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SCHIANTO GETTITO FISCALE: IRES -18,7% IRPEF -0,8% (COME PREVISTO DA LAFFER!)

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6 ottobre - Crolla tra gennaio e agosto 2014 il gettito derivante dalle imprese. L'Ires, comunica il Mef, mostra un calo del 18,7% (-3.531 milioni), essenzialmente riconducibile ai minori versamenti a saldo 2013 e in acconto 2014 effettuati da banche e assicurazioni. In calo anche l'Irpef, in negativo dello 0,8% (-928 milioni di euro). Tutto ciò, come molti economisti sanno, non fa che confermare la cosiddetta ''curva di Laffer'': c'è un livello dopo il quale aumentando le tasse il gettito fiscale diminuisce
 

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Fmi vuole il nostro sangue, e Renzi glielo darà

Scritto il 07/10/14 • nella Categoria: segnalazioni



Salari più bassi, meno assistenza, tagli alle pensioni. Il programma dei governi nazionali? Lo scrive la Troika, ed è stupefacente che qualcuno ancora ne dubiti, specie “a sinistra”. Così, ad ogni periodico report, sono i pilastri della stessa Troika a ricordarcelo: di recente è toccato al Fmi, che ha rivisto anche al ribasso le previsioni di crescita per l’Italia, ovvero di recessione: -0,1%, secondo l’istituto internazionale guidato da Christine Lagarde. Le previsioni per gli anni successivi (+1,1 nel 2015, + 1,3 nel 2016) «appartengono al “wishful thinking” più che alle stime scientifiche», secondo Claudio Conti, «perché è ormai chiaro che le variabili macro-globali sono fuori dal controllo di qualsiasi ente». Semplicemente, «nessuno sa come andrà: si incrociano le dita e si sparano “ricette” a seconda degli interessi che si rappresentano». Dato che il Fmi è una sorta di braccio armato del capitalismo finanziario multinazionale, con preponderanza anglo-statunitense, «se l’obiettivo è trasferire quote di ricchezza dalle popolazioni alla finanza multinazionale, ecco che i “consigli” del Fondo assumono toni granguignoleschi».
La chiave di volta resta il debito pubblico, scrive Conti su “Contropiano”: la finanza globale ama soltanto quello privato, ovvero fondamentalmente il proprio debito, e si scaglia contro quello “pubblico”, pretendendo trasferimenti diretti verso le proprie casse. Il debito italiano, come ormai ammette anche il ministro Padoan, è destinato a salire anche a dispetto (o meglio, a causa) dei tagli di spesa: toccherà il 136,4% del Pil entro fine 2014, per poi scendere progressivamente, ma restando comunque sopra il 130% fino al 2017. «Trattandosi di una proporzione e non di una cifra assoluta – osserva Conti – se a un governo vengono “consigliate” manovre recessive, il risultato sarà una contrazione del Pil». Dunque, la relazione debito-Pil «resterà negativa anche tagliando alla grande il debito». Di conseguenza, sentenzia il Fmi, il tasso di disoccupazione in Italia è destinato a salire ancora: 12,6%, il più alto dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.
E qui arrivano i primi “complimenti” al governo Renzi, la cui “riforma del mercato del lavoro”, con tanto di precarizzazione universale e contrazione dei salari, «è vista come condizione ottimale per aumentare la quantità di persone da mettere al lavoro a salari da fame». Dunque la riforma Renzi «va nella giusta direzione», ma il premier deve «muoversi rapidamente sulle riforme». Bene anche l’idea di un «singolo contratto di lavoro», con «il 70% dei nuovi contratti a tempo determinato», nonché «ulteriore flessibilità». Tradotto: la precarietà è utile per le produzioni o le imprese “marginali” (piccole o piccolissime), ma l’attacco va condotto direttamente contro il nucleo centrale dell’occupazione «stabile e a tempo indeterminato», in modo da comprimere violentemente e una volta per tutte il costo del lavoro anche nei comparti-chiave dell’economia italiana.
Benedizioni quindi anche per uno «strumento importante» come la “spendig review”, non a caso affidata a Carlo Cottarelli, un economista dello stesso Fmi, che ad ottobre rientrerà nei ranghi dell’organismo sovranazionale. Ma al Fondo sanno fare i conti, aggiunge “Contropiano”: per quanto si possa tagliare la spesa pubblica toccando le varie «sacche di inefficienza» o spreco, non si arriverà mai a sforbiciare abbastanza da riportare il debito pubblico entro quel 60% indicato dagli accordi di Maastricht. Come si può fare, allora? «Ulteriori risparmi saranno difficili senza affrontare l’elevata spesa per le pensioni» e anche la spesa sanitaria. «Bingo! Il Fmi dice fuori dai denti che è ora di far fuori un po’ di anziani, riducendo le loro “aspettative di vita” grazie a pensioni ancora più basse e minori prestazioni sanitarie», scrive Conti. «Non serve, insomma, “tagliare gli sprechi”, il Fondo consiglia (prescrive? ordina?) di tagliare la carne viva della gente fino all’osso e anche oltre». Viceversa, ammonisce il Fmi, l’Italia rimarrà «vulnerabile a una perdita di fiducia del mercato» e al «contagio finanziario», diventando «fonte di contagio per il resto del mondo».
«Per tutte queste ragioni – continua “Contropiano”– il Fmi promuove “l’ambiziosa agenda di riforme” del governo Renzi, suscitando la poco divertente impressione del burattinaio che dice “bravo!” alla marionetta». Il Fondo Monetario non ha dubbi: «Attuare le riforme strutturali simultaneamente genererebbe significative sinergie di crescita». Quanto sia “invasiva” la logica del Fondo, osserva Conti, è dimostrato da una delle tante raccomandazioni non direttamente economche: il progetto di legge elettorale delineato dall’“Italicum” è considerato un’ottima idea, perché «aiuta il sostegno e l’attuazione delle riforme». Chiosa Claudio Conti: «Non servirebbe la traduzione, ma ve la diamo egualmente: un programma di “riforme” così sanguinose e infami non avrebbe alcuna possibilità di esser approvato anche elettoralmente; bene dunque l’idea di escludere che il parere dei cittadini possa rallentare – o, orrore!, “impedire” – l’attuazione del programma. La democrazia non serve più al capitale, ergo si può e si deve metterla da parte».
