vincolando le politiche fiscali alla autodistruzione dei rispettivi sistemi industriali e alla cristallizzazione degli squilibri di area (altrimenti doverosamente compensabili);
- C) l'art.34 dello stesso Trattato sul funzionamento dell’Unione: "sono vietate tra gli Stati membri le restrizioni quantitative all'importazione nonché qualsiasi misura di effetto equivalente (tale essendo la deflazione salariale al fine di deprezzare il tasso di cambio reale, giustificata solo da fini di competizione mercantilistica).
Ma la stessa Commissione e il consiglio UE, non vanno esenti da una “imprecisa” e omissiva applicazione dei trattati, come essenzialmente evidenzia De Grauwe. Ciò può desumersi dall’oggettivo contenuto di una serie di disposizioni dei trattati medesimi, interpretate correttamente e, soprattutto, nella piena espansione delle clausole in esse contenute:
ad es., l’art.5 del TFUE
“1. Gli Stati membri coordinano le loro politiche economiche nell'ambito dell'Unione. A tal fine il Consiglio adotta delle misure, in particolare gli indirizzi di massima per dette politiche. Agli Stati membri la cui moneta è l'euro si applicano disposizioni specifiche (ancor più stringenti e ancor più ignorate n.d.r.)...
2. L’Unione prende misure per assicurare il coordinamento delle politiche occupazionali degli Stati membri, in particolare definendo gli orientamenti per dette politiche.
3. L'Unione può prendere iniziative per assicurare il coordinamento delle politiche sociali degli Stati membri.”
Dove siano finite queste misure e iniziative per coordinare politiche economiche, occupazionali e sociali, a fronte del conclamato atteggiamento, tenuto dalla Germania, di unilaterale e non cooperativa alterazione degli equilibri, già di per sé estremamente difficili da raggiungere, è un interrogativo che non ci si può esimere dal porsi[17].
Cercare altre norme nei trattati, oltre a quelle menzionate, si può (v. infra), ma solo per accorgersi che non vengono fatte rispettare nella lettera e nello spirito e tutto rientra nello stesso "disegno" tanto evidente, quanto, nella sostanza, prevalentemente taciuto dai media europei, forse troppo influenzati dalla loro proprietà finanziaria.
E’ pur vero che, proprio in questi ultimi giorni, la Commissione pare avere avuto un parziale “ravvedimento”, forse stimolata dagli unanimi pareri di tutti gli economisti più prestigiosi nel commentare la criticità della situazione di “asimmetria”, apertamente perseguita, in cui si continua a indugiare [18], iniziando a porsi il problema dell’atteggiamento tedesco.
László Andor, commissario europeo per gli affari sociali, intervistato da FAZ.net, ha preso posizione con il rappresentare ai tedeschi questa “dura verità”: “le vostre politiche di dumping salariale hanno contribuito alla crisi Euro, non è tutta colpa dei latini[19]. Si riportano alcuni passaggi salienti:
“Gli squilibri nell'Eurozona non sono solo il risultato di politiche sbagliate nei paesi in crisi. La Germania ha avuto un ruolo importante, con la sua politica mercantilista ha rafforzato gli squilibri in Europae causato la crisi. In futuro dovremo seguire da vicino lo sviluppo dei salari a livello europeo e fare in modo che all'interno dell'area monetaria non divergano in maniera così forte, come è accaduto negli anni precedenti.
La commissione intende verificare la politica economica degli stati e per fare questo ha in mano i mezzi necessari per procedere contro gli Stati che non fanno nulla contro gli squilibri nella zona Euro. La Germania tuttavia deve porre a se stessa la domanda, se nell'Unione Europea intende procedere secondo il motto : "in Europa non sono tutti uguali".
Circa tale nuova “attenzione”, da parte della Commissione, ai problemi degli squilibri commerciali e dei tassi di cambio reale, viene da chiedersi: perchè lo fanno solo “ora”, mentre si accingono (dal 2013 in poi) "anche" ad applicare le nuove sanzioni previste dal fiscal compact (che non potrà che accelerare i problemi stessi, facendo languire le economie “indebitate” via deficit delle partite correnti e ritorcendo contro la stessa Germania i problemi di drastica riduzione della domanda di cui continua a non curarsi)?
In effetti, volendo anche solo focalizzare sulle politiche europee dell’occupazione, gli artt. 145-148 del Tr. sul funzionamento UE risultavano già violati, fin dai primi anni 2000, dal complesso delle politiche tedesche e, segnatamente, delle riforme Hartz. Le clausole oggettivamente ignorate, all'interno di tali previsioni, sono molteplici. C'è solo da scegliere.
La commissione stessa è dunque, fino ad oggi, venuta meno ai criteri di monitoraggio, coordinamento e promozione dell'art.147, per cui doveva "tenere conto" dell'"obiettivo di un livello di occupazione elevato", cioè nel quadro dell'art.3, paragrafo 3, del Trattato sull'UE, che pone l'obiettivo della "piena occupazione" ed è dunque strutturalmente incompatibile con politiche del lavoro nazionali il cui effetto si risolva nella "deflazione salariale" non necessitata (come si torna a sottolineare) in base a congiunture internazionali, circostanza pacificamente ammessa dai tedeschi.
Ciò, per di più, in un quadro non coordinato a livello UE di politiche del lavoro -art.146, comma 2, TFUE- e che si è risolto, come si è visto sopra, in misure di effetto equivalente alla restrizione delle importazioni rispetto agli altri Stati membri (art.34 st.Tr.).
Inutile dire che risulta “dimenticata”, rispetto alla linea tenuta dalla Germania all’interno dell’area UEM, anche l’attivazione, da parte della Commissione, dei meccanismi di accertamento e “avvertimento” previsti dall’art.120 par.4, TFUE.
4- QUESTIONE DI DIRITTO RELATIVA ALL’EURO-EXIT.
Partiamo dal quadro dimostrativo qui costruito sulla base non solo delle analisi compiute dai maggiori economisti, ma anche delle ammissioni provenienti dalla stessa Germania. Quest’ultima, unilateralmente, e nel solco della sua tradizione “deflattiva” orientata all’esportazione, riassumibile nella formula “imperialismo mercantilista”, ha violato, quantomeno nello “spirito” connesso al necessario intento cooperativo all’interno di un’unione monetaria, le norme sopra evidenziate.
E tale violazione assume, nella sua logica competitiva e non cooperativa, un particolare connotato lesivo proprio nei confronti dell’Italia, maggiormente colpita dalla logica mercantilista innescata dalla Germania. Di ciò tale paese è stato cosciente fin dallo stesso concepimento della moneta unica.[20]
Si potrebbe dire che la Germania è fuoriuscita, con il suo comportamento, dalla “giustificazione causale” dell’intero impianto pattizio UEM, respingendo unilateralmente la funzione “socio-economica” del trattato (ciò sul piano contrattuale corrisponde alla violazione del dovere di adempimento secondo “buona fede” in senso oggettivo, esprimendosi tale “correttezza” nell’onere di sostenere ogni ragionevole sacrificio per rispettare il normale significato che le controparti potevano attribuire ai vincoli comunemente assunti)..
A ciò, va aggiunto, a titolo esemplificativo ulteriore, che, in un esame sistematico delle pletoriche disposizioni dei trattati, risultano fondamentalmente disattesi anche:
- l'art.120 del TFUE, che obbliga gli Stati a “coordinare le politiche economiche per realizzare gli obiettivi dell'art.3 del trattato sull’Unione europea” (più volte citato), tra cui appunto la “piena occupazione”;
- l'art.127 stesso tr., che vincola la politica monetaria, oltre che alla stabilità dei prezzi, anche al sostegno di “politiche economiche generali nell’Unione al fine di contribuire alla realizzazione degli obiettivi dell’Unione definiti nell'art.3 del trattato sull’Unione europea”.
Quest’ultimo aspetto è “singolare”, perchè, pur gettando una luce alquanto diversa sui presunti limiti di intervento della BCE, e più ampiamente del SEBC, cioè del “sistema europeo delle banche centrali”, il mandato di tali (uniche) istituzioni UEM pare essere stato, fin’ora, inteso in contraddizione con la esplicita lettera dell’art.127, rimanendo ignorato il richiamo agli obiettivi dell’art.3, in specie alla predetta “piena occupazione” (come se tali parole, nell'art.127 stesso, non fossero affatto scritte).
A questo punto l’uscita dall’euro e dal suo inestricabile sovrapporsi di politiche monetarie e fiscali inevitabilmente squilibrate, che acuiscono la situazione di sua originaria “disfunzionalità tecnico-economica”, con devastanti conseguenze per i paesi finiti nella inevitabile situazione di importatori-debitori esteri-fiscalmente deficitari, diventa una questione che ha varie qualificazioni giuridiche possibili.
Non ultima quella per cui, l’alterazione del modo di intendere la lettera e la portata delle norme del Trattato nella loro piena forza espansiva, “resecandone” il disposto in modo da avvantaggiare unilateralmente una parte del trattato, risulta addirittura “ultra vires” rispetto alle competenze dell’organizzazione sovranazionale, rendendo fortemente dubbia tutta la legittimità comunitaria (o “europea”) di successive pattuizioni, quali six packs e fiscal compact, che non risultano più avere un adeguato e sufficiente antecedente convenzionale (di fonte superiore “legittimante”) nelle previsioni del trattato pienamente intese.
Circa i mezzi legali di “uscita” si richiama talvolta l'art.50 TFUE: questo prevede una procedura di uscita dall'Unione che non pare però attagliarsi al caso della cessazione dello specifico vincolo pattizio riferito all’euro.
Infatti, si tratta di una norma "speciale" ma ciò, in primo luogo, non in quanto contenuta in un trattato (cioè nel diritto internazionale “speciale”), ma per la sua particolare “onerosità” procedimentale e politica. Di per sè, in quanto tale, deve interpretarsi con riferimento al suo specifico oggetto: regolare con una procedura politicamente “rafforzata”, e in modo da indurre consistenti tempi di ponderazione al paese interessato, l'uscita dall'Unione in forma di "recesso".
Si tratta, cioè, della decisione volontaria di uno Stato, politicamente discrezionale (libera nei “motivi” e nei “fini”), entro i limiti del rispetto della procedura. Peraltro nella procedura stessa sono previsti ampi limiti di deterrenza e una parziale sindacabilità della scelta. La finalità “riflessiva” e la distillazione di tempi e adempimenti, nell’ambito di tale complessa procedura, peraltro, come si è anticipato, costituisce dunque la vera "specialità" della disciplina, essendo invece l'ipotesi di recesso volontario tout court, corrispondente alla prassi prevalente (salvi opportuni tempi di preavviso), specie se si tratti di patti internazionali ad ampio “impatto”, in ragione della vastità e incidenza dell’oggetto e dell’intenso vincolo politico che implicano, prolungato in un arco di tempo praticamente “illimitato”.
Inoltre, quella prevista dall’art.50 è, sotto un altro profilo, un'ipotesi non connotata dal ricorrere di un "legittimo" e giustificato" motivo di auto-tutela della sovranità e dell’ordine pubblico interno propri di un certo Stato-membro. Il suo specifico oggetto-procedura pone, come s’è visto, il problema della sua applicabilità o meno, anche in via analogica, al caso del recesso “meramente volontario” (non “causale”) dalla sola Unione monetaria: tale limite interpretativo, sul piano della teoria generale, escluderebbe la possibilità dell’applicazione analogica al caso dell'uscita delimitata alla moneta unica.
Quest'ultimo caso va allora ricondotto alle norme generali del diritto internazionale anche sotto ulteriori profili.
Tra queste ultime norme rilevano (ormai come prassi internazionale consolidata) quelle della Convenzione di Vienna in materia di diritto dei trattati, conclusa nell’ambito della cornice ONU: si tratta di una sorta di codice (in parte ricognitivo della prevalente consuetudine e in parte fondativo di un nuovo diritto consuetudinario), relativo alla disciplina di tutte le fonti pattizie e che si applica, perciò, a tutti i trattati compreso quello UEM- sebbene la cosa sia complicata dal fatto che “Maastricht” contiene anche norme non riguardanti la UEM e che, comunque, quest’ultimo trattato risulta poi inglobato nel trattato sul funzionamento dell’Unione (a sua volta frutto del consolidamento conseguente alla conclusione-ratifica del trattato di Lisbona).
In linea di principio, denuncia o recesso – “meri”, cioè non connotati dalla legittimazione alla “rottura” fornita dai comportamenti “alteranti” altrui, o da cause sopravvenute di disfunzionalità ed eccessiva onerosità -, sono possibili allorchè previsti, anche implicitamente, dallo stesso trattato considerato. E sulla individuazione di una volontà implicita di “risolubilità” del vincolo della moneta unica non influisce, ovviamente e per definizione, la mancanza di previsione “espressa”, rendendo ciò solo più difficile il percorso emerneutico, difficoltà “ricercata” dalla commissione “Attali”, che tuttavia non preclude, appunto, di superarla. [21]
L'art.50 TFUE sopra citato, conferma semmai che, al di là della specialità derivante dalla sua peculiare procedura, i trattati UE contemplano implicitamente (come prevede in materia la Convenzione di Vienna), in forza di oggettivi fatti concludenti, e in considerazione della loro natura di convenzioni senza termine finale, la normale ipotesi di una volontà negoziale nel senso della estinguibilità per recesso-denunzia “anche” del trattato UEM, cioè dell’insieme delle relative disposizioni in quanto scorporabili dal corpo più ampio dei trattati UE.
D’altra parte, tali considerazioni nulla escludono, circa le "altre" connesse cause generali di estinzione ex parte coinvolta, previste dalla Convenzione di Vienna medesima. Tra queste ultime, "l'inadempimento della controparte" (art.60: principio “inadimplenti non est adimplendun”) e la sopravvenuta impossibilità dell'esecuzione (art.61 c.d. clausola rebus sic stantibus, art.61).
A fronte del quadro di alterazioni "rimarchevoli" dello spirito e della lettera di molte fondamentali clausole del trattato, quale sopra ampiamente evidenziato, queste ultime due cause di estinzione volontaria appaiono ampiamente utilizzabili da parte dello Stato italiano, una volta che l’interesse che giustifica l’originaria adesione al trattato stesso, fosse nuovamente e correttamente riferito al livello di tutela proprio della comunità statale che ha originariamente espresso la sua adesione.
In altri termini, la funzione e gli obiettivi fondamentali dell’Unione, anche nella loro proiezione “monetaria” (concretizzatasi nella scelta dell’adozione dell’euro), non possono che individuare, come parametro di correttezza dei comportamenti riconducibili ai vincoli pattizi, l’interesse negoziale, “reciproco” e condiviso, dedotto dal soggetto (statale) aderente. Tale interesse ha una sostanza giustificativa inevitabilmente comune a tutti gli Stati-membri, dunque valevole come “condizione” essenziale (paritaria) per l’adesione, e deve necessariamente consistere nella promozione del “benessere” dei cittadini che in quel soggetto aderente si riconoscono.
Da tale rilievo, tra l’altro, si può trarre la ragionevole e obiettiva deduzione interpretativa che la stessa manifesta violazione delle condizioni di parità “di interesse sostanziale” tra Stati (e rispettivi cittadini soggetti alle conseguenze politiche economiche del trattato) integri di per sé la “eccessiva onerosità” che giustifica l’invocazione della clausola “rebus sic stantibus”.
Su questo solco interpretativo, va allora rammentato che l’art.11 Cost., seconda parte. afferma che l’Italia “ consente in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”.
Pertanto, alla luce della giustificazione costituzionale e della “causa naturale” della stessa partecipazione “europea”, ove:
- nell’applicazione di un trattato tali condizioni di parità non siano state effettivamente reciprocamente garantite, in conseguenza di un’interpretazione “inattesa”, secondo il metro della “buona fede in senso oggettivo”, ovvero addirittura “dolosa”, delle clausole del trattato da parte di altri Stati membri;
- le posizioni univocamente assunte da altri partners - che abbiano vìolato o “eluso” principi o obiettivi fondamentali della convenzione-, mostrino che le medesime “condizioni”(parità e perseguimento omogeneo del benessere dei cittadini) siano divenute non più avverabili a costi obiettivamente ragionevoli, nonché coerenti con un quadro correttamente cooperativo (che è la “causa” generale “tipica” di tale tipo di trattati);
- ne discende che la denunzia del trattato secondo, quantomeno, il principio “rebus sic stantibus” (mutamento essenziale dei presupposti giustificativi del patto internazionale), appare un dovere attuativo della previsione costituzionale.
Alla luce delle (impressionanti) evidenze espresse dalle analisi concordi della comunità scientifico-economica, l’alterazione delle “condizioni di parità”, nonchè l’irreversibile mutamento dei presupposti essenziali che hanno giustificato l’assunzione del vincolo, (secondo le dichiarazioni pubblicamente espresse dalle parti in sede di trattativa), si stanno palesando in un modo conclamato dai fatti. Tali fatti, segnalano, quantomeno, la sopravvenuta eccessiva onerosità del vincolo UEM, laddove assunti secondo attendibili e ampiamente condivise analisi degli effetti economici provocati, sicchè essi risultano contrastanti con gli obiettivi costituzionalmente legittimi di una possibile prosecuzione della vigenza del trattato in questione.
Come riflessione finale, vale la pena di osservare che la rilevanza del geschaftsgrundlage - cioè della c.d. “teoria della presupposizione”, cui si riconduce il brocardo “rebus sic stantibus” racchiuso nell’art.61 della Convenzione di Vienna- è ben considerata nell’ambito dei principi e dei valori promossi dalle istituzioni europee: “Das ist nicht eine diplomatische Floskel, mit der wir angenehme Geschäfte wie eine Höflichkeitsformel einleiten, sondern das ist die Geschäftsgrundlage” (trad: “tale affermazione non è una vuota formula diplomatica né una frase di cortesia cui ricorriamo per fare affari piacevoli; al contrario, essa esprime le condizioni stesse alle quali vengono conclusi i nostri affari”).
Questa definizione, non a caso, è ricavabile dal seguente link: http://www.europarl.europa.eu/, aprendo il quale si trova la formula “Welcome to the European Parliament”.
Sarebbe singolare che la locuzione “lo vuole l’Europa” fosse perciò riferita solo alle più incerte e controverse decisioni monetarie e fiscali, ormai sotto l’ombra del forte dubbio che abbiano violato le norme fondamentali dettate dall’Europa stessa, e non invece assunta nell’accezione di tutela della democrazia e del benessere dei cittadini che ci suggerisce l’art.11 della nostra Costituzione.
L’idea e l’istituzione europea meritano di essere associate, piuttosto, a valori come giustizia, benessere diffuso, razionale e trasparente distribuzione delle risorse e, in definitiva, “democrazia” per tutti i popoli coinvolti nella sua tormentata costruzione.









