A proposito di Fugnoli, senza mezzi termini mi sembra il miglior commentatore italiano

Esclusi i cowboys-guru di questo thread ovviamente

Già un anno fa, Fugnoli parlava di arma nucleare della FED, il "quantitative easing", come soluzione finale, e infatti è accaduto...
Questo è l'ultima newletter, chiara e lucida, impeccabile,
da leggere tutta 
Fugnoli, sì, che è un vero cowboy

02/12/2008
E' iniziata la guerra contro la deflazione
di Alessandro Fugnoli
MILANO - Mentre l’Europa schiera contro la deflazione 27 poderosi eserciti dotati dei più moderni fucili a baionetta, l’America ha iniziato l’uso di armi nucleari tattiche. Da due mesi la Fed forza riserve in eccesso nel sistema bancario (salite a 300 miliardi) e cerca di predeterminarne l’uso creando veicoli ad hoc.
I veicoli (per la carta commerciale, per il mercato monetario, per i finanziamenti al consumo) sono capitalizzati dal Tesoro ma la Fed ne decuplica la potenza finanziandoli generosamente.
La Fed diventa sempre più grossa e aggressiva, crea con il Tesoro strutture complesse ad alto leverage e sta iniziando a stampare moneta. La nascente amministrazione Obama, nel frattempo, annuncia pacchetti fiscali 2009-2010 vicini probabilmente al 5 per cento complessivo del Pil.
Per quanto tempo può coesistere, ci si può chiedere, una linea d’azione sempre più reflazionistica con il dollaro forte e con la corsa ai titoli di stato americani? Si noti che c’è domanda insaziabile non solo di carta governativa breve (nonostante il rendimento vicinissimo a zero) ma anche di trentennali, lo strumento più aborrito da chi teme l’inflazione.
Insomma c’è deflazione o siamo alla vigilia di un’esplosione inflazionistica?
Per rispondere bisogna avere ben chiara la distinzione tra lo scenario di base da una parte e le misure di policy dall’altra. Lo scenario di base è quello che in medicina si chiama la storia naturale di una malattia, quello che succede se non la si cura. Le misure di policy sono tutto quello che fanno i dottori per curare la malattia. A volte si può essere bravi a disegnare in anticipo uno scenario base corretto ma non altrettanto bravi a prevedere le reazioni di policy.
Lo scenario di base, al momento, è al cento per cento deflazionistico. Deflazione degli asset finanziari, delle materie prime, delle case e contrazione dei consumi e degli investimenti. Per di più non si tratta di un ritracciamento ciclico, di una temporanea avversione al rischio che accompagna normalmente una recessione ordinaria. Al contrario, si tratta di un lavoro di pulizia radicale di quelli che si vedono una o due volte in un secolo.
In pratica, quindi, lo scenario di base non solo dice deflazione, ma deflazione lunga e globale. Il Giappone degli anni Novanta poteva contare su un mondo in forte espansione. Il mondo di oggi, a parte una Cina che deve badare a sé stessa, non può appoggiarsi a un boom di consumi e investimenti su Giove e Saturno e deve tirarsi su da solo per i capelli.
La pesantezza di questo quadro e il suo carattere strutturale devono essere ben chiari. L’economia globale del pianeta tende in questo momento alla desertificazione, sulle orme di quella marziana.
Gli appassionati di astroingegneria conoscono il terraforming. E’ la trasformazione di un pianeta inospitale e deserto come Marte in un mondo verde e azzurro come il nostro. Per alcuni bastano le alghe, ma per altri questo richiederebbe l’uso massiccio e prolungato di bombe atomiche, dopo le quali bisognerebbe comunque attendere alcune centinaia di anni.
Il terraforming della Fed prevede l’impiego di armi nucleari (al momento tattiche) ma questo non significa che l’economia globale sarà nuovamente abitabile nel giro di pochi mesi.
Al momento l’obiettivo realistico è il contenimento della crisi, il farla assomigliare il più possibile a una recessione sia pure pesante evitando la depressione e la deflazione conclamata.
Anche nell’ipotesi migliore, dunque, passerà molto tempo prima che ci si debba preoccupare sul serio dell’inflazione. Mettere soldi forzatamente dentro le banche è una cosa. Indurre le banche a prestare questi soldi è un’altra. Trovare qualcuno che questi soldi voglia farseli prestare è un’altra ancora. Indurre chi li prende in prestito a non usarli per ripagare altri debiti che ha in giro ma per spenderli è un passo ulteriore.
