ALMA, co-fondatrice di Buklod ng Kababaihan
Alma | Lunanuvola's Blog
(“Call on US Military to Tackle Human Trafficking”, di Alma per Equality Now –
Equality Now | End violence and discrimination against women and girls – aprile 2013, trad. Maria G. Di Rienzo.)
Cammino lungo le strade della città di Olongapo, dove donne seminude stanno in posa davanti ai locali per l’intrattenimento e fanno segno ai passanti di entrare per “divertirsi”. Entro in uno di questi bar “videoke” e mi trovo in una specie di tana scarsamente illuminata dove uomini d’affari stranieri e uomini del posto guardano inebriati donne che piroettano su un palco.
Al bar, un occidentale compra un’altra bevanda per una giovane filippina di cui non capisce la lingua. Se l’uomo vuole comprarla per fare sesso, pagherà al proprietario una tassa chiamata “multa del bar”. Guardando la ragazza, mi chiedo come è finita qui. Mi chiedo se porterà il suo cliente in una stanza sul retro del locale o a casa sua, con il rischio di svegliare i bambini che può avere. Mi chiedo se è mai stata stuprata dai suoi clienti. O se è mai stata in contatto con una “hilot” (comare) che mette fine alle gravidanze non desiderate battendo violentemente il ventre di una donna sino a che costei abortisce.
Quando il cliente si allontana per andare in bagno, mi avvicino alla ragazza che sembra sorpresa e un po’ scocciata dal fatto che mi sono intrufolata nel suo spazio personale. Facendo finta di non notarlo, le dico che lavoro per un’organizzazione chiamata Buklod. “Raduniamo le donne affinché discutano delle proprie vite e scambino idee.”, le dico, “Potresti venire al nostro prossimo incontro.” Lei mi guarda inquisitiva e domanda: “Cosa ne sai, tu, della mia vita?”
Nel 1984 Olongapo era una base militare statunitense in via di sviluppo ed il mio nome non era Alma, ma “Pearly” (perlacea, ndt.). Ero la madre single di due bambini piccoli e tentavo di mantenere la mia famiglia facendo la cameriera sette giorni su sette. I club avevano sempre lavoro quando arrivavano le navi dei soldati.
Da bambina sognavo di fare la commercialista. Quando mio fratello mi promise di pagarmi gli studi, lasciai Manila e venni ad Olongapo dove lui viveva. Non appena arrivai, mio fratello ammise che non aveva nessuna intenzione di aiutarmi a studiare. Invece, sperava che avrei “preso al volo la fortuna” e sposato un militare americano, così avrei potuto mantenere la nostra famiglia. Dopo alcuni mesi, frustrata per la mancanza di opportunità di lavoro, accettai di fare la cameriera in un locale vicino alla base navale statunitense. Mio fratello tentò di forzarmi ad andare con i soldati quando costoro richiedevano la mia compagnia, ma io rifiutavo.
Un giorno, un militare offrì la “multa del bar” al proprietario per me. Io rifiutai anche questa volta, dicendo che ero solo una cameriera. Il proprietario mi rispose che se non andavo con il soldato avrei perso il lavoro e non solo: lui si sarebbe tenuto i miei documenti impedendomi di trovare un’occupazione altrove. Ero terrorizzata all’idea di finire per strada assieme ai miei figli senza niente da mangiare, per cui anche se ero riluttante dissi di sì. L’americano voleva andare in un albergo, ma io gli dissi di dare a me i soldi che avrebbe voluto spendere per la stanza e lo portai a casa mia. Mandai i bambini dai miei genitori, perché non volevo vedessero cosa la loro madre stava facendo per guadagnarsi da vivere.