Salari più bassi, meno assistenza sanitaria, tagli alle pensioni. Il programma dei governi nazionali? Lo scrive la Troika, ed è stupefacente che qualcuno ancora ne dubiti, specie “a sinistra”. Così, ad ogni periodico report, sono i pilastri della stessa Troika a ricordarcelo: di recente è toccato al Fmi, che ha rivisto anche al ribasso le previsioni di crescita per l’Italia, ovvero di recessione: -0,1%, secondo l’istituto internazionale guidato da Christine Lagarde. Le previsioni per gli anni successivi (+1,1 nel 2015, + 1,3 nel 2016) «appartengono al “wishful thinking” più che alle stime scientifiche», secondo Claudio Conti, «perché è ormai chiaro che le variabili macro-globali sono fuori dal controllo di qualsiasi ente». Semplicemente, «nessuno sa come andrà: si incrociano le dita e si sparano “ricette” a seconda degli interessi che si rappresentano». Dato che il Fmi è una sorta di braccio armato del capitalismo finanziario multinazionale, con preponderanza anglo-statunitense, «se l’obiettivo è trasferire quote di ricchezza dalle popolazioni alla finanza multinazionale, ecco che i “consigli” del Fondo assumono toni granguignoleschi».
La chiave di volta resta il debito pubblico, scrive Conti su “Contropiano”: la finanza globale ama soltanto quello privato, ovvero fondamentalmente il proprio debito, e si scaglia contro quello “pubblico”, pretendendo trasferimenti diretti verso le proprie casse. Il debito italiano, come ormai ammette anche il ministro Padoan, è destinato a salire anche a dispetto (o meglio, a causa) dei tagli di spesa: toccherà il 136,4% del Pil entro fine 2014, per poi scendere progressivamente, ma restando comunque sopra il 130% fino al 2017. «Trattandosi di una proporzione e non di una cifra assoluta – osserva Conti – se a un governo vengono “consigliate” manovre recessive, il risultato sarà una contrazione del Pil». Dunque, la relazione debito-Pil «resterà negativa anche tagliando alla grande il debito». Di conseguenza, sentenzia il Fmi, il tasso di disoccupazione in Italia è destinato a salire ancora: 12,6%, il più alto dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.
E qui arrivano i primi “complimenti” al governo Renzi, la cui “riforma del mercato del lavoro”, con tanto di precarizzazione universale e contrazione dei salari, «è vista come condizione ottimale per aumentare la quantità di persone da mettere al lavoro a salari da fame». Dunque la riforma Renzi «va nella giusta direzione», ma il premier deve «muoversi rapidamente sulle riforme». Bene anche l’idea di un «singolo contratto di lavoro», con «il 70% dei nuovi contratti a tempo determinato», nonché «ulteriore flessibilità». Tradotto: la precarietà è utile per le produzioni o le imprese “marginali” (piccole o piccolissime), ma l’attacco va condotto direttamente contro il nucleo centrale dell’occupazione «stabile e a tempo indeterminato», in modo da comprimere violentemente e una volta per tutte il costo del lavoro anche nei comparti-chiave dell’economia italiana.
Benedizioni quindi anche per uno «strumento importante» come la “spendig review”, non a caso affidata a Carlo Cottarelli, un economista dello stesso Fmi, che ad ottobre rientrerà nei ranghi dell’organismo sovranazionale. Ma al Fondo sanno fare i conti, aggiunge “Contropiano”: per quanto si possa tagliare la spesa pubblica toccando le varie «sacche di inefficienza» o spreco, non si arriverà mai a sforbiciare abbastanza da riportare il debito pubblico entro quel 60% indicato dagli accordi di Maastricht. Come si può fare, allora? «Ulteriori risparmi saranno difficili senza affrontare l’elevata spesa per le pensioni» e anche la spesa sanitaria. «Bingo! Il Fmi dice fuori dai denti che è ora di far fuori un po’ di anziani, riducendo le loro “aspettative di vita” grazie a pensioni ancora più basse e minori prestazioni sanitarie», scrive Conti. «Non serve, insomma, “tagliare gli sprechi”, il Fondo consiglia (prescrive? ordina?) di tagliare la carne viva della gente fino all’osso e anche oltre». Viceversa, ammonisce il Fmi, l’Italia rimarrà «vulnerabile a una perdita di fiducia del mercato» e al «contagio finanziario», diventando «fonte di contagio per il resto del mondo».
«Per tutte queste ragioni – continua “Contropiano”– il Fmi promuove “l’ambiziosa agenda di riforme” del governo Renzi, suscitando la poco divertente impressione del burattinaio che dice “bravo!” alla marionetta». Il Fondo Monetario non ha dubbi: «Attuare le riforme strutturali simultaneamente genererebbe significative sinergie di crescita». Quanto sia “invasiva” la logica del Fondo, osserva Conti, è dimostrato da una delle tante raccomandazioni non direttamente economche: il progetto di legge elettorale delineato dall’“Italicum” è considerato un’ottima idea, perché «aiuta il sostegno e l’attuazione delle riforme». Chiosa Claudio Conti: «Non servirebbe la traduzione, ma ve la diamo egualmente: un programma di “riforme” così sanguinose e infami non avrebbe alcuna possibilità di esser approvato anche elettoralmente; bene dunque l’idea di escludere che il parere dei cittadini possa rallentare – o, orrore!, “impedire” – l’attuazione del programma. La democrazia non serve più al capitale, ergo si può e si deve metterla da parte».
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Tr Tratto da “La banca, la moneta e l’usura – La Costituzione tradita”, di Bruno Tarquini
[*], già Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte d’Appello dell’Aquila (ed. Controcorrente, Napoli 2001)