[1] Sul punto v. Domenico Mario Nuti, “Scenari possibili dopo la crisi globale”, pagg.18 ss. Domenico Mario Nuti: Scenari possibili dopo la crisi globale
[2]In termini attualizzati alle prospettive di utilizzazione dello strumento della moneta unica, di fronte alle crisi potenziali conseguenti alla liberalizzazione finanziaria globale: Mundell Robert A. (1997), “The great contractions in transition economies”, in Mario I. Blejer and Marko Skreb (Eds), Macroeconomic Stabilisation in Transition Economies, CUP 1997, pp.73-99.

Sui nodi “monetaristici” generali del problema: Buiter Willem (2011b), The Debt of Nations Revisited: The Central Bank as a quasi-fiscal player: theory and applications, Federico Caffè Lecture n. 2, Facoltà di Economia, Sapienza Università di Roma, http://willembuiter.com/caffe2.pdf

[3] W. Buiter, citato a nota 2. Secondo quanto evidenziato da Nuti, op.cit., Buiter (2011b) stima queste risorse fuori bilancio, e quindi la NILAC (Non-Inflationary Loss Absorbing Capacity) della BCE, a ben 3300 miliardi di euro, scontandone nel tempo e sommandone le varie componenti (i profitti ottenuti dalle emissioni di base monetaria, gli interessi ottenuti investendo le emissioni passate, limposta inflazionistica anticipata ossia la riduzione del valore reale dello stock di base monetaria causato dallinflazione attesa, nonché l’imposta inflazionistica non-anticipata). Rinviamo a Buiter per gli aspetti concettuali, teorici ed empirici della sua stima. Egli dimostra che le conseguenze potenzialmente inflazionistiche di tale intervento della EBC potrebbero essere neutralizzate riducendo le dimensioni del bilancio della EBC (vendendo assets e riducendo i prestiti), sterilizzando le passività monetarie, aumentando le riserve obbligatorie, e aumentando la remunerazione delle riserve in eccesso per indurre le banche a tenerle inattive (queste ultime due misure ridurrebbero il moltiplicatore del credito bancario).
.


[4] In tal senso: D.M. Nuti “Lo strano siparietto degli eurobond” Lo strano siparietto degli eurobond / alter / Sezioni / Home - Sbilanciamoci
[5] Il tipo di meccanismi e problematiche inevitabilmente indotte dall’instaurazione di una moneta unica, con la rinuncia agli strumenti di riequilibrio commerciale consentiti dai cambi flessibili, furono evidenziati in dettaglio, con riferimento al nascente Mercato comune europeo, da J.E. Meade in “The balance of payments problems in a European Free Trade Area”, in Economic Journal, vol 67, n.267, sept.1957


[6] Il termine ha un’accezione tecnico-economica e non implica un giudizio politico-morale, ed è correntemente utilizzato dalle prevalenti analisi economiche del fenomeno v. S.Cesaratto “Europe, German Mercantilism and the Current Crisis”
http://ideas.repec.org/p/usi/wpaper/595.html.


[7] Sull’esatta determinazione di tale politica mercantilisca, deflazionistica e restrittiva della domanda interna, come tradizione storica di tale paese, v.Joseph Halevi, “Sul capitalismo tedesco”;
http://proteo.rdbcub.it/article.php3?id_article=157&artsuite=1

[8] Così Peter Bofinger, consigliere del governo di Berlino, influente economista, nel suo libro sull’euro, di cui alcuni estratti sono stati pubblicati su “Die Welt”: “ ...Ma dietro c'è un modello economico discutibile come il mercantilismo tedesco dell'ultimo decennio. Nel tentativo di diventare sempre piu' competitivi, si è perseguita una politica salariale di moderazione, accompagnata da una debole domanda dei consumatori interni. In questo modo si è potuto esportare su larga scala, soprattutto verso paesi che si sono potuti permettere il tutto a debito.”
.


[9] Si veda questo passaggio conclusivo in un rapporto FMI
(http://www.imf.org/external/pubs/ft/wp/2010/wp10226.pdf)
"The bad news is that irrevocably fixed nominal exchange rates do come at the cost of larger and more permanent trade imbalances, just as Friedman (1953) claimed more than half a century ago. The good news is that these imbalances are not completely unavoidable. With a fixed exchange rate, trade imbalances are all the smaller and their adjustment to shocks all the faster, the more flexible the national labor and product markets are. Similarly, structural reforms that smooth the business cycle (e.g., by increasing growth contributions from domestic sources in very open trade surplus economies) can help reduce precautionary savings and thereby lower trade surpluses. Finally, measures to improve the fiscal balance are likely to aid efforts to reduce large deficits in international trade." (cit.p.14).
Come per Mundell (“l’inventore” delle “aree valutarie ottimali”), rispetto al trattato UEM, come per il "Washington Consensus" (cioè la teorizzazione, all’interno del FMI, delle politiche di riduzione del debito pubblico e del welfare come vie alla crescita e alla stabilità finanziaria), rispetto al fiscal compact - sulla cui portata giuridico-economica, esistono seri dubbi di coerenza e conformità agli obiettivi fondamentali dei Trattati, quali sanciti, in particolare dall’art.3 del Trattato sull’Unione europea, in particolare dall’art.3, comma 3, e dal concetto di “piena occupazione” ritraibile sistematicamente dalle specificazioni degli artt.145-148 TFUE (v. infra), l'apparente coincidenza di vedute di principio, finisce laddove FMI, nel 2010, evidenzia, senza ipocrisie, come sia una crisi di debito privato basata su squilibri delle bilance dei pagamenti e lo diagnosticano, al FMI, citando Friedman! La differenza, dunque, è che esiste una ben maggiore soundness of thought e, paradossalmente, una maggior indipendenza dalla finance-governance nel FMI che non nelle istituzioni europee. Insomma, non si cita solo il labour market ma anche quello "products" (che esige investimenti e riduzione di precautionary savings, secondo accenti keynesiani e senza indulgere troppo nella vecchia legge di Say, cioè nell’illusione, recentemente riaccesasi, che l’offerta crei da sé la domanda)...
E infatti, FMI ora prende le distanze dalle politiche tedesche-UEM, perchè persino il deflazionare le retribuzioni è, per Mundell come per il FMI (e Friedman), un mezzo e non un fine (e d'altra parte è in contrasto patente con le citate norme dei Trattati).
Anche perché le "supply-side" politics (politiche sul lato dei costi di produzione e non sull’incentivazione di domanda pubblica e privata), oggi tanto invocate, sono diverse sia dal financial-welfare (cioè dalla protezione prioritaria dei sistemi bancari, a preferenza dell’attenzione verso l’economia “reale”, cui ci sta riducendo Bundesbank-BCE) che dalle riforme strutturali pro-cicliche invocate dal duo Draghi-Monti (dato che né Friedman nè il FMI hanno mai sostenuto che occorra praticare tali politiche in modo pro-ciclico, cioè in fasi dove la domanda è già autonomamente debole, e a costo di indurre una recessione fiscal-dragged).




[10] http://www.ilo.org/wcmsp5/groups/public/@dgreports/@dcomm/@publ/documents/publication/wcms_171571.pdf

[11] DE GRAUWE EURO Symmetries.pdf (Oggetto application/pdf)
[12] Tale conclusione è pacifica nella letteratura economica, certamente in quella extraeuropea e segnatamente anglosassone, cfr; http://www.voxeu.org/article/should-we-believe-german-labour-market-miracle
[13] Sul punto, si veda lo studio dell’ILO citato in nota 7, nonché i dati storici sull’andamento del CLUP italiano anteriore e posteriore all’introduzione dei vincoli valutari, prima dello SME “a fascia ristretta” e poi dello stesso euro.
[14] La ricorrenza “tipica” e quasi scontata di questo schema di crisi, legato in definitiva, alla liberalizzazione mondiale della circolazione dei capitali, è stata indagata (oltre che nello studio di Cesaratto citato alla nota 5) da Roberto Frenkel e Martin Rapetti nell’ormai noto lavoro “A developing country view of the current global crisis: what should not be forgotten and what should be done” A developing country view of the current global crisis: what should not be forgotten and what should be done


[15] Così Martin Wolff sul Financial Times “Ora la cura necessaria per i mali dell’eurozona imporrà un aumento dell’inflazione in Germania, che i tedeschi detestano; prolungate recessioni deflazionistiche in importanti mercati dell’eurozona; e continui trasferimenti di risorse ufficiali ai suoi partners. Tutto questo fa sì che né le conquiste economiche, né quelle politiche derivanti dall’appartenenza all’euro coincidono con ciò che i politici tedeschi avrebbero voluto. Peggio ancora, ora ci attendono anni di conflitti sui “salvataggi”, sulle ristrutturazioni del debito, sulle impopolari riforme strutturali per gli adeguamenti di competitività. Forse un doloroso divorzio sarebbe davvero meglio.
… tornare a un marco rivalutato ridurrebbe i profitti, aumenterebbe la produttività e aumenterebbe i redditi reali dei consumatori. Invece di prestare il risparmio in eccedenza agli stranieri dissoluti, i tedeschi potrebbero godere di migliori standard di vita a casa loro. Inoltre, si realizzerebbe un rapido aggiustamento della competitività tra i membri della zona euro, aggiustamento che altrimenti avverrebbe troppo lentamente, attraverso un’inflazione elevata in Germania e un alto tasso di disoccupazione nei paesi partner.
…l’uscita è davvero un’opzione. Se viene respinta, come prevedo, alla fine si verificheranno più o meno gli stessi aggiustamenti, ma in un modo ancor più doloroso. L’alternativa è l’unione di trasferimento che i tedeschi temono. La Germania ha pagato un prezzo molto alto per la sua strategia mercantilista. Dentro o fuori dell’euro, non può – e non deve – durare”.
http://keynesblog.com/2012/09/27/luscita-della-germania-dalleuro-e-unopzione-da-considerare-seriamente/


