Angoscia, rabbia e paura: i racconti di testimoni e familiari
La telefonata di un bambino durante l'irruzione del commando
La voci della scuola di Beslan
"Papà aiuto, ci stanno sparando"
dal nostro inviato GIAMPAOLO VISETTI
L'angoscia dei familiari
degli ostaggi
BESLAN (Ossezia del Nord) - Non cercano pietà. Anzi, vorrebbero essere invisibili. Ma le loro storie sono quelle della scuola dei bambini prigionieri. Non si può tacerle. Marcano un prima e un dopo, a Beslan. Prima dei terroristi che hanno preso gli scolari come scudi umani, e dopo quel che sarà. Madri, papà, nonni e ragazzi che non saranno più li stessi. Come la Russia, e come tutti quando un limite di sicurezza umana viene abbattuto.
"Volevano uccidermi" - Zaur Rubaev ha 17 anni e frequenta l'ultimo anno delle superiori. È rimasto ferito durante i primi scontri nella scuola assaltata dai terroristi. "Non ero ancora nel cortile - racconta - quando ho sentito gli spari e le bombe. Ho capito che stava succedendo qualcosa e sono scappato. Poi mi è squillato il telefonino. Era la mamma che chiedeva dove fosse mio fratello minore Khasan. Le ho detto di stare lontana dalla scuola, che presto entrambi saremmo arrivati. Una bugia, Khasan era là dentro. Sono corso per portarlo fuori, ma davanti al portone un guerrigliero mi ha sparato. La gamba ha ceduto e sono caduto nel cortile. Per alcuni minuti hanno cercato di colpirmi a morte dall'interno dell'edificio: poi un soldato mi ha preso e mi sono risvegliato all'ospedale. Ora spero di salvare il mio ginocchio".
"Sono riuscito a fuggire" - Il tredicenne Alan Khostov è riuscito a scappare da una finestra non controllata dai terroristi. "Il commando - spiega - è entrato dall'ingresso principale, quello delle elementari. Ho visto alcuni uomini con le tute mimetiche e folte barbe nere. Gridavano e sparavano con i mitra, alcuni lanciavano bombe a mano nei corridoi. Noi delle classi più avanzate siamo fuggiti verso la seconda uscita della scuola. Qualcuno ce l'ha fatta, altri hanno dovuto fermarsi per evitare di essere colpiti. Io sono salito al primo piano sul retro, dove le finestre danno sul giardino. Prima ho pensato di nascondermi. Quando ho sentito i terroristi salire e sparare con i kalashnikov nelle aule, mi sono buttato dalla finestra. Una voce mi ha intimato di fermarmi, ma mi sono messo a correre e non ho pensato più a niente".
"Hanno ucciso mio marito" - Nadia Gadijev, 34 anni, singhiozza da sola sotto gli alberi davanti alla scuola. Un cugino l'ha avvisata che suo marito Aslan è tra le vittime. "Là dentro abbiamo le nostre due figlie - grida - che non c'entrano nulla con i ceceni. Aslan le aveva appena lasciate per andare al lavoro. Ha sentito gli scoppi e ha visto i terroristi correre nei corridoi. È tornato per portare via le bambine. Prima mi ha telefonato per dirmi che andava tutto bene, che non dovevo avere paura. Lo hanno visto correre verso la palestra, e gridava ai guerriglieri di prendere gli adulti e lasciare i bambini. Era disarmato, era il papà più dolce del mondo, un uomo buono. Voleva salvare le nostre figlie: le avevamo attese per anni. Me lo hanno ucciso con un colpo di bazooka. Non so se le bambine lo sanno, se l'hanno visto: e non so nemmeno se rivedrò mai loro".
"Li strozzerei con le mie mani" - Alexander Karbullaev da ventiquattro ore non si muove dalla strada davanti alla scuola. Non ha nessuno là dentro. "Ma voglio esserci - sibila - quando potremo mettere le mani addosso a quelle bestie". Ha 76 anni, è invalido ma, dice, "andrei a strozzare i terroristi a mani nude. Però anche le nostre autorità sono colpevoli: non ci hanno difeso, i loro figli sono protetti, i nostri rischiano di essere uccisi. Sono anni che i ceceni rapiscono la gente, che viviamo nella paura. Abito a Alkhan-Ciurt, a 8 chilometri dalla frontiera con l'Inguscezia: dieci persone sono scomparse e nessuno si è mosso. Questi hanno potuto arrivare in una scuola armati fino ai denti e sequestrando un camion della polizia. Spero che mi lascino un terrorista e che la popolazione si ribelli ad autorità che pensano solo ai soldi".
"Ci hanno fatto diventare nemici" - Irina Magamadov, 64 anni, aspetta su uno sgabello pieghevole la figlia e il nipotino Alexander di un anno e 10 mesi. Piove a dirotto, alle tre del mattino, ma lei non smette di pregare e rifiuta di andare al coperto del teatro. "Ci hanno fatto diventare nemici - si lamenta - per amore dei dollari del petrolio. Ma perché non prendono me, sono pronta. Chiedete a Putin perché ceceni, ossezi e ingusci si ammazzano, perché Mosca non se ne va dalla Cecenia. Se davvero vogliono salvare gli ostaggi, si ritirino. Altrimenti sono parole e nessuno ci crede. L'Ossezia è diventato un territorio cuscinetto, sono passati 14 anni dai primi scontri e non ne possiamo più. Le autorità ci hanno venduto: ma le loro famiglie sono in vacanza all'estero, mentre a pagare è sempre la povera gente".
"Ho parlato con mio figlio, piangeva" - Rosa Zalieva, 31 anni, passeggia in ciabatte e vestaglia davanti al teatro allestito per i parenti dei sequestrati. Tiene stretto il telefonino in mano, a ogni passo guarda lo schermo. "Mio figlio Albert - racconta - mi ha telefonato dieci minuti dopo l'irruzione. Mi ha detto che la scuola era piena di terroristi, che sparavano agli adulti e minacciavano di uccidere le donne. La sua classe era stata imbottita di esplosivo. Piangeva, continuava a ripetere di essersi dimenticato la giacca nuova nel cortile. Mi ha chiesto perfino di non sgridarlo, quando tornerà a casa. Io ho cercato solo di dirgli quanto papà e io gli vogliamo bene. Quando mi stava per dire dove lo avevano portato, la linea è caduta. Non l'ho più ripresa".
"Non bisogna perdere la speranza" - Alan, 57 anni, è il pope del quartiere. Da due giorni cammina tra la folla in lacrime per non far spegnere la speranza. "Devono credere - dice - che non tutto è perduto. Il problema più grande è evitare un crollo psicologico collettivo. I terroristi hanno detto che non faranno del male ai bambini, che se non saranno attaccati non ammazzeranno nessuno. Ho parlato con centinaia di madri e di padri, di nonni e di fratelli, di figli dei professori sequestrati. Vivono questi fatti come un'ingiustizia, come il segno dell'inesistenza di Dio. Io invece dico che Dio è il nostro maggiore alleato, che veglia per non lasciar morire la fiducia, la fede nella grandezza dell'uomo. Certo che poi è difficile guardare negli occhi quella mamma che ha perso il marito e la figlia: avevano ancora in mano il suo mazzo di fiori per la maestra".