“Le anomalie di un bilancio […] la Banca d’Italia, nei propri bilanci, iscrive tra le poste passive la moneta che immette in circolazione. Questo ritiene di poter fare in virtù di un mero gioco di parole, che si risolve in definitiva in una presa in giro del popolo, sfruttando in modo truffaldino la formula che ancora si trova scritta sulle banconote (“Lire centomila – pagabili a vista al portatore” – firmato “Il Governatore”) e che, oggi, non avrebbe più alcuna ragione di essere, perché non significa nulla [1].
Infatti si tratta di un’obbligazione che l’istituto bancario si assumeva nel passato (nel tempo, cioè, in cui vigeva la convertibilità del biglietto di banca in oro) di convertire appunto la carta moneta nel metallo prezioso che ne costituiva la garanzia (base aurea).
Nei tempi attuali, in cui quella convertibilità è stata abolita ed è stato imposto il corso forzoso della moneta cartacea, quella “promessa di pagamento a vista” ha perduto ogni contenuto e non può, quindi, avere alcun valore. Tuttavia la Banca d’Italia ritiene ancora di potersene avvalere, confidando che la mera apparenza, che ancor oggi conservano i biglietti di banca, di cambiali a vista, e quindi formalmente di debito, le possa consentire legittimamente di considerare la moneta immessa in circolazione come una propria passività da iscrivere in bilancio tra le poste passive. Ed è noto come l’aumento artificioso del passivo, in un bilancio societario, determini un illecito annullamento dell’attivo [2].