[16] http://www.tnr.com/article/economy/95989/eurozone-crisis-debt-dont-blame-greece

[17] Jacques Attali (consigliere di Mitterand e uno dei padri fondatori delle euro):
"Era evidente, e tutti coloro che hanno partecipato a questa storia lo sanno, quando abbiamo fatto l'euro, sapevamo che sarebbe scomparso entro 10 anni senza un federalismo buggettario. Vale a dire con eurobond, ma anche con una tassa europea, e il controllo del deficit. Noi lo sapevamo. Perché la storia lo dimostra. Perché non c'è nessuna zona monetaria che sopravviva senza un governo federale ... Tutti sapevamo che questa crisi sarebbe arrivata."
http://www.youtube.com/watch?v=OK169nietfk&feature=player_embedded


[18] Paul De Grauwe “In search of simmetry in the Eurozonehttp://www.econ.kuleuven.be/ew/academic/intecon/Degrauwe/PDG-papers/Discussion_papers/Symmetries.pdf

[19] Voci dalla Germania: Un po' piu' uguale degli altri?
[20] Queste le parole dell’ex cancelliere tedesco Helmut Kohl , colui che si adoperò con tutte le sue forze affinché l’Italia entrasse nella prima “tranche” dell’euro. Egli, nel 1996 affermò: “un’Italia fuori dall’euro farebbe una concorrenza rovinosa all’industria tedesca. L’Italia deve quindi essere subito parte dell’euro, alle stesse condizioni degli altri partner”.
E per “stesse condizioni”, lo sviluppo degli eventi chiarisce ora che si deve intendere “stesso trattamento” …competitivo GERMANIA: GRAZIE DI TUTTO QUELLO CHE FAI PER NOI! | icebergfinanza


[21] Queste le parole dello stesso Attali: «Abbiamo minuziosamente "dimenticato" di includere l'articolo per uscire da Maastricht.. In primo luogo, tutti coloro, e io ho il privilegio di averne fatto parte, che hanno partecipato alla stesura delle prime bozze del Trattato di Maastricht, hanno, ci siamo incoraggiati a fare in modo che uscirne ... sia impossibile. Abbiamo attentamente "dimenticato" di scrivere l'articolo che permetta di uscirne. Non è stato molto democratico, naturalmente, ma è stata un'ottima garanzia per rendere le cose più difficili, per costringerci ad andare avanti.”
Jacques Attali à propos du Traité de Maastricht: "c'était pas très démocratique" - YouTube



Pubblicato da Quarantotto
 
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L'ATTO DISPERATO DEL GOVERNO RENZI



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Con i conti pubblici che traballano sempre di più, il debito in drammatica ascesa e la domanda interna ad un passo dal trapasso, abbiamo letto che Renzi avrebbe pensato di stimolare l'economia erogando in busta paga il 50% del Tfr a maturare.


Cosa ne penso? Ne penso che è un atto disperato, anzi disperatissimo, che racconta perfettamente il vicolo cieco nel quale è precipitata l'Italia.
Certo, in cuor al governo ci sarebbe la speranza che questa partita di giro (cioè prendi oggi quel che dovresti prendere domani) venga utilizzata per aumentare la spesa dei consumi. Oppure per pagare le tasse che verranno. Dipende da come la si vuole vedere.

Ogni anno, in Italia, maturano circa 25 miliardi di TFR. Di questi, 5.2 confluiscono nella previdenza complementare; altri 6 vengono versati dalle imprese con più di 50 dipendenti nel fondo di tesoreria dell'Inps; mentre, i restanti 14 miliardi restano in azienda, salvo una parte di questi che vengono convogliati nella previdenza complementare: i così detti fondi aperti. E' ineludibile il fatto che per le imprese, il TFR che rimane in azienda, costituisca una fonte di finanziamento particolarmente vantaggiosa, considerato che il TFR viene rivalutato dell'1,5% fisso all'anno, maggiorato del 75% della variazione dell'indice Istat dei prezzi al consumo. In pratica, volendo considerare il fatto che l'Italia è in deflazione, potremmo dire che il costo sostenuto dall'azienda potrebbe essere di poco superiore all'1,5%, di gran lunga inferiore rispetto al finanziamento derivante dai canali bancari


Al netto del fatto (gravissimo) che questa misura, ove resa effettiva, sarà destinata ad impattare sulle finanze di moltissime imprese, già alle prese con gravi deficienze di liquidità per via del credit crunch che rischia di aggravarsi, al fine di evitare di far esplodere una situazione già complessa di suo, sembrerebbe che Renzi voglia utilizzare proprio i canali bancari per fare in modo che le imprese possano finanziarsi attraverso il sistema bancario, e quindi erogare il TFR in busta paga.


Questa possibilità è resa ancor più esaltante (per detta dello stesso Presidente del Consiglio) per via della liquidità che la BCE ha messo a disposizione del sistema bancario alla recente asta Tltro. Quindi, Renzi si sarà detto: "la Bce sta concedendo finanziamenti alle banche a tasso praticamente nullo, perché non utilizzare questa liquidità per smobilizzare il TFR che verrà a maturare?" Ma, purtroppo, la fantasia di chi soffre di asimmetria cognitiva rispetto alle catastrofiche condizioni in cui versano molte imprese, è destinata a scontrarsi con la realtà. E la realtà è assai più complessa di ciò che potrebbe immaginare il Presidente del Consiglio.
Vi è innanzitutto un problema di garanzie. Per via della crisi della crisi, moltissime imprese hanno visto diminuire il merito creditizio che rappresenta elemento valutativo prioritario quando si vorrebbe accedere a fonti di finanziamento bancario. Addirittura, molte imprese hanno subito una drastica riduzione di fidi. Quindi, qualora non siano affidabili per il sistema bancario, che si fa? Per renderle affidabili, la garanzia la mette lo stato? Neanche per sogno, visto che ciò impatterebbe sullo stock di debito pubblico, per via dell'inclusione delle garanzie concesse.


E questo, di per se, scoraggia di molto la soluzione prospettata da Renzi. Altra questione è quella relativa ai costi. Abbiamo detto che il Tfr, in buona sostanza, per l'impresa rappresenta una fonte di finanziamento particolarmente conveniente. A voler essere generosi, è chiaro che la banca praticherà condizioni significativamente superiori rispetto al costo che l'azienda sostiene per la rivalutare il TFR. Quindi, un maggiore onere per le imprese, che andrebbe a ridurre ulteriormente la redditività aziendale, già significativamente contratta per via della crisi. Lo stato potrebbe intervenire facendosi carico del maggior onere sostenuto dalle imprese? Tenderei ad escluderlo. Anche perché, come dicevamo, i conti, che ballano sempre a ridosso del famigerato 3% di deificit/Pil, non lasciano spazio a gesti di generosità



Certo, c'è da dire che l'erogazione in busta paga del TFR, oltre a poter stimolare i consumi, per l'erario diverrebbe anche una fonte anticipata di gettito tributario, che potrebbe contare sulla base imponibile del TFR erogato e sull'Iva derivante dai possibili consumi. Ma il gettito, con ogni probabilità, non sarebbe neanche sufficiente a colmare il buco che si aprirebbe nelle casse dell'Inps, per via del fatto che diminuirebbe il flusso di risorse da convogliare nelle casse dell'Ente.

Poi, ci sarebbe da considera anche il fatto che, con ogni probabilità, il TFR in busta paga non verrà destinato al risparmio (come peraltro spera il Governo), con enormi (e imprevedibili) risvolti sul futuro di chi (apparentemente) godrà di questa misura.
Qualche giorno fa, il Codacons ha fatto sapere che 19 milioni di italiani (1/3 della popolazione) risultano morosi nei confronti delle aziende erogatrici di servizi (luce, acqua, gas, ecc) per un totale di circa 18 miliardi di euro.
Forse, potremmo azzardare l'ipotesi che, almeno parte del il TFR in busta paga, verrà destinato a pagare utenze, tasse e imposte scadute e non ancora pagate,
Ma il punto non è tanto questo, quanto il fatto che questo viene fatto a debito: cioè contraendo un debito con il futuro, quando (?) si sarà in età pensionabile, con pensioni da fame che non garantiranno affatto standard di vita dignitosi. In questo caso, chi ha goduto e speso il TFR , non avrà alcun altra forma di sostegno al reddito (da fame) derivante dalla pensione.
Insomma, un atto disperato, appunto
 
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I SERVIZI INFORMATIVI DELLA CIA SPINGONO VERSO UNA GUERRA CATASTROFICA CON LA RUSSIA
Postato il Sabato, 11 ottobre @ 07:10:00 BST di davide
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DI KURT NIMMO
infowars.com
Udo Ulfkotte, ex direttore del Frankfurter Allgemeine Zeitung, uno dei più importanti quotidiani tedeschi, ammette di aver lavorato per la CIA.

“Sono stato un giornalista per 25 anni. Mi hanno insegnato a mentire, a ingannare, a non dire la verità al pubblico” così Ulkfotte dichiara a Russia Today. “Ero appoggiato dalla CIA. Perché? Perché ero a favore degli americani”.

Ha deciso di dire la verità su come l’alta finanza controlla le aziende dei media e ha deciso di farlo ora per paura che scoppi una guerra in Europa.


“I media tedeschi e americani stanno cercando di portare la guerra in Europa e di portarla in Russia. Siamo a un punto di non ritorno e io voglio alzare la voce e dire.. che non è giusto quello che ho fatto in passato, ho manipolato le persone e ho fatto propaganda contro la Russia.”

Ulfkotte racconta che, in Europa e negli Stati Uniti, la maggior parte delle aziende di comunicazione, le cosiddette “non-official-cover”, lavorano per un’agenzia di intelligence. “Penso che sia, più di ogni altro, il caso dei giornalisti inglesi perché hanno un legame più stretto. È ancora il caso dei giornalisti israeliani e ovviamente di quelli francesi. È il caso di quelli Australiani, di quelli della Nuova Zelanda, di Taiwan.. ci sono molti paesi coinvolti” afferma Ulfkotte.

Operazione Mockingbird
Il controllo della CIA sui mezzi di comunicazione è ben documentato. All’inizio del 1948, l’ex avvocato di Wall Street Frank Wisner, come direttore dell’Ufficio dei Progetti Speciali (che presto divenne una parte della CIA), istituì Mockingbird, un’operazione finalizzata alla trasformazione delle aziende di comunicazione in un veicolo di propaganda per l’alta finanza. Wisner affidò a Philip Graham del Washington Post la direzione dell’operazione e il reclutamento dei giornalisti, molti dei quali avevano lavorato per i servizi di intelligence military durante la Seconda Guerra Mondiale.

“Già nei primi anni ’50 Wisner aveva portato dalla sua autorevoli membri del New York Times, del Newsweek, della CBS e altri importanti mezzi di comunicazione”, così scrive Deborah Davis nel suo libro Caterina la grande: Caterina Graham e il Washington Post.

Nel 1953 l’operazione è stata affidata all’allora direttore della CIA Allen Dulles ed esercitava la sua influenza ben al di là dei media includendo il New York Times, le televisioni e in particolare CBS News sotto il controllo di William Paley. Oltre a quotidiani e televisioni, la CIA controlla la produzione cinematografica holliwoodiana”.

“La CIA archivia e raccoglie documenti supplementari con le altre organizzazioni tra cui: the New York Herald Tribune, Saturday Evening Post, Scripps-Howard Newspapers, Hearst Newspapers, Associated Press, United Press International, the Mutual Broadcasting System, Reuters and The Miami Herald”, così dichiarava Carl Bernstein, il rinnovato giornalista del Watergate, in un articolo sui Rolling Stone nel 1977.

Indizi riguardo alla propaganda via network della CIA, al suo “potente Wurlitzer”, come Wisner lo chiamava, esistono nelle rivelazioni del 1970 da parte del Church Committee.

“La CIA attualmente mantiene in tutto il mondo un intenso network di centinaia e centinaia di individui stranieri che lavorano nell’intelligence per la CIA stessa e che cercano, nei momenti più delicati, di influenzare l’opinione pubblica atraverso l’uso di una propaganda celata. Questi individui fanno si che la CIA possa avere accesso a un enorme numero di giornali e quotidiani, di elementi-chiave dell’informazione e delle agenzie di comunciazione, delle stazioni televisive e radiofoniche, delle pubblicazioni di libri e di altri sbocchi dei media stranieri”, così afferma il report di una commissione del Congresso nel 1976.

Come Alex Constantine ha documentato, l’operazione Mockingbird continua sotto diverse spoglie. Uno dei suoi più grandi promotori, Richard Mellon Scaife,, è venuto a mancare di recente.

I servizi informativi della CIA spingono verso una guerra catastrofica con la Russia

Udo Ulkotte si è fatto avanti perché ha paura che scoppi una guerra tra Stati Uniti, Europa e Russia.

