Il meccanismo europeo di stabilità (MES) è uno dei modi che i paesi ricchi dell’eurozona stanno perfezionando per porsi al riparo,
a danno dei più paesi più fragili, dalle perdite provocate dalle loro stesse politiche mercantiliste-ordoliberiste, sostenute e promosse dalle istituzioni della Ue.
Se leggi “fondo salva stati (FSS)“ pensi ad una colletta tra stati, utile a venire in soccorso di quei paesi che venissero a trovarsi in grave difficoltà.
Bello no? La solidarietà tra stati!
Già nella versione sottoscritta, ratificata e finanziata nel 2012 il FSS fu ridefinito meccanismo europeo di stabilità.
Anche in questo caso immagini che misure a garanzia della stabilità saranno sicuramente positive.
C’è forse qualcuno a cui piace vivere tra brutte sorprese, in un mondo imprevedibile, continuamente mutevole e instabile?
Dire più realisticamente, che
il MES sia stato architettato primariamente quale fondo salva grandi banche d’affari, non lo avrebbe reso molto popolare.
Dire che mira, seppure indirettamente, ad incoraggiare la minimizzazione della spesa pubblica degli stati
o a incentivare la svendita di quel che rimane del loro patrimonio pubblico,
o ancora, che abbia come effetto quello di dirottare gli investimenti delle famiglie,
orientandoli all’acquisto dei prodotti finanziari delle banche d’affari piuttosto che dei titoli del loro stato, avrebbe rischiato di metterlo in cattiva luce.
La denominazione di
fondo salva stati ci aveva comunque abituato a convivere con l’idea dell’eventuale default (fallimento) degli stati.
Che i paesi membri possano fallire legittima strumenti quali il MES, predisposti al loro soccorso.
Tale eventualità appare oggi realistica quale esito reso possibile da una serie di cambiamenti strutturali intervenuti negli ultimi decenni.
Premesso che l’Italia non ha mai subito un default del debito pubblico è importante partire dall’art. 47 della Costituzione
per capire le origini
virtuose del debito e del cambiamento pernicioso della sua natura, da 40 anni a questa parte.
Al primo comma è scritto:
La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito.
Gli italiani hanno avuto in passato, quando era integro e attivo il modello economico inscritto nel titolo 3 della Costituzione economica,
una grande vocazione e capacità di risparmio, riuscendo a mettere da parte un quarto, in media, del proprio reddito.
L’economia assai vivace del tempo, vicina alla piena occupazione, era affetta, in parte, da una inflazione da costi
dovuta all’aumento dei prezzi del petrolio che si verificò a metà anni ’70. L’inflazione, come si sa, erode il potere di acquisto del denaro;
per di più il denaro risparmiato, nella sua funzione di riserva di valore, non circola nell’economia.
Quando la politica decideva investimenti pubblici straordinari nell’interesse del Paese, qualora le entrate fiscali si rivelassero insufficienti allo scopo,
chiedeva al Tesoro di emettere titoli di stato con i quali raccoglieva ed impiegava utilmente per la comunità le risorse finanziarie
che quest’ultima era stata in grado di accantonare. In questo modo, nel mentre proteggeva il risparmio degli italiani,
con un tasso di interesse adeguato a coprire l’inflazione, impiegava virtuosamente le risorse risparmiate mobilitandole nella costruzione di ospedali,
strade, scuole, alloggi popolari, investendo in tutti quei settori rispondenti all’interesse pubblico, dai servizi pubblici, allo stato sociale ecc..
L’entità del “debito“ era perciò pari alla ricchezza attiva degli italiani, un indice della efficienza della politica,
della sua capacità progettuale e di costruzione dell’interesse pubblico secondo le indicazioni della Costituzione.
Il debito cambiò natura, forma e funzione a partire dagli anni 80, in almeno tre passi.
Nell’81, il divorzio tra banca d’Italia e Tesoro, togliendo al governo la possibilità di decidere il tasso di interesse
con cui remunerare i titoli di stato sulla base dell’inflazione corrente, rinunciò alla capacità di manovra di questa essenziale leva della macroeconomia
lasciando che fosse il mercato a “regolare“ il tasso di interesse. Alla nostra banca centrale fu impedito di emettere la moneta necessaria
a comprare i titoli rimasti invenduti alle aste pubbliche cui partecipavano molte banche pubbliche italiane (oggi privatizzate).
In conseguenza al divorzio, i tassi, lasciati al mercato, lievitarono e il rapporto debito/pil raddoppiò nello spazio di un decennio,
cosa che indusse molti a dirottare i propri investimenti dall’economia reale a quella finanziaria poiché quest’ultima
prometteva rendimenti più alti rispetto a quelli realizzabili in molti settori produttivi.
Le cose si complicarono ulteriormente quando si permise, nel corso degli anni 80, a investitori esteri di comprare titoli del debito italiano.
Sino ad allora il debito era stato interno (come indebitarsi in famiglia, una partita di giro), ma esternalizzandolo
si aprì una falla emorragica in grado di estrarre in modo continuativo ricchezza dal Paese.
A completare l’opera è stata la rinuncia alla moneta nazionale.