Quindi l’Istituto di Emissione immette in circolazione banconote che sono non solo prive di alcuna copertura (neanche parziale) o garanzia, ma anche strutturate come false cambiali, che da un lato offrono una parvenza di legalità alla loro iscrizione nel passivo dell’azienda, dall’altro costituiscono un “debito inesigibile”, come affermano le stesse autorità monetarie, inventando una fattispecie giuridica di cui facilmente si può misurare l’assurdità. A parte, infatti, che la inesigibilità non può che riguardare il credito (perché è questo che, caso mai, non può essere esatto), con la formula del “debitore inesigibile” si fa decidere allo stesso debitore di non pagare il debito.
Una cosa è dire che “il credito” è inesigibile perché il debitore non può pagare, altra cosa è invece dire che esso è inesigibile perché il debitore (la Banca Centrale) per legge ha la garanzia di non dover pagare.
Riassumendo, delle due l’una: o la Banca d’Italia non è proprietaria della moneta al momento dell’emissione (come hanno affermato i rappresentanti del governo rispondendo alle interrogazioni parlamentari) ed allora appare del tutto ingiustificato che ne tragga un utile, tanto più che la banca stessa assume di essere debitrice dei simboli monetari emessi, così da iscriverli come posta passiva nel proprio bilancio; oppure la Banca Centrale (contrariamente a quanto dichiarato dai due Sottosegretari di Stato) è proprietaria di quella moneta e con giustificazione (solo apparente) ne ritrae un utile dal suo prestito al sistema economico nazionale, ma allora assume i contorni di un fatto illecito far figurare come poste passive operazioni che sono invece indubbiamente attive.”