“I media tedeschi e americani cercano di portare una guerra in Europa e di portarla in Russia” ha affermato a Russia Today. “Siamo a un punto di non ritorno e io voglio alzare la voce e dire.. che non è giusto quello che ho fatto in passato, ho manipolato le persone e ho fatto propaganda contro la Russia; e non è giusto quello che i miei colleghi fanno oggi giorno e quello che hanno fatto in passato perché sono stati corrotti per ingannare la gente e non solo in Germania, bensì in tutta Europa.. Sono piuttosto spaventato dalla possibilità di una nuova guerra in Europa e non mi piace trovarmi di nuovo in questa situazione perché la guerra non arriva mai da sola, c’è sempre qualcuno che la cerca e non si tratta solo di politici ma anche di giornalisti. …Noi abbiamo ingannato i nostri lettori, solo per arrivare alla guerra. ..Non voglio più tutto ciò; mi sono stancato di questo tipo di propaganda. Viviamo in una repubblica delle banane, non in uno stato democratico dove vige la libertà di stampa.”

Per l’elite dominante, ovvero l’oligarchia finanziaria che controlla gli Stati Uniti, la guerra non è altro che uno strumento fatto su misura per concentrare e mantenere il potere e per costituire un nuovo ordine monetario mondiale. Accecata dalla tracotanza e dall’arroganza, quest’elite dominante crede fermamente che una guerra contro la Russia potrà contenere quelle aspirazioni geopolitiche che vengono percepite come una minaccia, come accade con quelle della Cina. Controllare e sfidare la Russia, a dispetto di quelli che sono stati i titoli nella prima pagina della stampa, è stato il fulcro centrale della guerra in Ucraina.

La Russia conosce il risultato e si sta preparando all’inevitabile: la guerra termonucleare. Seppur impensabile fino a qualche anno fa la Russia sta ora considerando la possibilità di un esperimento delle sue forze militari e un possibile primo attacco alla NATO e agli Stati Uniti.

“Dal mio punto di vista i nostri nemici più importanti sono gli Stati Uniti e il blocco nord atlantico” così ha dichiarato lo scorso mese il generale Yury Yakubov della difesa militare russa.

Yakubov ha affermato che la Russia è riuscita a sviluppare la propria forza spaziale e aerea con il solo uso della propria terra, della propria acqua, del proprio spazio aereo e della propria forza nucleare.

“Inoltre, è necessario trovare un compromesso sulle condizioni in base alle quali la Russia potrebbe mettere in pratica un preventivo attacco con le Forze Strategiche Missilistiche”, ha dichiarato il generale.
 
GERMANIA: L’OMBRA DI KARLSRUHE!
Pubblicato su 12 Ottobre 2014 da frontediliberazionedaibanchieri in ECONOMIA
Mentre ieri abbiamo osservato insieme l’ombra sinistra della Repubblica di Weimar nelle dichiarazioni di uno finto smemorato Hans-Werner Sinn, oggi, piano piano lentamente, laggiù all’orizzonte, si intravvede quella della corte costituzionale di Karlsruhe…
La Bce e l’ombra di Karlsruhe

(…) “Il 14 ottobre, il presidente della Bce si recherà al Lussemburgo di fronte ai giudici europei che nei tempi successivi procederanno alla sentenza. Quello che si teme non è tanto il parere della Corte europea, ma l’influenza che su di esso grava da parte dei giudici costituzionali tedeschi. I giudici di Karlsruhe, come al solito di concerto con la Bundesbank e con gli ambienti più conservatori della politica tedesca, stanno facendo filtrare condizioni che si aspettano che i giudici di Lussemburgo accolgano per non aprire un contenzioso privo di precedenti tra le due corti.”

(…) Dal mese di ottobre l’unione monetaria entrerà dunque in un terreno oscuro e minato. È probabile che Karlsruhe adotti la finzione di un rapporto cooperativo con la giustizia europea evitando di bocciare del tutto gli Omt. Detterà tuttavia le condizioni in base alle quali essi sarebbero compatibili con la legge tedesca. Tra queste condizioni ci sono quella di non privilegiare i paesi vulnerabili negli acquisti, di non accettare costi fiscali (cioè haircut sui titoli acquistati) e di non interferire sulla formazione dei prezzi dei titoli sovrani. Poiché gli Omt riguarderebbero solo paesi sotto programma di assistenza, si capisce che le condizioni della Corte tedesca e della Bundesbank non riguardano affatto gli Omt, bensì sono un fuoco di sbarramento contro la minaccia che la Bce proceda all’allentamento quantitativo (QE), cioè all’acquisto di titoli sovrani di singoli paesi non sotto programma. Il QE infatti altro non è che un Omt privo di condizioni e quindi dal punto di vista tedesco ancora più temibile. (…)
Niente di particolare ovviamente, pura dialettica politica mentre a fine ottobre arriveranno anche i risultati degli stress test e della AQR, ovvero la BCE ci dirà più o meno come sta la salute delle banche europee, tranne quelle tedesche che si sono sottratte alla visista medica, presentando giustificazione governativa.
Nel frattempo prosegue il tour dell’attuale “Propagandaministerium” tedesco il qual fa sentire la sua voce anche in America in un’intervista al WSJ Q&A With German Bundesbank President Jens Weidmann
Altre alle ormai solite cianfrusaglie intellettuali e tecniche, Weidmann si arrampica ulteriormente sui vetri scivolosi della recessione che sta per arrivare in Germania annunciata dagli ultimi due dati…
Germania,ordini industria: -5,7% agosto

Germania: produzione industriale in forte calo ad agosto, -4%
Infine, non pago, il banchiere centrale tedesco rispedisce meticolosamente al mittente gli inviti, arrivati dal Fondo monetario internazionale e dall’interno della stessa Bce, ad incrementare gli investimenti in Germania. (…) «L’outlook e la situazione ciclica non richiedono stimoli fiscali. Inoltre il debito tedesco è alto e il Paese sta facendo i conti con un enorme freno demografico che peserà su crescita e finanze pubbliche», ha spiegato nell’intervista al Wall Street Journal concludendo: «Spendere a debito in Germania probabilmente non aiuterebbe a portare i benefici desiderati. Probabilmente la Cina ne beneficerebbe più della Grecia».
Affascinante no, la Cina ne beneficerebbe più della Grecia!
Per forza che la Germania dovrebbe spendere a debito, come fai a spendere salari reali quando hai creato un’intera nazione di minijob jugendarbeit oltre otto milioni di nuovi schiavi a servizio dei faraoni tedeschi.
Weidmann dice che sosterrebbe l’eventuale bocciatura in sede Ue del bilancio di Parigi. «La Francia, seconda economia europea, dev’essere un modello» Weidmann: la Bce non sia ostaggio della politica
Un consiglio, Weidmann continui a fare il banchiere e si occupi seriamente della salute delle banche tedesche, dopo aver chiuso gli occhi per anni, mentre i loro uomini andavano in giro a regalare denaro a mezza Europa come in America a gente senza merito di credito e senza garanzie.
E soprattutto ringrazi l’Italia che ha versato oltre 60 miliardi ai fondi salvastati che in maggioranza sono serviti per salvare le banche che la Bundesbank ed altri organismi tedeschi dovevano controllare.
Tratto da:icebergfinanza.finanza.com




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LAVORATORI E COMPAGNI, PRRRRR!!

Pubblicato su 12 Ottobre 2014 da frontediliberazionedaibanchieri in POLITICA
DI STEFANO ALI
ilcappellopensatore.it
Lavoratori e compagni, prrrrr! Il Jobs Act ha ottenuto la prima fiducia al Senato (più di 20 questioni di fiducia poste dal Governo Renzi. Infranto ogni record). La costituzione è ormai un feticcio. Peggio dell'articolo 18. E il "Jobs Act" terminerà l'opera di distruzione del tessuto sociale.
Ieri è andato in scena un ulteriore passo verso lo strappo della Costituzione democratica. Con l’apposizione della questione di fiducia sulla Legge Delega per il cosiddetto “Jobs act”, si sono – in realtà – consumati due strappi. L’uno più lacerante dell’altro, entrambi gravissimi.



Si è definitivamente sovvertita la separazione dei poteri prevista dalla Costituzione (niente più e niente meno che un colpo di Stato bianco);
Si sono poste le solide basi per fare dell’Italia un Paese di mano d’opera. Di manovalanza a basso costo. Di schiavi, per dirla in breve.
Vediamo il perché del primo punto.
Il potere legislativo, secondo Costituzione, spetta al Parlamento. Il Governo è deputato ad eseguire le direttive del Parlamento. È già sotto gli occhi di tutti che, al momento, così non è.
Il Governo stabilisce le linee e le impone al Parlamento che, quindi, si limita a ratificare scelte del Governo che lo stesso Governo eseguirà poi.
Una delle due eccezioni alla regola, sempre secondo la Costituzione, è data da materie particolarmente tecniche. In questi casi il Parlamento PUÒ delegare la funzione legislativa al Governo, purché siano rispettati i principii dell’articolo 76 della Costituzione:
Articolo 76
L’esercizio della funzione legislativa non può essere delegato al Governo se non con determinazione di principi e criteri direttivi e soltanto per tempo limitato e per oggetti definiti.
Rimane evidente, quindi, che una delega predisposta dal delegato (il Governo) e sulla quale il Governo stesso pone la questione di fiducia (peraltro non prevista dalla Costituzione), a manifestare il ricatto della crisi sul delegante (il Parlamento), è una stortura del sistema democratico.
Ma il problema, nel caso del “Jobs Act” è ben più grave.
Nel testo della delega, infatti, i principi e i criteri direttivi non sono affatto determinati, né gli oggetti sono definiti. Siamo in presenza di una delega talmente ampia che il Governo può modificare, abrogare, semplificare per come crede qualsiasi norma riguardi, anche di striscio, il lavoro.
Qualche esempio:
6. Nell’esercizio della delega di cui al comma 5 il Governo si attiene ai seguenti princìpi e criteri direttivi:
a) razionalizzazione e semplificazione delle procedure e degli adempimenti, anche mediante abrogazione di norme, connessi con la costituzione e la gestione del rapporto di lavoro, con l’obiettivo di dimezzare il numero di atti di gestione del medesimo rapporto, di carattere amministrativo;
b) eliminazione e semplificazione, anche mediante norme di carattere interpretativo, delle norme interessate da rilevanti contrasti interpretativi, giurisprudenziali o amministrativi;
In sintesi; razionalizza, semplifica, abroga norme1. Se vuoi, anche non direttamente connesse con la delega, purché ci siano stati “rilevanti” (chi stabilisce il crinale fra “ordinario” e “rilevante”?) contrasti interpretativi, giurisprudenziali o amministrativi2
E ancora:
4. Nell’esercizio della delega di cui al comma 3 il Governo si attiene ai seguenti princìpi e criteri direttivi:
a) razionalizzazione degli incentivi all’assunzione esistenti, da collegare alle caratteristiche osservabili per le quali l’analisi statistica evidenzi una minore probabilità di trovare occupazione, e a criteri di valutazione e di verifica dell’efficacia e dell’impatto;
b) razionalizzazione degli incentivi per l’autoimpiego e l’autoimprenditorialità, con la previsione di una cornice giuridica nazionale volta a costituire il punto di riferimento anche per gli interventi posti in essere da regioni e province autonome;
Questa sarebbe la “determinazione” di princìpi e criteri? “razionalizzazione”, cosa definisce? A parte i “numeri razionali”, non conosco altro significato oggettivo di “razionalità”.
E poi
7. Allo scopo di rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione, nonché di riordinare i contratti di lavoro vigenti per renderli maggiormente coerenti con le attuali esigenze del contesto occupazionale e produttivo e di rendere più efficiente l’attività ispettiva, il Governo è delegato ad adottare, su proposta del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o più decreti legislativi, di cui uno recante un testo organico semplificato delle discipline delle tipologie contrattuali e dei rapporti di lavoro, nel rispetto dei seguenti princìpi e criteri direttivi, in coerenza con la regolazione dell’Unione europea e le convenzioni internazionali:
a) individuare e analizzare tutte le forme contrattuali esistenti, ai fini di poterne valutare l’effettiva coerenza con il tessuto occupazionale e con il contesto produttivo nazionale e internazionale, in funzione di interventi di semplificazione, modifica o superamento delle medesime tipologie contrattuali;
Riassunto: Riordina i contratti di lavoro. Per farlo, prendili TUTTI e fanne ciò che ti pare.
Mi fermo qui, ma in tutta la delega non esiste un solo punto definito secondo il senso comune del termine. Chi spiega “cosa prevede il testo della delega” sta, probabilmente, usando una sfera di cristallo. La delega prevede tutto lo scibile!
La delega è un atto con il quale si autorizza il Governo a prendere TUTTE le norme che riguardano in qualsiasi modo il lavoro o che ad esso afferiscano in qualsivoglia maniera e farne ciò che gli pare.
Senza alcuna modifica costituzionale, il nostro sistema Parlamentare è diventato Presidenziale-dittatoriale e a nessuno pare interessare.
LAVORATORI E COMPAGNI, PRRRRR!!
E adesso andiamo al punto 2
Negli ultimi anni il rapporto di lavoro è stato reso sempre più “flessibile”. È questo un raggiro semantico per indicarne la precarietà.
Il proliferare di contratti precari è cresciuto esponenzialmente e se questa fosse la ricetta giusta per la ripresa economica, si sarebbero già dovuti vederne gli effetti, invece assistiamo a una sempre più profonda depressione economica. A un sempre crescente numero di disoccupati, a un sempre crescente numero di famiglie che vivono sotto la soglia di povertà assoluta.
Per una basilare legge, una massa di offerta non assorbita dal mercato vede il suo valore crollare. Se, quindi, la massa di offerta che cresce è quella della forza lavoro, non può non accadere (come in effetti accade) che il valore del lavoro sia sempre più basso.
Sulle ovvietà, che sono sotto gli occhi di tutti, mi fermo qui. Non senza aver prima evidenziato che, come gli struzzi, in pochi sembrano accorgersene.
Poletti, in Senato, chiedeva come siamo arrivati a questo punto. Strano che lo chiedesse visto che il processo segue la trasmutazione del PD.
Berlusconi, in una recente intervista a Libero Quotidiano.it ha detto
Il mio più grande errore? Non fingermi di sinistra
Probabilmente riferendosi al fatto che l’esperimento che ha contribuito a realizzare in provetta è perfettamente riuscito.
Dopo aver perso del tutto ogni radice storica con gli ideali che ne hanno costituito il sorgere, il PD, con Renzi, ha compiuto la trasmutazione alchemica.
L’innesto di soggetti provenienti dalle più svariate esperienze politiche (dalla DC al PLI) hanno modificato geneticamente il PD al punto che a definirlo di sinistra, oggi, occorre stirare la definizione di “sinistra” fino al punto di rottura.
I “consulenti” di Renzi:
In politica estera, Michael Ledeen e l’ambiente neocon USA (la destra estrema)
In politica economica Yoram Gutgeld
In termini di Giustizia e riforme istituzionali, Berlusconi e Verdini (ispirandosi ai dettami della P2 “sanciti” nel Piano di rinascita democratica)
In politiche del lavoro Pietro Ichino3
Già alla “Leopolda” del 2012, Ichino esponeva dal palco la sua visione delle politiche del lavoro.
Due passaggi tratti dalla sua intervista a Huffington Post
E la riforma del mercato del lavoro?
Qui la legge Fornero ha fatto un passo timido ma che va nella direzione giusta, quello della flessibilità del rapporto di lavoro a tempo indeterminato e un contrasto agli abusi nel campo delle collaborazioni autonome. Su questo terreno il programma di Renzi prevede qualcosa di molto più incisivo. Innanzitutto una grande semplificazione, sostituire le 2 mila pagine della legislazione del lavoro nazionale, con un codice del lavoro semplificato di 59 articoli comprensibile non solo dai lavoratori e dai datori di lavoro, ma che sia anche traducibile in inglese. L’investitore straniero è assolutamente nell’impossibilità di capire le regole del nostro ordinamento.
E per quanto riguarda la tutela dei lavoratori, la convincono le modifiche all’articolo 18?
Al lavoratore non va data la garanzia di continuare a lavorare nello stesso posto tutta la vita, l’errore commesso dalla nostra sinistra fino ad oggi. Quello che deve essere tutelato è il reddito e la continuità professionale.
Ho evidenziato un punto per testimoniare che con la precarizzazione non abbiamo ancora raggiunto il fondo, con il Jobs Act.
Il fine è, con tutta evidenza, la precarizzazione del lavoro a tempo indeterminato. In buona sostanza, la sua eliminazione. TUTTI PRECARI, la precarizzazione di una intera società.
E che questo sia il fine, è chiaro da una serie di tweet che, con spocchiosa protervia, aggiungerei, Ichino ha “lanciato” (la sequenza corretta è dal basso verso l’alto)


