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Accidenti che botta. Con dazio al 30%più la Svalutazione del dollaro del 10 attuale, significherebbe un bel 40%

E anche con Messico e Brasile va di male in peggio
 
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Ma va bene così.
Meno esportazione negli stati uniti, maggiori disponibilità sul nostro mercato.
Due alternative:
abbassi i prezzi nazionali per vendere ........

chiudono le aziende.

Abbiamo proprio dei "cervelli" che ci stanno imponendo la crisi.
Specialmente il "cervello" francese.


Dopo settimane in cui i vertici dell'Ue ostentavano sicurezza sulle trattative in corso con gli Stati Uniti,
ieri è arrivato un duro colpo per le speranze di Bruxelles di chiudere in tempi brevi la partita con un accordo non troppo svantaggioso.

Eppure, il superamento della scadenza del 9 luglio annunciata da Trump,
avrebbe dovuto rappresentare un campanello d'allarme da non sottovalutare
ma, dopo la lettera inviata dagli Stati Uniti a Brasile e Canada tre giorni fa,
Bruxelles pensava che il mancato annuncio di nuovi dazi significasse un accordo quasi raggiunto.

È probabile che non abbia aiutato a chiudere l'accordo la posizione della Francia
meno esposte alle esportazioni verso gli Stati Uniti rispetto all'Italia e alla Germania.

Non a caso il presidente francese Emmanuel Macron, commentando la trattativa, a fine giugno
aveva affermato che "la miglior situazione sui dazi possibile tra Stati Uniti ed Europa è dazi zero"
aggiungendo "se dovrà essere al 10%, così sarà" ma "se alla fine gli Stati Uniti decidessero di mantenere un dazio del 10%
contro la nostra economia, sarà inevitabile una misura di compensazione sui prodotti americani venduti nel mercato europeo".
 
Bisogna immedesimarsi anche nell'avversario.

I 4 anni di bidet hanno ridotto gli usa alla canna del gas.

Il presidente americano ha comunicato che imporrà dazi al 30% sulle importazioni europee dal prossimo 1 agosto,
per cercare di colmare una relazione commerciale "lontana dall'essere reciproca".
 
"Se per qualsiasi motivi decideste di rispondere aumentando le vostre tariffe,
il numero da voi scelto si andrà ad aggiungere al 30% da noi richiesto", si legge ancora.

Il nuovo dazio rappresenta un netto inasprimento rispetto all’aliquota del 20% annunciata da Trump ad aprile,
e arriva mentre i negoziati tra Washington e Bruxelles restano in stallo.

"Abbiamo avuto anni per discutere delle nostre relazioni commerciali con l'Unione europea
e abbiamo concluso che dobbiamo abbandonare questi deficit commerciali a lungo termine,
ampi e persistenti, generati dalle Sue politiche tariffarie e non tariffarie e dalle Sue barriere commerciali.
Le nostre relazioni sono state, purtroppo, tutt'altro che reciproche".
 
Certo, Trump, in tal modo asseconda la vis bellica della Ue,
che spinge per preservare il conflitto fino all’ultimo ucraino
perché la sua miserevole leadership vede in tale crisi anche, e ora forse soprattutto,
un’occasione per tentare il rilancio dell’industria del Vecchio Continente,
non più basato sulle fumisterie green, ormai sconfitte dalla realtà,
ma sullo sviluppo di un più disastroso apparato militare industriale autoctono generato dal Rearm Europe,
che nelle intenzioni dovrebbe far da volano alla ripresa economica.

Una scommessa che, a parte i rischi connessi
– che per vendere armi sono necessarie le guerre (si vis pacem para bellum è una sciocchezza spacciata per antica saggezza) –
condanna i popoli europei a nuove restrizioni, com’è evidente nell’esempio americano che si vuol replicare,
dove l’apparato militare industriale non dispensa ricchezza ai tanti,
ma le vampirizza togliendo risorse necessarie al benessere comune.

Al solito, a guidare tale processo è la Germania
che, non paga del fatto che il sostegno alla guerra ucraina abbia incenerito il suo apparato industriale,
punta sulla sua continuazione per ripristinarlo in modalità monstre.

Qualche psichiatra dovrebbe fare una seria indagine sulla vena masochista
che sottende la leadership teutonica,
che peraltro la induce a perdere tutte le guerre,
guerreggiate o commerciali che siano, che intraprende.
 
Una trentina di anni fa Umberto Eco ha sviluppato in un breve saggio il concetto dell’eternità del fascismo,
fenomeno culturale e antropologico che va ben al di là della mera durata della dittatura mussoliniana.

Ma si sbagliava.
Perché la vera cifra dell’Italia del Novecento, per quanto possa apparire grottesco,
quella che permea in maniera profondissima la nostra visione del mondo,
non è tanto il fascismo - nato nel 1922 e morto per sempre nel 1945 - ma il sessantottismo.

E’ quella la bestia grama che non scompare mai,
affonda le sue radici profondissime nel nostro inconscio
e appena si presenta l’occasione riemerge in superficie,
confermando la consolidata teoria marxiana
secondo la quale i fenomeni storici si ripetono sempre due volte:

la prima come tragedia, la seconda come farsa.


Questo spassoso fenomeno di costume è tornato di attualità nei giorni scorsi
durante le prove orali degli esami di maturità quando tre studenti veneti
hanno rifiutato di rispondere alle domande dei professori
ostentando la loro scelta rivoluzionaria di fare scena muta.

Indimenticabili le motivazioni a supporto di una decisione così dirimente:

questa scuola non ci piace,
manca l’empatia con gli insegnanti,
c’è troppa competizione,
un modello iper selettivo e meritocratico che risulta psicologicamente devastante per i giovani di oggi.

Insomma, alla scuola interessano solo i voti, non i ragazzi come persone con tutte le loro fragilità.

Le stesse identiche fregnacce che dicevano i loro avi mezzo secolo fa.
 
Ora, le considerazioni che si possono fare in attesa del dilagare del fenomeno emulativo così tipico di quella età

- nell’Ottocento i giovani si suicidavano per amore imitando il Werther,
oggi chiedono su Instagram che la scuola diventi una seconda Asl -

si possono fare alcune considerazioni.

In un paese serio

- visto che i dati Invalsi testimoniano che in vaste aree d’Italia
la metà dei candidati non è in grado di leggere, scrivere e far di conto
e nonostante questo l’esame di Stato viene superato dal 99% di loro -


i ragazzi di cui sopra
sarebbero stati presi a pedate nel sedere
e rispediti a casa
con la certificazione di dover rifare la maturità l’anno dopo
e una volta a casa i genitori gli avrebbero dato il resto.
 
Ma questo in un paese serio, mica nella nostra repubblica delle banane,

nella quale infatti ai meglio tromboni del giornalismo sinistroide
non è sembrato vero concionare su quanto è dura la vita dello studente al giorno d’oggi,
signora mia, e quanto ignobile questo sistema oppressivo che avvilisce i talenti e non rispetta le sensibilità.


Ma la cosa più spassosa non è neppure questa.

La cosa che fa ammazzare dalle risate è l’accusa
- molto tenace, molto seriosa: gli studenti ne sono veramente convinti -

che nella scuola italiana viga un modello insopportabilmente competitivo.

In Italia.

Nella scuola italiana.

Davvero.

Lo hanno detto davvero.

In Italia, nella scuola italiana, c’è competizione, che in confronto la Thatcher era una mammoletta.

E uno legge.

Poi rilegge.

Poi rilegge per una terza volta.

E poi inizia a ridere.

E ride e ride e ride.
 

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