 
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seraregime di libera circolazione dei capitali Fiorenzo Fraioli on October 7, 2014 — Leave a Comment
A partire dal “divorzio”, un’imponente produzione legislativa trasformò completamente il regime finanziario seguito dall’Italia, ponendo fine a una condizione alla quale possiamo riferirci con l’espressione “repressione finanziaria”. Dal documento programmatico presentato all’Assemblea nazionale dell’ARS (PESCARA 15 e 16 giugno 2013) leggiamo:
Primo presupposto del regime di repressione finanziaria è che il risparmio dei residenti, cittadini o stranieri, famiglie o imprese, non possa uscire liberamente dall’Italia: chi intenda far uscire il proprio risparmio dall’Italia deve chiedere un’autorizzazione amministrativa. Questo principio oggi stupisce e insospettisce la persona comune, la quale, generalmente, ha l’animo e la mente conquistati da (oltre) venti anni di ideologia liberoscambista. Eppure è stato un principio vigente dagli anni trenta al 1990, quando fu abolito il controllo amministrativo sulla circolazione dei capitali. In particolare in Italia sono state vigenti dal 1956 al 1990 le seguenti disposizioni normative, contenute nel D.L. 6 giugno 1956, n. 476, convertito con modificazioni dalla L. 25 giugno 1956, n. 786: “Ai residenti è fatto divieto di possedere quote di partecipazione in società aventi la sede fuori del territorio della Repubblica nonché titoli azionari e obbligazionari emessi o pagabili all’estero se non in base ad autorizzazioni ministeriali” (art. 5, I comma); “Le cessioni, gli acquisti e ogni altro atto di disposizione fra residenti e non residenti, concernenti i titoli di credito di qualsiasi specie, non possono effettuarsi se non in base ad autorizzazioni ministeriali” (art. 6, I comma); “L’esportazione dei titoli di credito menzionati al precedente comma, nonché dei biglietti di Stato e di banca “nazionali”, può effettuarsi in base ad autorizzazioni ministeriali“ (art. 6, II comma); più in generale, “Ai residenti è fatto divieto di compiere qualsiasi atto idoneo a produrre obbligazioni fra essi e non residenti, esclusi i contratti di vendita di merci per l’esportazione nonché i contratti di acquisto di merci per l’importazione, se non in base ad autorizzazioni ministeriali. Ai residenti è fatto divieto di effettuare esportazioni ed importazioni di merci se non in base ad autorizzazioni ministeriali” (art. 2, I comma)”.
Lo smantellamento del regime di repressione finanziaria vigente in Italia è avvenuto attraverso una serie di interventi succedutisi per tutti gli anni ‘80. Nel 1983 venne presa la prima e forse più importante decisione, l’accantonamento del “massimale sugli impieghi”. Questo era uno strumento della politica creditizia che autorizzava lo Stato a fissare un limite massimo alla crescita dei prestiti bancari, sia globalmente che in riferimento a particolari categorie di prestiti. L’utilizzo del “massimale sugli impieghi” poneva sotto il controllo dello Stato il flusso dei prestiti bancari al mercato, consentendo di limitare la quantità di denaro che le banche potevano prestare senza che la Banca d’Italia dovesse, per ciò, alzare il tasso di sconto; questo impediva che un aumento dei tassi si riflettesse sui costi per la remunerazione del debito pubblico, anche perché le banche in possesso di liquidità in eccesso, non potendo espandere i loro prestiti oltre i limiti prefissati, non avevano altra scelta che acquistare titoli di stato, facendone scendere gli interessi. Inoltre, poiché lo Stato poteva profilare il massimale in base alle tipologie di prestiti (mutui piuttosto che prestiti commerciali, ad esempio), esso aveva il pieno potere di intervenire sul mercato per stroncare, sul nascere, ogni accenno di bolla. Quella immobiliare, che ha devastato l’economia spagnola e ha creato serie difficoltà anche nel nostro paese, poteva essere repressa con un semplice atto amministrativo.
In Italia il controllo del credito attraverso il massimale degli impieghi era stato attuato dalla Banca d’Italia, per la prima volta, il 26.7.1973. Nel 1978, in vista dell’entrata nello SME, la portata di tale provvedimento venne attenuata, per poi abolirlo nel 1983. Esso venne ripristinato, seppur temporaneamente, in occasione dell’esplodere di gravi crisi valutarie (dal 16.1.1985 al giugno 1986 e dal 13.9.1987 fino al 31.3.1988) causate dalle difficoltà del nostro paese di sostenere il peso dell’adesione allo SME.
Un secondo strumento era il cosiddetto “vincolo di portafoglio”, consistente nell’obbligo, imposto dallo Stato alle banche, di “accrescere la quantità di titoli di stato in portafoglio per un ammontare minimo rispetto alla consistenza od all’incremento dei depositi”. In sostanza lo Stato, attraverso il vincolo di portafoglio, obbligava le banche all’acquisto di una quota minima di titoli del Tesoro contribuendo, anche per questa via, a mantenerne bassi gli interessi. Anche il vincolo di portafoglio, introdotto nel 1973 insieme con il massimale sugli impieghi, subì un’attenuazione nel 1978, sempre in funzione dell’entrata nello SME, e fu definitivamente revocato nel triennio 1986/1988 (adeguamento alle direttive CEE 566/1986 e 61/1988).
Oltre al massimale sugli impieghi e al vincolo di portafoglio, altre modifiche al regime di repressione finanziaria riguardarono l’abolizione degli strumenti volti a limitare la fuoruscita di capitali nazionali all’estero, come l’obbligo del “deposito vincolato infruttifero sull’acquisto di attività estere” (abolito nel 1987) e il “divieto di investimenti all’estero a breve termine”, abolito nel 1990 con l’adeguamento alla direttiva CEE sulla liberalizzazione dei movimenti di capitale a breve termine (d.m. 27.4.1990 n. 91, entrato in vigore il 14.5.1990).
L’insieme di tali provvedimenti appare particolarmente gravi ove si consideri il fatto che, in una fase di aumento generalizzato dei tassi di interesse, durante la quale sarebbe stato opportuno incanalare il risparmio delle famiglie verso impieghi domestici, si aprivano le porte all’esportazione legale di capitali alla ricerca del massimo rendimento. Negli stessi anni, giova ricordarlo, l’Italia dovette adottare una politica volta ad importare capitali esteri, pagando tassi di interesse sempre più elevati, per compensare lo squilibrio nei movimenti delle merci (e dunque il minor afflusso di valuta) conseguenza dei cambi fissi dello SME. Ovviamente l’aumento generalizzato dei tassi di interesse a livello mondiale, al quale non era possibile sfuggire proprio in virtù delle liberalizzazioni, produsse effetti depressivi sugli investimenti. Il Governo fu costretto ad intervenire sistematicamente in favore della grande industria, moltiplicando trasferimenti e sussidi, appesantendo ulteriormente il debito pubblico. L’effetto combinato sui conti dello Stato dell’adesione allo SME e della liberalizzazione del mercato dei capitali fu impressionante. Nel 1985, per la prima volta, il tasso medio pagato sul debito pubblico divenne maggiore della crescita del PIL. Per evitare gli effetti moltiplicatori insiti in questa circostanza si cominciò a parlare di riduzione della spesa pubblica.
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Il post di Francesco Lenzi ci offre una lettura dettagliata della situazione monetaria e bancaria creata dall'euro e dal sistema delle banche centrali che ne è l'unica istituzione di governo. Cioè l'unica che possa prendere decisioni non "automatiche" (come invece, appunto, i veri e propri governi nazionali).
Notare che la moneta è unica ma il debito estero di ciascuno, verso gli altri Stati che adottano la stessa moneta, rimane in tutto il suo pieno valore indicativo di squilibrio economico...da risanare con la sottomissione della propria alla sovranità altrui!
Un quadro non certo rassicurante: i tedeschi non fanno che ripetere che "i debiti si pagano". E nella nostra stessa grancassa mediatica il concetto viene ripetuto ossessivamente.
Francesco ci suggerisce due prospettive, a matrice tedesca, per mantenere in vita l'euro. E implica come nessuna delle due sia risolutiva o praticabile.
Replicare la crescita della esposizione bancaria tedesca (o francese), mentre la domanda effettiva dei debitori "beneficiati" non avrebbe serie ragioni (strutturali) di crescere, ovvero attendersi che i tedeschi snaturino se stessi e si diano pubblicamente torto da soli, non pare una grande prospettiva. Al massimo quella di prolungare un'agonia in vista della replica di un altro massacro e, probabilmente, di dimensioni ancora maggiori.
A quanto pare Sapin se n'è reso conto quando ha detto, sul rispetto del deficit "je m'en fous"...
Ma non c'è pericolo che in Italia se ne rendano altrettanto conto; pensano che basti "fare deficit"...sotto il 3%, in un paese stremato da una recessione distruttiva ormai peggiore di quella del 1929, ignorando ogni urgenza - assoluta ormai!- di riallineamento del cambio e di simultaneo rafforzamento dell'intervento industriale pubblico (che poi sarebbe il contrario delle privatizzazioni e della banca centrale indipendente pura).