.
Ichino, come si legge dai suoi tweet, spiega che la precarizzazione dei contratti a tempo indeterminato (la loro soppressione) è prevista fra due-tre anni.
Non è stata fatta adesso perché oltre alle naturali opposizioni, avrebbe creato un picco di licenziamenti (quindi è ben a conoscenza che la “flessibilità” non solo non produce occupazione, ma, al contrario, picchi di disoccupazione) “con allarmi e richieste di tornare indietro”. Non è, quindi, la devastazione sociale a preoccuparlo, ma il fatto che l’allarme avrebbe imposto di tornare indietro.
Fra due-tre anni, sostiene, Ichino, i tempi saranno maturi per eliminare del tutto il lavoro a tempo indeterminato.

La fame, la mancanza di lavoro, la disoccupazione ci porterà ad accettare qualsiasi cosa “ci venga concessa”. Una generazione a 300 Euro, come in Grecia
LAVORATORI E COMPAGNI, PRRRRR!!
Ancora qualcosa da aggiungere: I “dissidenti” del PD
Abbiate pazienza, ma sento puzza di marcio e rancido.
1) il conteggio dei numeri. 165 voti favorevoli.
Se il tuo “essere” non concepisce il jobs act; se il testo presentato non rispecchia neppure quello votato in direzione PD; se per votare quella norma ti senti violentato e avverti che è contrario alle idee di fondo della base del partito, che senso hanno tutti i distinguo, i se, i ma che portano, alla fine, ai numeri giusti giusti per poter far dire a Renzi che la maggioranza del Senato regge?

Ai tempi della vecchia Democrazia Cristiana, questi giochetti sui numeri erano frequentissimi. Si fingono spaccature per arginare il dissenso e, comunque, raccoglierlo e convogliarlo. Nel frattempo, si gioca sul filo di lana per dimostrare che la maggioranza politica permane ed è forte.
Al Senato la maggioranza è 161. Se fossero scesi sotto quel numero (e i margini c’erano, visto che il quorum era a circa 140), Renzi avrebbe ugualmente incassato la fiducia, ma qualcuno avrebbe potuto obiettare che non aveva più una maggioranza al Senato.
Dal SI incondizionato, alla “fiducia critica” (hanno aggrottato le sopracciglia?), agli assenti, al “voto si ma mi dimetto”, agli astenuti … il tutto dopo aver fatto un minuzioso conteggio dei numeri per garantire, comunque, la maggioranza politica al Senato: 165.
Forte la maggioranza, forte il dissenso, Renzi può andare avanti e l’ala dei dissezienti è forte pure. Tutti vincono, nessuno perde. “Compagni votatemi nel PD. Votate me che ho protestato contro il Jobs Act, ma votatemi nel PD”
LAVORATORI E COMPAGNI, PRRRRR!!
2) distinguo e dimissioni … Tocci si dimette da senatore. In primis è ancora tutto da vedere, visto che è il Senato a dover accettare le dimissioni. E non solo, Renzi, nella sua magnanimità tenterà di dissuaderlo
Farò di tutto perché Walter Tocci, che è una persona che stimo molto, continui a fare il senatore
E comunque, rimarrà nel PD. Sicché il PD avrà il suo martire immolato sull’altare delle riforme del lavoro per catalizzare gli scontenti del Jobs Act. Insieme ai Civati, a Bersani, a Cuperlo. Insieme a coloro che, da un canto consentono a Renzi di vantare forza, mentre dall’altro costruiscono argini al possibile dissenso. Gatekeepers!
Bel teatrino, mentre conducono l’Italia alla fossa
LAVORATORI E COMPAGNI, PRRRRR!!

Stafano Ali
Fonte:http://ilcappellopensatore.it/
Link http://ilcappellopensatore.it/2014/10/lavoratori-e-compagni-prrrrr/
10.10.2014


1Quali? tutte quelle che hanno a che fare con il lavoro. Altro che “l’articolo 18 non c’è”. Qui c’è tutto lo Statuto dei Lavoratori e altro.
2 Non esistono norme (non solo sul lavoro) sulle quali non ci siano stati contrasti interpretativi, giuresprudenziali o amministrativi. Basti pensare al fatto che, emanata una norma, è consuetudine farla seguire da una “circolare esplicativa” che, non costituendo fonte del diritto, provoca, nella sua applicazione, ulteriori contenziosi
3Già deputato dal 1979 al 1983 come indipendente eletto nel Partito Comunista Italiano e senatore dal 2008 al 2013 eletto nel Partito Democratico, è senatore eletto nella circoscrizione Lombardia nella lista Con Monti per l’Italia. Come a ripercorrere la filogenesi del PD che, da PCI si trasforma in controfigura di Scelta Civica (fonte: wikipedia)
Tratto da:www.comedonchisciotte.org




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KYENGE LASCIA L’ITALIA! ECCO DOVE VA A VIVERE, CON IN TASCA LO STIPENDIO DA EURODEPUTATO CHE PAGANO GLI ITALIANI

Pubblicato su 12 Ottobre 2014 da frontediliberazionedaibanchieri in POLITICA
L’annuncio arriva via twitter. “Andrò in #Germania per 28 mesi”, scrive l’ex ministro dell’Integrazione Cécile Kyenge. Non aggiunge altro. Non una parola in più sui motivi di quest’emigrazione a tempo determinato. Ma il suo scarno tweet è sufficiente a scatenare la reazione del web. The joker scrive: “Va e non tornare”, e Giuseppe Martorana si spinge oltre: “Speriamo che la facciano ministro di quella nazione” , e chi lapidario come Garmin 1939 scrive. “Stai lì per sempre”.

La decisione - Come scrivevamo sopra, non si conoscono i motivi di questa trasferta tedesca di oltre due anni. Politicamente la sua decisione potrebbe essere letta come una reazione alla crescita continua della Lega nei sondaggi (l’ex ministro aveva detto che servirebbe una legge per metterla al bando). Ma sono solo speculazioni perché il vero motivo è per ora sconosciuto . . Certo è che l’Italia aveva accolto molto bene la Kyenge, primo ministro di colore di un nostro governo. Adesso lei annuncia che andrà nel Paese della Merkel. Attenta – achtung – Angela…


fonte

Tratto da:Pinosauro News



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Ultima modifica:
I Trattati UE in Corte Costituzionale – al via la prima causa.
Pubblicato su 12 Ottobre 2014 da frontediliberazionedaibanchieri in POLITICA
In data odierna ( 10 ottobre-ndr ) gli Avv.ti Laura Muzio, Gabriela Musu e Marco Mori hanno dato il via alla prima causa volta a portare le illegittime cessioni di sovranità compiute con in Trattati UE innanzi alla Corte Costituzionale, la prima udienza è fissata per il 30 gennaio 2015. Auspichiamo che questa azione avrà un effetto emulativo consentendo di aumentare le possibilità di vincere questa battaglia, l’unica che può salvare ancora il paese.
L’atto è sintetico, come si conviene ad un atto di citazione, posto che gli opportuni approfondimenti avverranno nelle successive fasi processuali su cui vi terremo aggiornati anche su questo sito.
* * * *
TRIBUNALE CIVILE DI GENOVA
ATTO DI CITAZIONE
Nell’interesse dell’Avv. Laura Muzio (C.F.: MZU LRA 79E44 C621P), nata a Chiavari (GE) il 4.05.1979 e residente in Lavagna (GE) che ai fini del presente atto, si difende in proprio ai sensi dell’art. 86 c.p.c. oltre che, giusto mandato a margine, per mezzo della rappresentanza e della difesa anche ad essa disgiunta dell’Avv. Gabriela Musu (C.F.: MSU GRL 74L41 D969B – Pec: [email protected]) e, sempre in via anche disgiunta, dell’Avv. Marco Mori (C.F.: MRO MRC 78P29 H183L – Tel e Fax: 0185.23122 – Pec: [email protected]) presso il cui studio e la cui persona sito in Rapallo, C.so Goffredo Mameli 98/4, elegge domicilio
PREMESSO CHE
L’art. 1 Cost. recita: “l’Italia è un Repubblica democratica fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”;

Suddetti limiti sono disciplinati nell’art. 11 Cost. il quale testualmente dispone: “L’Italia (omissis…) consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranitànecessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”;

Le cessioni tout court di sovranità sono invece palesemente illegittime sotto il profilo Costituzionale trovando addirittura, nei casi più gravi, tutela in ambito penale sotto la rubrica “Dei delitti contro la personalità dello Stato” ex art. 241 e ss c.p. Altrettanto illegittime sono anche le semplici limitazioni di sovranità allorquando compiute in assenza di condizioni di parità tra le nazioni e per fini che nulla rilevano circa il raggiungimento della pace e della giustizia tra i popoli;

Occorre sin d’ora rimarcare che i principi fondamentali della nostra Costituzione ed i diritti inviolabili della persona non sono emendabili o tanto meno comprimibili attraverso un“vincolo esterno”, anche se proveniente dall’UE. Tra detti principi non emendabili vi è certamente compreso anche il divieto assoluto di cessione della sovranità nazionale;

Nonostante ciò il nostro paese è stato spogliato della sovranità monetaria ed economica, in tali campi non ha più alcuna voce in capitolo proprio in forza del “vincolo esterno” imposto con l’illegittima ratifica del Trattato di Maastricht, di quello di Lisbona e del Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance nell’Unione economica e monetaria, meglio conosciuto come Fiscal Compact;

La Corte Costituzionale con sentenza n. 284/2007 ha già avuto modo di affrontare elegantemente il tema così motivando: “Ora, nel sistema dei rapporti tra ordinamento interno e ordinamento comunitario, quale risulta dalla giurisprudenza di questa Corte, consolidatasi, in forza dell’art. 11 della Costituzione soprattutto a partire dalla sentenza n. 170 del 1984, le norme comunitarie provviste di efficacia diretta precludono al giudice comune l’applicazione di contrastanti disposizioni del diritto interno quando egli non abbia dubbi – come si è verificato nella fattispecie – in ordine all’esistenza del conflitto. La non applicazione deve essere evitata solo quando venga in rilievoil limite, sindacabile unicamente da questa Corte, del rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e dei diritti inalienabili della persona (da ultimo con ordinanza n. 454/2006”. In claris non fit interpretatio.