Chi investe deve quindi partire da uno scenario di deflazione che avrà discrete possibilità di essere contenuto in proporzioni non devastanti, non da quello di una crisi in via di superamento che durerà altri sei mesi con lo sconto di tre dal momento che i mercati anticipano mediamente di un trimestre il punto di svolta del ciclo.
Non bisogna quindi lasciarsi trascinare troppo dal sollievo per il rally azionario di Thanksgiving o da quello di fine anno che si ricaverà fra poco un certo suo spazio. Né bisogna considerare arrivati o addirittura pericolosi, nel breve, i titoli governativi a tasso fisso. Per questi ultimi, il precedente giapponese indica per i JGB un rialzo continuo dei corsi per parecchi anni seguito non da una dolorosa inversione di tendenza, ma da una stabilizzazione che dura tuttora.
In questo c’è tutta la differenza con la crisi degli anni Settanta (e in particolare della sua ultima fase del 1981-82) che viene spesso evocata come termine di paragone per quella in corso. Allora i bond non fecero che scendere. Il mondo non era globalizzato, era rigido e non aveva ampie risorse inutilizzate. Volcker entrò nella leggenda premendo il freno con estrema brutalità. Da gennaio, come consulente speciale di Obama, dovrà invece suggerire di premere l’acceleratore con altrettanta brutalità. Il mondo è oggi flessibile, globalizzato e pieno di risorse inutilizzate.
A ben guardare, l’inflazione come exit strategy dalla crisi è forse un rischio (sia pure lontano almeno tre anni) ma non è assolutamente una certezza. Si parla sempre dei grandi successi del New Deal tra il 1933 e il 1936 ma si parla molto meno di quello che accadde quattro anni dopo il suo avvio, nel 1937. Non un’esplosione inflazionistica, ma una ricaduta pesantissima dell’economia e della borsa, dovuta al fatto che il piede monetario e fiscale era stato staccato troppo presto e troppo velocemente dall’acceleratore.
Il momento più difficile, per i policy maker, non è questo. Ora si tratta di essere brutali e di superare le remore ideologiche che hanno frenato l’amministrazione Bush. Il momento difficile sarà nel 2011-2012, quando l’economia globale starà decisamente meglio e bisognerà decidere se e quanto alzare i tassi, se e quanto aumentare l’imposizione fiscale, se e quanto rimettere sul mercato gli asset tossici che le banche centrali si stanno mettendo in portafoglio. Farlo troppo tardi significherà ripetere l’errore per cui Greenspan è stato messo in croce negli ultimi due anni. Farlo troppo presto vorrà dire rischiare di ripetere l’errore del 1937.
Un corollario avvincente di queste questioni è il rapporto tra dollaro ed euro. Distinguiamo tre fasi. Nella prima, da luglio a fine ottobre, c’è stata la presa d’atto delle difficoltà europee (in particolare la caduta delle esportazioni) unita al generale processo di riduzione della leva che ha provocato il massiccio recupero del dollaro. Da un mese siamo entrati in un trading range che rappresenta un buon livello di equilibrio di lungo termine. Non vediamo al momento grandi motivi perché ci si allontani molto da questo livello, ma periodicamente, nei prossimi mesi, il mercato sarà tentato dall’ipotesi dell’exit strategy inflazionistica, dall’idea che l’America inonderà il mondo di dollari che andranno quindi venduti.
La nostra idea è che il dollaro tornerà a indebolirsi (senza tornare sui minimi di luglio), ma in ragione della ripresa globale (e della ripresa delle operazioni di carry ad essa legate) e non perché l’Europa avrà nel frattempo perseguito una politica monetaria e fiscale più virtuosa.
L’Europa è lenta, impacciata, appesantita dalle diffidenze reciproche e intellettualmente timida, ma alla fine le cose la fa. Se l’America rompe il ghiaccio e allarga l’uso delle armi monetarie non convenzionali dopo qualche tempo l’Europa la seguirà. Dopo tutto il pacchetto fiscale europeo, che una settimana fa era stato annunciato per un ammontare dell’uno per cento del Pil, in sette giorni è già passatro all’1.5. Avanti così.
http://www.uominiebusiness.it/articolo.asp?id=281