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Nel maggio scorso concludevo il post sugli scenari prossimi venturi con una serie di interrogativi riguardo le decisioni che la BCE avrebbe intrapreso e gli effetti che esse avrebbero potuto provocare sul sistema finanziario della zona euro, e su quello tedesco in particolare. Alcuni nuovi spunti sembrano delineare un quadro più chiaro, mantenendo l’interrogativo di fondo: cosa faranno i tedeschi?
Prima di procedere alle considerazioni “previsionali” lasciatemi precisare alcuni elementi che credo siano fondamentali per comprendere come ci si è mossi negli scorsi anni e dove si sia diretti, partendo da una veloce analisi del bilancio della Banca d’Italia.
Una delle migliori definizioni per capire il meccanismo di funzionamento del sistema delle banche centrali della zona euro credo sia quella che sentii un sabato mattina su RaiTre, in una trasmissione che ripercorreva la storia di Banca d’Italia, da parte di Salvatore Rossi, direttore generale di Banca d’Italia. Il sistema delle banche centrali dell’area euro può essere pensato come un condominio. Un condominio nel quale ciascuna banca centrale è responsabile per le politiche monetarie nella propria Nazione ed ognuna concorre a formare le decisioni prese a livello sovranazionale. L’emissione di base monetaria, l’implementazione di operazioni di rifinanziamento del sistema bancario, l’intervento attraverso operazioni di mercato aperto sono tutte effettuate a livello di singola banca centrale nazionale, mentre le decisioni sui principali tassi d’interesse, sulle modalità, i tempi e gli strumenti da utilizzare per gli interventi delle singole banche centrali vengono decisi a livello “condominiale” e valgono per tutti i condomini. Come risulta infatti dal bilancio di Banca d’Italia (ed anche delle altre singole banche centrali nazionali) alcune delle operazioni che vengono comunemente indicate in capo alla BCE, sono in realtà eseguite a livello nazionale dalla relativa banca centrale. Ad esempio le “operazioni di rifinanziamento a più lungo termine” sono per la maggior parte le long term refinancing operations - LTROsdecise dal consiglio della BCE nel dicembre 2011 e scadenti nel gennaio e febbraio prossimo. Le “operazioni di rifinanziamento principali” sono le main refinancing operations– MROs.
Tra le passività da notare le “passività intra-EUROSISTEMA” che sono i debiti nel sistema di pagamento TARGET2.




Proprio partendo dall’analisi dell’evoluzione delle varie voci del bilancio di Banca d’Italia è possibile avere un quadro più chiaro di quello che è avvenuto con le precedenti operazioni di politica monetaria varate dalla BCE (ed effettuate dalle singole banche centrali) e quello che potrà essere il verosimile effetto delle prossime decisioni.
Da una preliminare analisi si nota come l’espansione del bilancio della Banca d’Italia sia sostanzialmente guidato, dal lato delle attività, dai prestiti concessi al settore bancario nazionale a seguito delle operazioni LTRO e MRO, mentre dal lato delle passività, dall’indebitamento verso l’eurosistema TARGET2.
La concessione di prestiti a lungo termine al sistema bancario domestico ha quasi interamente provocato l’aumento dell’indebitamento TARGET2 e l’espansione del bilancio della Banca d’Italia. Poi, successivamente, col progressivo rimborso dei prestiti si è andato di pari passo riducendo il debito con l’eurosistema.
Da ricordare che le due LTRO scadono tra non molto, la prima a gennaio 2015, la seconda a febbraio 2015. Se il sistema bancario le ripagasse completamente attraverso la raccolta all’estero dei fondi necessari, la Banca d’Italia azzererebbe il debito nel TARGET2. Difficile però immaginare che nei prossimi 5-6 mesi il sistema bancario riesca a raccogliere all’estero i 160,5 miliardi di euro che ancora rimangono a bilancio. Più probabile che esse vengano rifinanziate attraverso nuove operazioni dello stesso tipo o ripagate con le prossime vendite di titoli strutturati alla banca centrale. In entrambi i casi, non trattandosi di flussi esteri in entrata, nessun effetto si avrebbe sull’indebitamento intra-eurosistema.