Con la perdita delle prerogative sovrane in materia monetaria ed economica è divenuto impossibile per lo Stato anche promuovere la piena attuazione di tutti i diritti fondamentali riconosciuti. Con la cessione della sovranità nazionale è la stessa Costituzione a diventare lettera morta;

La fondazione della Repubblica sul lavoro non è affatto una mera affermazione apodittica ma costituisce un preciso impegno, ormai inattuabile, che viene ulteriormente imposto dall’art. 4 Cost. “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto e specificato nelle sue modalità concrete anche nel titolo III della Costituzione (“Rapporti economici” Artt. 36 e ss. Cost.) dove viene codificato un modello economico di matrice chiaramente keynesiana. Ed ancora l’art. 3 Cost., nel sancire il fondamentale principio di eguaglianza, impone alla Repubblica un obbligo preciso ed ormai impossibile da attuare in forza delle cessioni di sovranità compiute ovvero “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese;

L’esponente dunque ritiene, quale membro del popolo italiano, di aver subito la radicale cancellazione del diritto costituzionalmente tutelato della “sovranità”, diritto che ovviamente viene esercitato nelle forme e nei limiti costituzionalmente imposti. Diritto necessariamente plurisoggettivo, dunque interessa ogni cittadino italiano sul lato attivo, che avrebbe dovuto essere esplicato pienamente per tramite il voto eguale, libero e personale. Ciascuno dei soggetti titolari di tale diritto è ovviamente legittimato a richiederne la piena tutela giuridica e certamente è legittimato a chiedere l’accertamento puro di tale lesione;

Va sin d’ora rimarcato che la lesione del diritto di voto, strumento naturale con cui si esplica la sovranità popolare, è stata già accertata con due sentenze. Nello specifico la legge elettorale n. 270/2005 è stata dichiarata illegittima dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 1/2014, che ivi deve intendersi integralmente richiamata e trascritta (Doc. 1);

La Cassazione con sentenza n. 8878/14 (Doc. 2), successiva proprio alla pronuncia della Corte Costituzionale, ha potuto accertare che la declaratoria d’incostituzionalità non ha fatto venir meno il diritto per ogni cittadino di far accertare la lesione del proprio diritto di voto, con la conseguente piena legittimità per l’attrice di promuovere anche il presente giudizio. Infatti è indubbio che la lesione del diritto di voto ha riflesso immediato e diretto anche sulla compressione della sovranità, punto sul quale l’esponente ha interesse ad un pieno accertamento. Precisamente se si perde la sovranità in determinate materie diventa assolutamente superfluo anche poter esercitare il diritto di voto secondo modalità legittime;

La sovranità infatti non è stata cancellata in forza della sola compressione del diritto di voto ma anche, ed ancor più significativamente, dal citato vincolo esterno costituito dai Trattati UE che hanno, tra l’altro, determinato la cessione della sovranità in materia di politiche economiche e monetarie, ciò fin dal 1992. Anche l’accertamento di tale lesione che ad oggi si continua a perpetrare è nel pieno interesse dell’esponente, accertamento che passa necessariamente per il vaglio della legittimità costituzionale delle leggi di autorizzazione alla ratifica dei Trattati internazionali che hanno, pezzo dopo pezzo, ceduto la sovranità nazionale. Dette leggi di autorizzazione alla ratifica sono manifestamente incostituzionali per chiaro contrasto con i principi fondamentali dell’ordinamento Repubblicano e con il modello economico keynesiano, intelligentemente imposto nella parte economica della nostra Costituzione;

Fin dal Trattato di Maastricht ratificato con Legge n. 454/1992 e la conseguente nascita della moneta unica denominata Euro, il nostro paese ha pacificamente ceduto la sovranità monetaria. Tale aspetto è già da solo sufficiente a rendere palese la violazione dei diritti dell’esponente che non ha alcuna possibilità di influire con il proprio voto eguale, libero e personale su siffatta prerogativa riservata al popolo: “La Repubblica coordina e controlla il credito” Art. 47 Cost.
Oggi la sovranità monetaria è di esclusiva competenza del SEBC, il sistema delle Banche Centrali Europee. BCE., la Banca Centrale Europea, con assoluta indipendenza, decide le politiche monetarie emettendo, in esclusivo favore delle sole banche commerciali e dunque agendo in plateale conflitto d’interesse, la liquidità sovranamente determinata al tasso d’interesse sempre da essa sovranamente stabilito. BCE altresì non ha funzione di prestatrice di ultima istanza per le nazioni ne tanto meno ha alcun obbligo in merito all’acquisto dei titoli di Stato emessi dalle nazioni per finanziarsi. Anzi vige sul punto un espresso divieto, potendo BCE acquistare titoli a tasso maggiore di quello ufficiale di sconto, unicamente sul cd. mercato secondario (art. 123 TFUE – versione consolidata). BCE non può concedere alcun tipo di credito agli Stati dai quali non può ricevere neppure meri consigli;

Una nazione che vuole finanziare le proprie politiche pertanto, non potendo emettere moneta, deve necessariamente prendere il denaro in prestito attraverso i mercati finanziari. Questo obbligo di condotta non garantisce allo Stato la possibilità di agire in autonomia per gli scopi previsti nei principi fondamentali della carta costituzionale tra cui la tutela del diritto al lavoro, ovvero il diritto posto a fondamento della Repubblica. Ovviamente tale cessione priva qualsivoglia cittadino della possibilità di partecipare sovranamente, per mezzo il diritto di voto, alla determinazione della politica monetaria nazionale che ad oggi resta, a prescindere dai risultati elettorali, di competenza esclusiva di soggetti terzi estranei all’ordinamento italiano e ciò in clamorosa violazione dell’art. 1 Cost.
Nell’ambito dell’assemblea costituente (i cui lavori verranno abbondantemente trattati nelle memorie ex art. 183 VI c.p.c.) infatti non vi era alcun dubbio che l’unico ordinamento per il quale si ipotizzavano limitazioni di sovranità (ma giammai cessioni a terzi!) era quello volto a ripudiare la guerra come strumento di risoluzione delle controversie, nulla a che vedere con i vincoli di politica monetaria dunque;

La medesima situazione, ovvero quella di una illegale cessione di sovranità, si è verificata in materia di politica economica laddove i Trattati, ed i successivi regolamenti emanati in loro attuazione, hanno imposto agli Stati limiti all’indebitamento annuo ed a quello complessivo in rapporto al PIL (art. 119 e ss. TFUE – versione consolidata e protocollo n. 12). Addirittura con l’approvazione del Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance nell’Unione economica e monetaria si è andati oltre al parametro del Protocollo n. 12 allegato al Trattato di Lisbona arrivando a fissare il limite di deficit annuo nella misura dello 0,5% del P.I.L. Rammentiamo che tale vincolo all’indebitamento comprende anche gli interessi passivi del debito con la conseguenza che lo Stato, ogni anno, è costretto a tassare più di quanto spende così impoverendo matematicamente i propri cittadini e perdendo ogni prerogativa sovrana. Se la moneta è insufficiente le insolvenze non possono che moltiplicarsi ed i debiti non possono che essere solo parzialmente ripagati in beni reali, ormai svalutati dalla conseguente deflazione indotta da tali politiche palesemente illecite. Dunque non solo l’Italia non può emettere moneta ma non può averne neppure in prestito più di quanto previsto dai Trattati, neppure emettendo obbligazioni. La conseguenza ovvia di tutto ciò è l’aumento della disoccupazione e la deflazione dei prezzi, fatti che si sono puntualmente verificati;

La cessione di sovranità in materia economica comporta l’impossibilità per lo Stato di perseguire gli interessi di cui ai principi fondamentali ledendo così gli stessi diritti inviolabili dell’uomo, la nazione non può governare direttamente l’inflazione ed in definitiva risulta impossibilitata a raggiungere il suo scopo principale: la piena occupazione. Trattasi della trappola perfetta per la personalità giuridica di uno Stato che viene così platealmente disattivato in ogni sua prerogativa sovrana che, in definitiva, viene sottratta ai cittadini stessi;

L’incostituzionalità dei Trattati non trova dunque la sua fonte unicamente nel fatto che sono avvenute conclamate cessioni di sovranità e lesioni dell’indipendenza nazionale, ma anche nella citata circostanza che la perdita della stessa incide in maniera determinante e consequenziale su ogni altro diritto fondamentale portando addirittura i diritti inviolabili dell’uomo verso una lenta ma inesorabile disattivazione. Si arriverà, per fare un esempio già drammaticamente reale, a non poter assistere un malato ovvero un disabile per mancanza di possibilità di prerogative sovrane che consentano di fare deficit o anche la sola semplice emissione di moneta a tale fine;

Lo stesso inserimento del pareggio in bilancio in Costituzione avvenuto nel 2012 con la modifica dell’art. 81 Cost. è la piena prova che non siamo più un paese sovrano. Addirittura con tale modifica, imposta dall’UE, si è riusciti ad introdurre una manifesta contrarietà ai principi fondamentali all’interno della stessa costituzione, fatto mai accaduto prima. L’art. 81 Cost. è norma palesemente incompatibile con i principi fondamentali e pertanto non potrà che essere considerata a sua volta illegittima;

Infine per mero tuziorismo difensivo, benché la differenza tra limitare e cedere sia lapalissiana è comunque utile ricordare che cedere significa “trasferire a qualcuno” mentre limitare significa“circoscrivere uno spazio, ridurre”.
Dunque, per fare un esempio giuridico, abolire le dogane in accordo con gli altri Stati aderenti ad un trattato di libero scambio è certamente una mera limitazione della sovranità compiuta in condizioni di parità (forse anche idonea a favorire la pace e la giustizia tra i popoli). Al contrario, rimanendo ad un esempio analogo, attribuire il controllo delle dogane ad un ordinamento straniero costituirebbe pacificamente una cessione di sovranità in quanto una prerogativa sovrana non sarebbe meramente limitata ma trasferita permanentemente ad un soggetto diverso dallo Stato italiano e dunque sottratta al popolo. Ecco perché se economia e moneta, nonché la relativa legislazione, vengono attribuite definitivamente alle decisioni sovrane di UE o BCE non può che parlarsi di cessione e dunque di atto pacificamente illecito ex artt. 1 e 11 Cost. e probabilmente illecito anche sotto il profilo penale;

Peraltro le politiche UE sono scientemente rivolte a cagionare una violenta crisi economica al fine di ottenere dagli stati ulteriori cessioni di sovranità, fatto di cui si darà compiuta prova nel corso del presente giudizio, prova assai facile data la moltitudine di dichiarazioni confessorie compiute dai “nostri (?)” esponenti politici, in particolare dallo sciagurato avvento di Mario Monti in poi;

Nel caso di specie sono dunque in gioco diritti costituzionalmente tutelati, diritti cancellati da un palese illecito civile e forse anche penale. Trattasi pertanto di un’evidente responsabilità ex art. 2043 c.c. fondata su solide basi normative. Come noto il Ministro proponente leggi assume la responsabilità giuridica dei propri atti ai sensi e per gli effetti dell’art. 89 Cost. Inoltre gli atti che hanno valore legislativo sono controfirmati anche dal Presidente del Consiglio dei Ministri che ne è direttamente responsabile;

Pare quasi superfluo sottolineare che il Presidente del Consiglio dei Ministri ed i Ministri stessi, prima di assumere le funzioni, prestano giuramento nelle mani del Presidente della Repubblica con la seguente formula: Giuro di essere fedele alla Repubblica, di osservarne lealmente la Costituzione e le leggi e di esercitare le mie funzioni nell’interesse esclusivo della nazione e ciò ai sensi dell’art. 1 Legge n. 400/1988”;

Conseguentemente o si ritiene tale giuramento un inutile orpello formale oppure si deve ammettere che allo stesso conseguano precise responsabilità giuridiche, la cui violazione è fonte di responsabilità. La sottoscrizione di una legge incostituzionale, come avvenuto nel caso della legge elettorale, da parte del Ministro proponente e da parte del Presidente del Consiglio dei Ministri, nonché la sottoscrizione delle leggi di autorizzazione alla ratifica dei Trattati internazionali in violazione degli artt. 1 ed 11 Cost. (In questo caso con riferimento al Ministro degli Esteri ed al Presidente del Consiglio) costituiscono fatto illecito ex art. 2043 c.c.;

Il danno non patrimoniale è risarcibile laddove si è in presenza della lesione di un bene inviolabile previsto e protetto da una norma di rango costituzionale. Innegabile che la lesione del diritto plurisoggettivo alla sovranità esercitabile per tramite del diritto di voto abbia determinato in ogni cittadino un nocumento di natura morale economicamente apprezzabile, seppur oggettivamente di difficile quantificazione, come sempre nei casi di risarcimento del danno non patrimoniale relativo ad un bene immateriale, di cui è piena la casistica giurisprudenziale.

Tutto quanto premesso, l’Avv. Laura Muzio, ut supra rappresentata, domiciliata e difesa
CITA
La Presidenza del Consiglio dei Ministri in persona del Presidente protempore Matteo Renzi, ilMinistero dell’Interno in persona del Ministro protempore Angelino Alfano, il Ministero degli Esteri in persona del Ministro protempore Federica Mogherini tutti presso l’Avvocatura Distrettuale dello Stato corrente in Genova, Viale Brigate Partigiane n. 2 a comparire nanti il Tribunale Civile di Genova, per l’udienza del 30 gennaio 2015, ore e luoghi di rito, invitando espressamente i convenuti a costituirsi in giudizio ai sensi e nelle forme dell’art. 166 c.p.c. con avvertimento che la tardiva costituzione implica le decadenze di cui agli artt. 38 e 167 c.p.c., con riguardo ad eventuali domande riconvenzionali e chiamate di terzo. Con avvertimento che in difetto di costituzione si procederà in sua legittima declarandacontumacia, per ivi sentire accogliere le seguenti
CONCLUSIONI
Piaccia all’Ill.mo Tribunale adito, contrariis reiectis, per le causali di cui in narrativa, accertare che l’esponente non ha potuto esercitare, per i motivi tutti di cui in narrativa, il diritto plurisoggettivo della sovranità conformemente al combinato disposto degli artt. 1 e 11 Cost. e conseguentemente condannare, eventualmente anche in solido tra loro,la Presidenza del Consiglio dei Ministri in persona del presidente protempore, il Ministero dell’Interno in persona del Ministro protempore, il Ministero degli Esteri tutti presso l’Avvocatura Generale dello Stato corrente in Genova, Viale Brigate Partigiane n. 2 a risarcire il danno non patrimoniale conseguente alla lesione del diritto plurisoggettivo della sovranità esercitato per il tramite il diritto di voto e ciò in forza delle norme di rango costituzionale citate ed ai sensi e per gli effetti del combinato disposto degli artt. 89 cost., 2043 c.c., 1 L. n. 400/1988 ovvero per le altre norme meglio viste e ritenute tra cui anche gli artt. 241 e ss. c.p., con quantificazione in via anche equitativa o nella misura che sarà determinata in corso di causa secondo il prudente apprezzamento del Giudicante ed in ogni caso non superiore alla somma di € 5.100,00.
In ogni caso con vittoria di spese e competenze professionali.
Con ogni più ampia riserva di ulteriormente dedurre e produrre nei termini concedendi.
Ai sensi dell’art. 9 comma 5 L.466/88 si dichiara che il valore della causa è compreso è pari ad € 5.100,00 pertanto il contributo unificato da versare è pari ad € 98,00.
Ai sensi e per gli effetti di legge, il sottoscritto procuratore dichiara di volere ricevere le comunicazioni relative alla presente procedura al seguente numero di fax 0185.231221.
Si producono i seguenti documenti:
Doc 1) Copia certificato elettorale;
Doc 2) Sentenza Corte Cost. 1/2014;
Doc. 3) Sentenza Cass. n. 8878/14;
Doc. 4) Certificato elettorale.
Con osservanza.
Rapallo, 25 settembre 2014
Avv. Laura Muzio
Avv. Marco Mori
Avv. Gabriela Musu
Tratto da:www.studiolegalemarcomori.it




