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New York è la metropoli dove scoppiano le contraddizioni tra ricchi e poveri,
tra finanza e miseria e l’entusiasmo dei giovani è scarsamente valutabile come indice.

New York è il paradigma dei fallimenti democratici,
col suo bagaglio culturale dove la globalizzazione è vincente,
dove il melting pot è l’esempio e dove tutto trova alla fine un suo equilibrio.

Non è così, ma solo in quello spazio di follia può apparirlo.

Per il resto l’America viaggia su altre strade.


Mamdani è l’ultimo illusionista nelle disponibilità di chi quelle disparità le ha create e alimentate:
ora ci racconta di case popolare e tassazioni punitive,
ci rivedremo tra qualche mese per cominciare a tracciare il primo bilancio.


L’America non è New York ma New York, dicevamo, è lo specchio di queste profonde ingiustizie sociali,
di gente sputata ai margini perché disoccupata, indebitata e senza previdenza.

È il porto della disperazione e della speranza, di migranti che qui cercano di essere invisibili:
ma la somma degli invisibili pesa, eccome se pesa.


Mamdani fallirà ma prima avrà prodotto una serie di scopiazzatori seriali.
 
Mamdani ha vinto perché a New York i candidati dei Democratici partono avvantaggiati
e l’outsider radical è riuscito a imporsi; ma questa ricetta rischia di essere solo di pericolosa confusione.

In America come in Europa assistiamo a smottamenti sociali legati allo strapotere della digitalizzazione in ogni sua forma
e allo strapotere dei pochi player che ne dispongono i codici.

Se già con la transizione dall’economia reale all’economia finanziaria in mano a poche grandi banche d’affari
e alle poche grandi società di revisione, ora ci ritroviamo con pochi operatori che cannibalizzeranno tutto,
aumentando la platea dei disperati.

In America la questione immobiliare è già scoppiata una volta e abbiamo visto cosa ha portato.

In Europa non siamo lontani da simili emergenze.


Se infine ci aggiungiamo che alla delusione per il mancato raggiungimento dei sogni promessi
si potrebbe saldare il miraggio di una vendetta promesso in nome della fede
(ed è su questo che il fanatismo islamico ha costruito le sue più folli predicazioni),
ecco che la bomba è fatta.
 
Parole sante quelle scritte dal giornalista.

Ecco la prima poveretta che si esalta. ....ma vai alla conad.

“Splendida vittoria di Zohran Mamdani a New York!
Con un messaggio chiaro contro il caro vita: per una città che tutte e tutti si possano permettere.
Ha vinto con una campagna collettiva di centomila volontari contro i milionari che finanziavano i suoi avversari
e una pesante campagna denigratoria guidata dallo stesso Trump.

La sinistra torna a vincere con parole e programmi chiari su stipendi dignitosi, sanità davvero universale,
sul diritto alla casa, sui trasporti e i nidi gratis per chi non ce la fa.

Da tutta la comunità del Partito Democratico congratulazioni al nuovo sindaco di New York!

La politica della speranza vince sulla politica della paura che individua solo nemici e capri espiatori.

Un bel risveglio negli Usa!”
 
Altro giornalista, altro pensiero.
Sarà mica quello giusto ? ...........

Si è votato negli USA e come spesso accade nel circo mediatico d’oltreoceano,
chi cercava la “svolta” epocale o la “rivoluzione” si ritrova con in mano poco più che un pugno di mosche,
o, per essere più precisi, un pugno di conferme.

Le elezioni di martedì 4 novembre 2025 in New York, New Jersey e Virginia
non hanno segnato nessuna “rivincita” democratica,

nessun “terremoto” politico e, francamente, hanno generato più noia che altro.
 
Ultima modifica:
Hanno semplicemente confermato quello che un’analisi tecnica, e non emotiva,
dei flussi elettorali già sapeva: gli stati strutturalmente blu restano blu,
la debolezza repubblicana in certe aree urbane è cronica
,
e le dinastie politiche, anche le più potenti, prima o poi implodono.

L’errore, come sempre, è scambiare una faida interna al Partito Democratico
—per quanto rumorosa—con un referendum nazionale.


La vera notizia non è la vittoria dei Democratici
in stati che già controllavano saldamente, ma la fine,
probabilmente definitiva,
di un’era di potere a New York: quella della famiglia Cuomo.
 
Partiamo dalla “non-notizia”.

In Virginia, la democratica Abigail Spanberger ha conquistato la poltrona di governatore.

Nel New Jersey, la sua collega di partito Mikie Sherrill ha fatto lo stesso.

Sorpresi? Non dovreste.

Vedere questi risultati come una “rivalsa”
o un segnale di rinnovata forza Democratica
in vista delle prossime scadenze nazionali
è, per usare un eufemismo, “molto parziale”.


Questi stati non erano in bilico;
erano già saldamente in mano democratica da tempo.
 
L’analisi tecnica della Virginia è esemplare: la Virginia non è più uno swing state da anni.

È uno stato la cui economia, specialmente nel nord (NoVA – Northern Virginia),
è intrinsecamente legata alla spesa pubblica federale.

È il regno dei contractor della difesa, dei lobbisti, dei dipendenti del Pentagono
e dell’immenso apparato burocratico di Washington D.C.

Questa non è un’opinione, è geografia politica-economica.

Questo elettorato, ricco e suburbano, non voterà mai in massa per un partito (il GOP)
che—almeno a parole—promette di “tagliare il governo” o ridurre la spesa federale.

Facendolo, voterebbe contro il proprio portafoglio.

La Spanberger non ha vinto per la sua piattaforma;
ha vinto perché la struttura economica della Virginia moderna è, di fatto, dipendente dallo Stato centrale.

Non c’è più una vera economia privata, ma una economia sovvenzionata dalla spesa federale.


Tra l’altro questo momento di shutdown ha radicalizzato ancora di più i dipendenti federali.
 

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