A questo punto è interessante andare a vedere cosa è stato fatto delle risorse ottenute con le operazioni di rifinanziamento MRO e LTRO. La spiegazione mainstream è che le banche abbiano preso i soldi all’1% dalla BCE (in effetti dalla Banca d’Italia) e, invece che prestarli alle imprese o alle famiglie in difficoltà, abbiano fatto carry-trade speculando sugli alti tassi d’interesse offerti dai titoli di Stato italiani. Questa è sicuramente un’interpretazione aderente alla (parziale) realtà dei fatti, ma non spiega la sostanza e le ragioni del fenomeno.
Una spiegazione più concreta e approfondita è possibile ricavarla dall’ultimo bollettino economico, e dal seguente grafico sui flussi cumulati di capitali per specifiche tipologie di investimento e l’indebitamento TARGET2, costruito attraverso il database Banca d’Italia.




I prestiti LTRO e MRO, ed il conseguente indebitamento verso l’eurosistema, sono stati utilizzati dalle banche nazionali per favorire il disinvestimento degli operatori esteri dal mercato finanziario italiano.
Si nota infatti come l’indebitamento TARGET2 (e quindi l’ammontare di prestiti LTRO e MRO) vada di pari passo con i disinvestimenti/investimenti esteri su tre specifiche categorie finanziarie: titoli di Stato, prestiti e depositi esteri presso il settore bancario e titoli di portafoglio privati.
Con la fuga di capitali manifestatasi a partite dalla metà del 2011, le operazioni di rifinanziamento del settore bancario hanno fornito la liquidità necessaria per fare in modo che i creditori esteri potessero liquidare le loro posizioni a breve nel sistema bancario italiano e una buona parte dei titoli di Stato posseduti. Non diversamente quindi rispetto alle varie operazioni di “aiuto” agli Stati in difficoltà avvenute attraverso i fondi ESFS e ESM, anche le operazioni LTRO sono state funzionali al processo di deleveraging del settore finanziario dei Paesi creditori (e delle banche francesi).
Dall’inizio del 2013 i nuovi afflussi di capitali, che si sono concentrati prevalentemente su acquisti di titoli di Stato e attività di portafoglio, hanno permesso al settore bancario di soddisfare il perdurante deflusso di depositi e prestiti esteri, liquidare alcune posizioni in titoli di Stato e rimborsare parte dei prestiti LTRO, riducendosi di conseguenza l’indebitamento TARGET2 di Banca d’Italia.
Arrivati a questo punto, cosa ci possiamo aspettare dalle nuove misure annunciate dalla BCE?
La cosa sicura, al momento, è che si tratterà di operazioni mirate di finanziamento a lungo termine (TLTRO - targeted long term refinancing operations) che partiranno in questo mese e verranno effettuate con scadenza trimestrale per 8 trimestri. Oltre ad esse sarà attivato un nuovo round, il terzo, di acquisti di covered bonds e per la prima volta anche acquisti di titoli strutturati semplici e di elevata qualità – prevalentemente Assets Backed Securities e Mortgage Backed Securities.
I TLTRO, così come avvenuto per i LTRO, agiscono dal lato passività delle banche, fornendo loro liquidità a lungo termine, questa volta con specifici vincoli di impiego, pena la restituzione anticipata del finanziamento.
Pare proprio che adesso l’obbiettivo da raggiungere sia quello di un’espansione del credito all’economia reale, vincolando l’utilizzo della liquidità all’erogazione di prestiti a famiglie (esclusi i prestiti per acquisto di abitazioni) e società non finanziarie, piuttosto che incentivare il deleveraging dei creditori.

Il problema è però capire se e dove ci sia una sufficiente domanda di nuovi finanziamenti.
Le banche centrali nazionali possono fornire alle banche tutta la liquidità che si vuole ma se poi essa non viene richiesta dai privati e dalle imprese perché non ci sono prospettive d’investimento profittevoli, perché si rimandano i consumi a causa di una discesa dei prezzi o della diminuzione del reddito, perché in sostanza l’economia va male, è ipotizzabile che l’utilizzo di queste operazioni di finanziamento sia limitato. Maggiori effetti potrebbero aversi nelle aree in cui ancora esista una buona domanda di finanziamenti, in cui i consumi e le prospettive di remunerazione degli investimenti non siano ancora compromessi.
Quanto alle operazioni di acquisto di titoli strutturati, la seguente tabella che ho ricavato dai dati AFME AFME (Association for Financial Markets in Europe) rappresenta la situazione del mercato dei questi titoli in Europa, e può esserci d’aiuto per ipotizzare gli obiettivi da raggiungere con questo nuovo tipo di interventi.