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UNITI SI VINCE

Pubblicato su 11 Ottobre 2014 da frontediliberazionedaibanchieri in POPOLI LIBERI



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AIUTIAMO GLI ITALIANI IN DIFFICOLTA'

Pubblicato su 11 Ottobre 2014 da frontediliberazionedaibanchieri in POPOLI LIBERI
Popoli Liberi Sardegna di fronte all’assenza delle istituzioni che, sembra, non pensino più agli italiani ma solamente ai clandestini, cercherà di aiutare le famiglie italiane che hanno veramente bisogno di un aiuto.
Dopo essersi opposti a numerosi sfratti, congiuntamente ad altre organizzazioni sarde, danno vita ad una raccolta alimentare a favore di famiglie italiane indigenti.
La raccolta avverrà con le seguenti modalità:
A SIMAXIS ( Oristano )
Ieri 10 ottobre nei pressi del Supermetcato Sigma in Via San Simaco ( fronte tabaccaio e macelleria ) dalle ore 10 alle 13 e dalle 16,30 alle 20,00

Sabato 11 ottobre presso LD Market S.S. 388 Km. 7,800 dalle 9,00 alle 13.30 e dalle 16,30 alle 20,30
Domenica 12 ottobre nei pressi del Supermetcato Sigma in Via San Simaco ( fronte tabaccaio e macelleria ) dalle ore 9,00 alle 13,00
AIUTIAMO IL POPOLO ITALIANO “ DIMENTICATO” DALLE ISTITUZIONI
Popoli Liberi Sardegna





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e se ne è andato in affitto in un altro quartiere. La speranza di stare meglio è ancora intatta.

Bel teatrino, mentre conducono l’Italia alla fossa
LAVORATORI E COMPAGNI, PRRRRR!!

Stafano Ali
in ESTERI delle dottrine neocon, non fa il nome di Orban, ma l’allusione al governo di Orban è molto chiara ed alla critica aperta fatta dal premier ungherese alle sanzioni occidentali verso la Russia.
Attuare le sanzioni non è facile e molti paesi stanno pagando un caro prezzo”, ha detto la Nuland. Da notare che la Nuland è la stessa persona che, in occasione della crisi ucraina, in una telefonata intercettata aveva esclamato: “L’Europa si fotta” (“Fuck Europe” testuale).
Ma .. quando i leader europei sono tentati di fare dichiarazioni che lacerano il tessuto della nostra determinazione, vorrei chiedere loro di ricordare la propria storia nazionale e di come desideravano che i loro vicini fossero al loro fianco”, ha proseguito l’eminente diplomatica.

Una oscura allusione questa alla rivolta di Budapest del 1956, quando l’Ungheria si trovò sola ad insorgere contro la repressione dell’Unione Sovietica senza che alcuno stato occidentale intervenisse in suo aiuto.

La Nuland ha fatto riferimento anche alla dichiarazione di Orban, durante una riunione dei leader di etnia ungherese in Romania nel mese di luglio, in cui il leader ungherese ha dichiarato: «Non credo che la nostra appartenenza all’Unione europea ci impedisca di costruire un nuovo Stato non fondato sul liberismo ma sulle nostre basi nazionali”.

Una “gravissimadichiarazione di indipendenza e di sovranità nazionale questa fatta da Orban che non poteva essere tollerata dagli esponenti del potere di Washington che ammette soltanto gli stati europei come vassalli, con governi proni alle proprie direttive (come ad esempio l’Italia di Renzi e della Mogherini).
“Anche perché, ha proseguito la Nuland, nel raccogliere i frutti della NATO e all’UE, troviamo i leader della regione che sembrano aver dimenticato ivalorisu cui queste "istituzioni sono fondate”, ha aggiunto .
Inoltre ha anche accusato Orban di limitare la libertà di stampa e di aver effettuato un giro di vite sulle ONG per i diritti, ed ha aggiunto: “Così oggi chiedo ai loro capi: come si può dormire durante la notte sotto la protezione dell’articolo 5 della Nato, mentre si promuove la ‘democrazia liberale’ di giorno, si eccita il nazionalismo la notte, limitando la libertà di stampa o demonizzando la società civile?

L’allusione fatta dalla Nuland alla demonizzazione della “società civile” si riferisce alle limitazioni imposte dal governo ungherese alle numerose ONG, presenti nel paese, organismi di copertura con finalità ufficiali di tutela dei diritti, per la democrazia, ecc.. ma che in realtà sono organismi per la sobillazione finanziati da Soros o dalla CIA, sui quali si basa l’attività di sobillazione interna effettuata dal Dipartimento di Stato USA analogamente a quanto fatto in Ucraina per il rovesciamento del governo di Kiev.

La Nuland mette in risalto il fatto che i paesi europei “godono” dei benefici della NATO che consente loro di partecipare alle operazioni internazionali di destabilizzazione messe in campo da Washington e da Israele e nello stesso tempo usufruiscono del “privilegio” di far parte dell’Unione Europea che tanti “vantaggista apportando ai paesi che ne fanno parte in termini di recessione, austerità, politiche neoliberiste, abbattimento di diritti sociali, disoccupazione, ecc…

Le osservazioni della Nuland sono arrivate dopo che il suo “principale”, il presidente degli Stati UnitiBarack Obama, il mese scorso, aveva messo l'Ungheria nello stesso paniere, della Russia, in termini di minacce alla “società civile”, quella che fa comodo agli USA.
In un precedente incontro avvenuto a New York il 23 Settembre, la Nuland si era fortemente lamentata affermando:
Dalla Russia alla Cina al Venezuela, stiamo assistendo ad una continua repressione , alla diffamazione del legittimo dissenso come sovversivo. In posti come l’Azerbaigian, le leggi vigenti rendono incredibilmente difficile per le ONG (quelle finanziate da Soros) anche solo di operare. Dall’Ungheria all’Egitto, regolamentazioni infinite e intimidazioni palesi prendono sempre più di mira la società civile “, ha detto nel corso di un evento.

In pratica queste “limitazioni” non permettono alle ONG statunitensi (“la società civile”) di fare il loro lavoro sporco di sobillazione, promuovendo le coppie gay, l’aborto, le sette evangeliche, la società multiculturale, l’eutanasia libera, l’eugenetica, il liberismo dei mercati, ecc... tutti i concetti del radicalismo e del relativismo laico che sono i “valori” delle società occidentali prostrate al colonialismo culturale e politico degli USA.

Di questo trattamento fatto loro dal governo di Orban si sono lamentate le ONG come la “Soros Foundation” o la” National Endowmwnt for Democracy”, la “Human Right Watch”, ecc.; tutte società che hanno contribuito a provocare le “rivoluzioni arancioni” ed i vari cambiamenti di regime nei paesi dove hanno operato.

Il governo Orban si è permesso di propria iniziativa di varare una Nuova Costituzione nazionale basata sulle radici cristiane dell’Ungheria (cosa inaudita in Europa), ha messo fuori legge l’aborto, ha fatto una serie di riforme sociali incentrate sula promozione della famiglia (non delle coppie gay), inoltreha fatto uno sgarbo gravissimo al cartello bancario internazionale ponendo sotto controllo statale laBanca Nazionale (quest’ultima azione sarà quella che non gli perdoneranno).

Oltre a queste gravi accuse la Nulandha attaccato anche gli Stati membri dell’UE che si preparano a costruire il gasdotto South Streamun gasdotto russo attraverso i Balcani occidentali verso l’Austria e l’Italia, che coinvolgono la Bulgaria, la Croazia, la Grecia, l’Ungheria, la Romania e la Slovenia. Quegli stati che fanno “accordi sporchi” che aumentano la loro dipendenza da una sola fonte di energia nonostante le loro dichiarate "politiche di diversificazione”.

Naturale che non sia gradito a Washington un gasdotto che continui a far arrivare il gas russo in Europa, mantenendo l’Europa nella dipendenza energetica da Mosca. Meglio che gli europei muoiano dal freddo in attesa di avere il gas scisto dagli USA in base alle nuove tecniche che gli americani stanno sperimentando per l’estrazione di questo gas, tecniche altamente inquinanti. Se gli europei nel frattempo patiranno il freddo, “che si fottano”, avrebbe nuovamente esclamato l’esponente della diplomazia USA.

Il discorso della della Nuland, denota il tono arrogante della fiduciaria della élite di potere di Washington che si rivolge agli stati vassalli dell’Impero esortandoli ad essere” docili e grati “al padrone USA per i benefici che ricevono in cambio della loro obbedienza: lo scudo di sicurezza della NATO, la prosperità assicurata dalla UE e dal prossimo trattato inter atlantico il TTIP, chiedendo in cambio di questi “benefici” la completa subordinazione e la rinuncia ad ogni sovranità (esattamente quella che ci chiede ad ogni piè sospinto il presidente Napolitano).
In un momento in cui il governo di Washington si è lanciato in una crociata bellicista contro la Russia ed i suoi alleati (l’Iran, la Siria), la Nuland esige da tutti i paesi europei di attenersi scrupolosamente alle direttive e non uscire dai ranghi”, lo ha fatto chiaramente intendere, con un minaccioso avvertimento ai dissidenti come Orban.
Non sappiamo se a questo punto Orban vorrà rientrare nei ranghi e dichiarare obbedienza al potente alleato, altrimenti la vediamo dura per l’Ungheria e non vorremmo che si arrivasse un domani, come già successo per la Serbia e Belgrado, ad un nuovo bombardamento con il pretesto di una “azione umanitaria”, magari su Budapest con l’avallo di Renzi per l’Italia, come ci fu per il bombardamento di Belgrado quello di Massimo D’Alema.

Per quello che ci riguarda possiamo tranquillizzare la Nuland: attualmente per i governi come quello italiano (ma vale anche per paesi come Spagna, Grecia, Francia e Portogallo) è sicuro che non avranno niente da temere, l’obbedienza e la totale subordinazione è assicurata. Abbiamo anzi un presidente del consiglio come Matteo Renzi il quale ha dichiarato persino di ispirarsi al presidente Obama ed al suo celebre slogan: “yes we can”.


Qualsiasi richiesta gli USA ci vogliano fare, il fiorentino è pronto ad essere il primo della classe ad obbedire.
Tratto da:Sa Defenza





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LA DURA VERITA' SULL'ITALIA: INTERVISTA A PAOLO CARDENA'

Pubblicato su 10 Ottobre 2014 da frontediliberazionedaibanchieri in ECONOMIA
Ospitiamo con immenso piacere una intervista a Paolo Cardenà, blogger di straordinario spessore - www.vincitorievinti.com - e consulente finanziario, per analizzare la situazione economica italiana attuale, cercare di fare il punto su quali sono le aspettative per i prossimi 6-12 mesi e soprattutto per dire con estrema chiarezza di cosa avrebbe bisogno il paese per uscire dalle secche in cui si è cacciato da anni e cosa invece il governo Renzi - sulla falsariga di quelli che l'han preceduto, Letta e Monti - sta facendo.
Con l'occasione, vogliamo ricordare che stiamo lavorando con Paolo Cardenà per organizzare nel prossimo futuro eventi, sia in streaming live che in sala, non solo per spiegare dati alla mano come stanno davvero le cose, ma soprattutto per proporre soluzioni pratiche a chi, vivendo in questo paese, si tratti di famiglia o impresa, si sente sempre più "ostaggio" di uno Stato che, invece di proteggere e tutelare la propria attività e il proprio patrimonio, è il primo ad attaccarli e depredarli.
Buona lettura.
TN: Come vedi la situazione economica generale al momento?

Paolo Cardenà: Gli ultimi indicatori forniti dall'Istat confermano che la situazione economica italiana si sta ulteriormente deteriorando. Cosa che, a dire il vero, ci aspettavamo. Purtroppo l'Italia è caduta in uno stallo che si protrae ormai da diversi anni, e sembra che stia percorrendo un sentiero molto pericoloso, nel quale, con ogni probabilità, nella migliore delle ipotesi, si troverà ad alternare periodi di recessione con periodi di bassa crescita, in un percorso distruttivo fortemente allarmante. C'è da dire anche che, per il momento, le esportazioni sembrano aver offerto un sostegno significativo alla tenuta del PIL. Più o meno tutte le più grandi economie occidentali, dopo il periodo di burrasca successivo alla scoppio della bolla dei mutui subprime e al fallimento della banca americana Lehman Brothers, seppur con molte difficoltà e con altrettanti elementi di fragilità, hanno conosciuto una ripresa dell'attività economica che, in un certo qual modo, ha contribuito a sostenere l'export italiano, che a sua volta ha dato e continua a dare un ottimo contributo all'attività economica italiana, compensando in parte il crollo della domanda interna dell'Italiana.

TN: Quindi, quali sono le aspettative per i prossimi 6-12 mesi?