Il debito è stato nominato in una moneta, per noi straniera, ossia l’euro del quale non abbiamo alcun controllo.
Oggi, per finanziare la spesa pubblica siamo costretti ad indebitarci rivolgendoci ai mercati finanziari
che non possono che offrirci il loro veleno quotidiano fatto di moneta privata a debito.
Non abbiamo più una banca centrale che faccia il suo mestiere quale prestatrice di ultima istanza
(se l’avessimo potrebbe riacquistare lei i titoli da assicuratori e banche sottraendoli alla quotazione del mercato ed eliminando così il pericolo dello spread).
Il debito, da strumento virtuoso per la crescita del bene comune, si è così trasformato in arma di ricatto esercitato da poteri sovranazionali
che riescono a tenerci in pugno anche perché abbiamo perso memoria degli strumenti che ancora avremmo a disposizione
ma che non siamo più in grado di valorizzare come la moneta di stato, emessa dal Tesoro, sperimentata da Aldo Moro:
statonote, ossia moneta non a debito, come dice Nino Galloni, dello stesso segno algebrico delle tasse,
con la quale potremmo soddisfare il fabbisogno necessario a mettere in cantiere i grandi progetti rimandati per scarsità di risorse finanziarie;
anche la moneta fiscale, nella forma di certificati di credito fiscale potrebbe ovviare alla rarefazione monetaria che si verifica oggi nella economia reale.
Ancora più semplicemente basterebbe facilitare l’acquisto dei titoli di stato agli stessi italiani,
come si intendeva fare con la messa a punto dei CIR (conti individuali di risparmio),
analoghi ai bot, titoli a breve e media scadenza, assicuranti un rendimento positivo, capaci di valorizzare
quella immensa ricchezza che gli italiani ancora detengono, ammontante, secondo la Banca d’Italia, a 4300 miliardi di euro, di cui 1400 liberi nei conti correnti.
Tale ricchezza sarebbe così, utilmente impiegabile in investimenti e spesa pubblica per lo sviluppo economico e sociale,
piuttosto che lasciata in balia delle grandi banche d’affari che tendono a trovargli una destinazione indirizzandone l’impiego
verso quei prodotti finanziari che pretendono di far soldi con i soldi saltando a piè pari l’economia reale.
Oggi, l’accordo sul MES appare legittimato dal rischio sistemico di fallimento provocato da uno o più dei paesi membri
e dalla necessità di imporre discipline e politiche di bilancio e di intervento in caso di default.
Il MES è interpretabile come il risultato del fallimento delle politiche di austerity, restrittive,
che hanno ulteriormente aggravato la dinamica di crescita del debito –
portando ad ulteriore incremento il rapporto debito/pil –
proponendo come soluzione l’incremento delle dosi della medicina ordoliberista, causa del male ossia più disciplina, più austerity,
senza alcuna attenzione al
contributo della crescita del pil alla riduzione del debito .
L’altra fonte di squilibrio delle politiche economiche europee sta nell’adozione di politiche di chiaro stampo mercantilista
che hanno portato ad insostenibili squilibri delle partite correnti. Il grande surplus, europeo cui contribuisce soprattutto la Germania
porta ad un aumento complessivo del surplus dei paesi della zona euro causando la crescita della dipendenza
dalla domanda estera evidente nella diminuzione delle esportazioni dell’area euro causata dal recente crollo degli scambi internazionali.
Peraltro i saldi che i paesi in surplus, in area euro, hanno accumulato, registrati dal
sistema dei pagamenti europeo, Target 2,
ammontano a circa mille miliardi di euro, di cui 800 tedeschi. I conseguenti spostamenti criminali di capitali,
dai paesi in surplus a quelli in deficit,hanno avuto un effetto deleterio. Esemplare il caso della Grecia, ridotta in povertà,
costretta a ridurre a zero lo stato sociale, svendere i patrimoni pubblici, gli asset, il demanio, i fattori stessi della produzione ecc..
Alla Grecia si chiese, infatti, improvvisamente di risarcire il debito contratto, mentre le si negava ogni ulteriore finanziamento del disavanzo.
I surplus hanno permesso ai paesi detentori di finanziare i deficit dei paesi della periferia dell’eurozona mascherando così
una bilancia commerciale completamente squilibrata a favore dei paesi in attivo e a sfavore dei paesi della periferia.
In passato, i grandi surplus commerciali realizzati dai paesi più forti dell’eurozona, in un sistema di monete nazionali regolate da cambi flessibili,
sarebbero stati impossibili da realizzare. Oggi va finalmente riconosciuto il rischio, insito negli spostamenti dei capitali accumulati nei grandi surplus europei,
verso i paesi poveri dell’eurozona nel tentativo interessato di coprire debito con nuovo debito senza per questo renderlo pagabile.
Non è a caso che l’indebitamento delle banche greche con quelle tedesche, francesi e in misura minore anche italiane
fu tamponato dall’intervento del MES, che per concedere ulteriori prestiti alla Grecia, senza intervenire sulle cause generanti la crisi,
combattendone unicamente i sintomi, ha potuto dare continuità alla
criminale scelta mercantilista
salvando i bilanci delle banche tedesche, francesi e olandesi con le risorse del MES.