Un primo obiettivo potrebbe essere quello di fornire un nuovo strumento al processo di pulizia e deleveraging del sistema finanziario europeo.
Italia, Spagna e Olanda sono le regioni con le maggiori emissioni e, considerato anche lo stato di sofferenza del settore bancario dei tre Paesi, la presenza di un compratore con grosse capacità sul mercato agevolerebbe certamente il percorso di riduzione dei bilanci. Come abbiamo visto poco sopra, risultano ancora in essere operazioni LTRO per circa 160 miliardi di euro, la maggior parte di esse hanno scadenza gennaio e febbraio 2015. La vendita alla banca centrale di titoli ABS, CMBS e RMBS potrebbe sicuramente rendere più agevole per alcune banche il rimborso di tali prestiti.
Un secondo obiettivo potrebbe essere quello di contrastare la caduta vertiginosa del mercato dei titoli strutturati. Dai 480 miliardi di euro emessi nel 2008 si è passati ai circa 280-270 annui fino al 2011. Poi 170 emessi nel 2012 e 130 lo scorso anno. Un mercato in soffocamento. Inoltre, visto il trend in deterioramento dei rating (tab. 3.3), per aver un più importante effetto di incentivo all’emissione è ipotizzabile che gli acquisti alla fine vadano a riguardare anche emissioni con rating intermedi.
Un terzo obiettivo potrebbe esser quello di fornire un ulteriore incentivo alla erogazione di finanziamenti all’economia reale tramite le TLTROs viste in precedenza. Le singole banche potrebbero utilizzare i finanziamenti TLTRO per erogare nuovi prestiti al settore privato, impacchettarli in prodotti strutturati e rivenderli alla banca centrale. Anche in questo caso però, pur assumendo una maggiore disponibilità del settore bancario all’erogazione di prestiti, è essenziale che ci sia una più alta domanda di prestiti.
Pare quindi confermarsi il quadro delineato in precedenza:
- consolidamento del sistema finanziario dell’eurozona chiudendo il processo di deleveraging che le banche hanno in atto dal 2008. Fare una sorta di reset, pubblicizzando attraverso le banche centrali nazionali i prestiti ricevuti per assecondare il processo di reversal dei flussi finanziari intra-eurozona avvenuto tra il 2010 ed il 2012.
- espansione dell’economia reale con interventi di finanziamento mirati. La scommessa è che vi sia una sufficiente domanda (creata dall’offerta di nuovi prestiti e/o da politiche fiscali più accomodanti) nei Paesi core, Germania su tutti, in grado di mettere in moto un circolo di espansione e ribilanciamento dei differenziali di competitività.
Se il primo punto sembra abbastanza alla portata della BCE trattandosi essenzialmente di un trasferimento di risorse che le banche, soprattutto dei paesi periferici, aspettano da tempo, il secondo punto presenta numerose incognite. Esse sono legate alla capacità o meno delle espansioni quantitative di generare un effetto di qualche portata sulla domanda aggregata. L’esperienza giapponese prima e americana adesso ha posto seri dubbi, nonostante le grandi dimensioni degli interventi, su come possa la sola politica monetaria riportare l’economia al suo potenziale. Dubbi ormaiconfermati anche dallo stesso Draghi nel recente discorso a Jackson Hole.
L’incognita sulla tenuta rattoppata dell’area euro rimane, a meno di improbabili fenomeni di rigetto dal punto di vista politico nel sud Europa, l’atteggiamento tedesco.
Riportati ormai a casa tutti i soldi, l’euro potrà sopravvivere con la Germania che abbandona il tradizionale modello di sviluppo basato su surplus estero e deficit di domanda interna (facendo una politica fiscale espansiva a supporto di quella monetaria), oppure con le banche del nord Europa che fanno rifluire i capitali verso il sud Europa - allentando di conseguenza il rigore fiscale a cui sono costretti i Paesi che, non potendo recuperare competitività, non hanno più le risorse (via esportazioni o flussi di capitale) per finanziare il deficit estero.
In questi due modi l’euro potrebbe ancora sopravvivere. Fino alla prossima crisi. ;);););):):):)

Pubblicato da Quarantotto a 09:40
 
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