Paolo Cardenà: E' evidente che queste economie si trovino in una fase di ciclo economico molto più avanzata rispetto all'economia italiana che sta ancora combattendo con la crisi che si protrae dal 2008. In alcune di queste aree, stanno già incubando i prodromi per una prossima crisi. Non possiamo dire quando scoppierà: se tra sei mesi, un anno, oppure due. Ma è certo che scoppierà,e quando avverrà, è chiaro che si assisterà ad una contrazione del commercio internazionale che aggredirà anche le dinamiche della componente export dell'Italia, che a quel punto si troverà ancora in condizioni di estrema fragilità e, in assenza di una domanda interna sostenuta (che non appare all'orizzonte) tale da contribuire ad arginare la contrazione dell'export, ne verrà travolta pagandone il prezzo più alto.

Il Fondo Monetario Internazionale che, nel World Economic Outlook pubblicato ieri, pone particolare attenzione ai fattori di rischio al ribasso per l'economia globale, non dimenticando di segnalare come l'intensificarsi e il persistere di rischi di natura geopolitica, potrebbero riflettersi sui prezzi dei prodotti petroliferi, sull'intensità del commercio internazionale, e potrebbe portare ad ulteriori difficoltà economiche. Non solo, ma il FMI afferma anche che nelle economie avanzate, la stagnazione secolare e la bassa crescita potenziale continueranno ad essere rilevanti fattori di rischio, nonostante tassi di interesse molto bassi. Aggiunge anche che il protrarsi di fenomeni deflattivi o deflazione vera e propria, in particolare nell'area dell'euro, potrebbero rappresentare un rischio per l'attività e la sostenibilità del debito in alcuni paesi. E qui il richiamo sembra essere rivolto proprio all'Italia, per via del debito pubblico in continua ascesa, e anche per via delle condizione di estrema fragilità dell'economia nazionale: fattori che incidono significativamente sulla sostenibilità del debito pubblico, peraltro aggravata -nel lungo periodo- anche da un deficit demografico che si sta ulteriormente deteriorando per via del fatto che molti giovani italiani stanno abbandonando l'Italia per cercare fortuna in luoghi ove esistono condizioni più favorevoli per realizzarsi e costruire un futuro migliore. Che l'Italia possa trovarsi nella condizione di operare una ristrutturazione del debito pubblico è una possibilità che non va esclusa a priori. Come non va esclusa la possibilità che si possa arrivare a qualche forma di imposizione patrimoniale straordinaria, proprio finalizzata a rendere più sostenibile il debito pubblico. Ma in questo caso, a mio avviso, gli affetti distruttivi sarebbero enormi.

TN: Di che cosa ha bisogno l'Italia per uscire dal limbo in cui si è cacciata?

Paolo Cardenà: Finora si è affrontata questa crisi - che di rituale ha assai poco - con manovre di politica economica del tutto rituali, che hanno miseramente fallito e aggravato la situazione. Quello che non comprendono i nostri governanti (e anche molti economisti) quando azzardano previsioni di crescita del Paese (sistematicamente fallite), è un fatto molto semplice, anzi banale.

Ossia, loro, più o meno colpevolmente, pensano che l’Italia, considerate le diverse componenti del Pil, possa crescere esprimendo per ciascuna componente lo stesso potenziale di contribuzione espresso nel periodo precedente la crisi, ignorando la distruzione intervenuta in questi anni.

Mi spiego: se prima dalla crisi 100 persone producevano 1000 euro di ricchezza, oggi, ad esempio, le stesse persone esprimono un potenziale di contribuzione alla crescita non più di 1000, ma magari di 900, o forse meno.
Questo perché, quelli che gli economisti chiamano "agenti economici", per via della crisi, hanno subìto una forte riduzione della potenzialità di contribuzione alla generazione di ricchezza. E ciò per diversi fattori.
Solo per citare alcuni esempi: dall’inizio della crisi sono risultati insolventi nei confronti del sistema bancario oltre un milione di soggetti, tra famiglie e imprese. Costoro, allo stato attuale (ma anche futuro) non hanno alcuna possibilità di accesso al credito, né per effettuare investimenti in beni durevoli, né per finanziare qualche ipotetica iniziativa imprenditoriale. Anzi, nei casi più eclatanti vivono in condizioni di miseria o povertà assoluta. Quindi minori investimenti corrispondono a un minor PIL.


Altro esempio. Sempre per via della crisi, molti soggetti (oltre a quelli sopra citati) hanno accumulato ingenti debiti tributari, perché non sono riusciti ad adempiere all’obbligazione tributaria, seppur legittimamente dichiarata nella denuncia dei redditi. Questi soggetti saranno costretti a vivere in condizioni di clandestinità fiscale e, anche in futuro, dovranno comprimere i consumi o rinunciare ad investire in beni durevoli, in case, o automobili, che altrimenti verrebbero aggrediti da Equitalia.


Pensi, ancora, alla pressione fiscale, notevolmente aumentata dall’inizio della crisi, nonostante redditi reali in diminuzione. Un minor reddito, peraltro gravato da un maggior onere fiscale, corrisponde ad un minor reddito disponibile per sostenere i consumi.
In parole più semplici, questi fattori e molti altri ancora, contribuiscono a comprimere le potenzialità di crescita del paese, con soggetti in ostaggio (e vittime, allo stesso tempo) della crisi e di un sistema fiscale che dovrebbe essere profondamente riformato.
Si potrebbe andare avanti per ore, ma il risultato sarebbe sempre lo stesso. Cioè che, ad oggi, alla produzione della ricchezza nazionale auspicata (sognata) dal governo deve contribuire una platea considerevolmente più ristretta rispetto al passato, sulla quale grava anche un onere fiscale maggiore.
Fino a quando questi soggetti non verranno in qualche modo riabilitati o reintegrati nella sfera economica e sociale, qualsiasi previsione di crescita del Paese sarà destinata a fallire miseramente, sotto i colpi di posizioni ideologiche (da parte della politica) ancora ben lontane dal comprendere la profondità di questa crisi.
Ecco, l’ho detto in maniera semplice e banale. Ma qui, di teoria economica c’è ben poco, e il ragionamento osservato è solo di logica e buonsenso.

TN: E di Renzi, cosa ci dici?

Paolo Cardenà: Il mio giudizio è assai negativo sull'operato del governo Renzi, per tutte le ragioni di cui abbiamo abbondantemente discusso sul blog. Quando Renzi afferma che siamo all'ultima spiaggia, sostanzialmente lo dice per proprio tornaconto. Perché a lui e alla nomenclatura politica trincerata dietro alle sue spalle, fa comodo che l'opinione pubblica si convinca che leadership di Renzi sia l'unica soluzione possibile, l'unica in grado di fare qualcosa per il paese, l'unica capace di invertire il declino italiano. E nel frattempo loro rimangono saldamente ancorati allo STATUS QUO, godendo di tutti i benefici che ne conseguono.

Ecco perché gli italiani, alle scorse europee, hanno rovesciato una valanga di voti a favore di un partito dai connotati genetici discutibili, guidato da un tizio che sta dimostrando la sua inerzia intellettiva dinanzi alle condizioni drammatiche del paese. Perché hanno creduto (e credono tutt'ora) che quella di Renzi, magari anche per via della sua giovane età, sia l'unica alternativa possibile ad un vuoto politico che, se colmato, rischierebbe di produrre altrettanti cialtroni, non meno distruttivi rispetto a quelli del passato.

D'altra parte, quello italiano, per lo più, è un popolo naturalmente incline a cedere al fascino delle lusinghe di chi promette la gloria. Quindi, perche non concedere fiducia ad un ragazzotto per bene che sembra avere le idee chiare? si saranno detti chi lo ha votato.

Ecco, il punto è proprio questo: quello delle idee chiare. Che, ahimè, non appartengono affatto al patrimonio intellettivo di Renzi, visto che ha una cognizione del tutto asimmetrica rispetto alla realtà delle cose, e alle tragiche condizioni del paese.

Al netto del fatto che siamo già abbondantemente "spiaggiati", non è assolutamente vero che Renzi sia l'unica alternativa possibile. Anzi, a dire il vero, lo stesso Renzi, in quanto espressione dei soliti interessi partitici e lobbistici, rappresenta un ostacolo alle vere alternative. L'Italia non è quella di Renzi, quella che vogliono i partiti, o peggio quella disegnata da un vecchio signore di novant'anni, che sta progettando il futuro dei prossimi 20/30 anni di 60 milioni di persone, nascituri compresi.

E' tutt'altra cosa rispetto a come la vorrebbero loro, che continuano ad affannarsi nel rincorrere spasmodicamente soluzioni finalizzate a comprimere dignità, diritti e libertà. E lo stato di polizia tributaria in cui siamo reclusi ne costituisce l'espressione più autentica.

L'evasore è il capro espiatorio del declino italiano, cioè colui per mezzo del quale è possibile giustificare ogni repressione delle libertà individuali, come quella (ormai prossima) della riduzione dell'uso del contante. Ma queste sono solo le ultime cartoline da basso impero, almeno spero.

Nonostante tutto, l'Italia, ancora oggi, può contare su uno straordinario patrimonio culturale in ogni campo, in ogni disciplina. E non mi riferisco solo al patrimonio culturale consegnatoci dalla storia. L'Italia è piena di eccellenze: dalla scienza, alla fisica, all'imprenditoria, alla medicina, fino ad arrivare all'economia, e così via.

L'Italia dispone di grandissime intelligenze, di menti acute, perseveranti ed eccellenti. Sono persone che, con il proprio lavoro, con la propria dedizione e con altrettanto sacrificio, ogni giorno combattono la disfatta che costoro vorrebbero infliggerci, dopo averci appiattito nel modo di pensare, di ragionare, di essere autentici, di essere individui, inteso nella forma più alta del termine.

TN: Esistono ancora condizioni per uscire da limbo?

Paolo Cardenà: Più che dibattere senza costrutto e accusarsi tutti, l’un l’altro, per ciò che non è stato fatto negli anni o decenni trascorsi e a proporre improbabili ricette a favore di qualche sparuta categoria o peggio ancora clientela, bisogna amaramente ma consapevolmente ammettere, che l’ITALIA ha fallito nel suo proposito di diventare un paese virtuoso, come ci era stato prospettato al momento dell’entrata nell’EURO.

Purtroppo l’ITALIA, a questo punto e con la classe politica e dirigente che si ritrova, non ce la può fare più a competere all’interno di un sistema economico finanziario con regole tedesche. Insomma l’ITALIA dovrebbe pensare a come poter uscire dall’EURO con i minori danni possibili per sé e per gli altri, se vuole avere una ragionevole speranza di uscire dal lunghissimo tunnel in cui è entrata e riprendere, dopo un breve calvario, la strada della crescita. L’alternativa, nella situazione attuale, è quella che abbiamo iniziato a sperimentare, ovvero:

Declino inarrestabile del sistema produttivo manifatturiero italiano

Aumento della disoccupazione e crescita del paese da sognare per lungo tempo

Impoverimento continuo delle famiglie, della classe media e poi anche degli altri

Collasso del welfare attuale perché insostenibile

Tratto da: Trading Network




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Ultima modifica:
9 ore fa

IL TORMENTONE DI QUESTI MESI: LE "RIFORME"

Ma voi avete capito esattamente che cosa si cela dietro questa parola, che all'apparenza può sembrare positiva e indicare buoni propositi? Già perché di fatto i politici continuano a martellare il... concetto che "Dobbiamo fare le riforme, dobbiamo farle per salvare il Paese dal disastro, dobbiamo farle in fretta e subito..." Lo dice Napolitano, lo dice RENZI, lo dice la Boldrini, lo ordina Mario Draghi dalla BCE.

Visto però che nello specifico dicono gran poco cerchiamo di capire che hanno in testa questi signori quando continuano a indicare queste fantomatiche "riforme" come l'ancora di salvezza del paese.

Bene, senza girarci intorno troppo a lungo, nella maggior parte dei casi col termine "riforme" si intende "metodi che permettano allo Stato di tirar su soldi per pagare il debito pubblico", ovvero: vendita, ma potremmo anche dire chiaramente svendita dei beni, dei servizi e delle aziende di Stato a Lobby private.

ACQUA

ENERGIA

ISTRUZIONE

SANITÀ

TUTTO DIVENTERÀ PRIVATO E FONTE DI PROFITTO PER INVESTITORI ESTERI, PER LO PIÙ MULTINAZIONALI.

Caleranno i prezzi dei beni superflui ed aumenteranno i prezzi dei beni e dei servizi NECESSARI, che saranno interamente gestiti e dispensati da enti privati.

Quindi: RIFORME = SVENDITA DELLE AZIENDE DI STATO e DEI SERVIZI NORMALMENTE EROGATI DALLO STATO.

Da notare che queste aziende hanno sempre rappresentato una fonte di reddito per lo Stato, svendendole, lo Stato se ne priverà, dovendo in tal modo compensare alzando tasse, sanzioni ecc.

E veniamo alla riforma del lavoro. La maggior facilità di LICENZIAMENTO non è stata introdotta per garantire "una maggior flessibilità e bla bla bla" ma semplicemente per PROCEDERE VERSO LA REVOCA DEL DIRITTO DI SCIOPERO. Sai che possono licenziarti senza gravi motivi, che fai, scioperi? Eh no, ci pensi bene, stai attento e decidi di cucirti la bocca per tenerti il posto.

L'OBIETTIVO È SEMPRE LO STESSO, PERSEGUITO SU MOLTI FRONTI CON METODI E STRATEGIE DIFFERENTI:

- DISTRUZIONE DELLA PICCOLA E MEDIA IMPRESA,

- AFFIDAMENTO TOTALE DELLA PRODUZIONE E DELL'EROGAZIONE DEI SERVIZI AD AZIENDE MULTINAZIONALI,

- ESPROPRIAZIONE DEI BENI DEL CETO MEDIO,

- CREAZIONE DI UN'UNICA CLASSE DI LAVORATORI-OPERAI, SOTTOPAGATI, MALE ISTRUITI E CON POCHISSIMI DIRITTI, ALLE DIPENDENZE DI GRANDI AZIENDE GESTITE DA POCHISSIMI POTENTI

BENVENUTI NEL NUOVO ORDINE MONDIALE Altro...






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