Tentai di evitare di rifarlo, ma mia figlia si ammalò e avevo bisogno dei soldi per le spese mediche. Durante i miei quattro anni al club ho avuto circa 30 “fidanzati” americani. Nei primi anni ’80 non c’erano programmi per la salute e non sapevamo neppure come si usasse un contraccettivo. La popolazione mista americana-asiatica ebbe un boom. Io diedi alla luce il mio terzo figlio sapendo che non avrebbe mai conosciuto suo padre. In quel periodo, cominciammo a sentir parlare dell’AIDS. I tizi americani si mettevano in fila per i preservativi prima di scendere dalle navi. Tuttavia, alcuni di loro si limitavano a soffiarci dentro e a gettarli in giro come palloncini. Noi non potevamo chiedere ad un cliente di usare un preservativo perché lui ci avrebbe risposto: “Io pago” e avrebbe ottenuto lo stesso quel che voleva.
Nel 1984 diventai amica di una donna statunitense, Brenda Proudfoot, che stava aiutando altre donne a sfuggire alla prostituzione ed al traffico a scopo sessuale. Mi invitò ad unirmi ad un gruppo di sostegno dove incontrai altre persone nella mia stessa situazione. Dopo diversi incontri, capii che quella era la mia opportunità di uscire dal mondo infernale della prostituzione. Nel 1987 co-fondai Buklod ng Kababaihan e andai a parlare alle donne nei bar delle nostre attività.
Il mio datore di lavoro cominciò a seccarsi delle mie assenze, ma io mi sentivo così potente che continuavo a parlare contro le ingiustizie anche al lavoro. Ora conoscevo i miei diritti come donna ed essere umano, e non intendevo più scendere a compromessi. Il mio datore di lavoro mi licenziò, chiamandomi comunista. Non potevo trovare un altro lavoro, perché lui tratteneva i miei documenti, però fortunatamente Buklod decise di assumermi come organizzatrice. Lo stipendio era basso ma afferrai l’occasione: ero così felice di essere libera dalla prostituzione.
Le idee che la società ha sul traffico di esseri umani e sulla prostituzione devono cambiare. Nel mio paese (Filippine, ndt.) la gente crede che le prostitute siano criminali e che i compratori siano vittime. Questo è sbagliato. Quando alle donne non sono date eguali opportunità di impiego e di istruzione le loro opzioni sono limitate e le donne stesse diventano sempre più disperate. Poiché le donne sono spesso viste come oggetti sessuali senza potere sono costantemente spinte nell’industria del sesso. A volte, anch’io ho creduto di esistere solo per il piacere degli uomini.
Le donne filippine sono sovente chiamate “piccole macchine scure per scopare” dai militari americani. Una volta ho chiesto ad un cliente: “Come mai le donne filippine vi piacciono così tanto?” “Perché sono a buon mercato.”, rispose lui, “Molto più economiche delle giapponesi. Inoltre, con le filippine puoi fare quello che vuoi. Qua le donne sorridono sempre. Fanno finta che gli piaccia.” Dobbiamo cambiare questa mentalità ed istruire le giovani sugli abusi dell’industria del sesso, dobbiamo far sapere loro che hanno altre scelte. Le donne sono esseri umani, non merci da comprare e vendere.
Mentre lascio il bar “videoke” non sono sicura che la giovane donna parteciperà al nostro prossimo incontro. Lei è una delle migliaia di prostitute filippine. L’industria del sesso è una macchina enorme e non è facile da fermare. Ma come sopravvissuta che parla ad altre sopravvissute, tento di comunicare la comprensione delle loro paure e della loro sofferenza. Tento di dire alle mie sorelle che Buklod vuole creare un futuro differente.
(Post scriptum della traduttrice: Negli anni ’80, la base navale “Subic Bay” nelle Filippine era la più grande fra quelle esterne agli Usa. I bordelli attorno ad essa viaggiavano su un fatturato collettivo stimato attorno ai 500 milioni di dollari. Donne e ragazze erano comprate e vendute dai trafficanti per rispondere alla domanda di prostituzione dei militari in servizio alla base.
Anche se “Subic Bay” è stata chiusa negli anni ’90, il luogo continua ad essere meta del turismo sessuale statunitense e migliaia di soldati americani di stanza nelle Filippine continuano a servirsi della struttura di sfruttamento prodotta dalla presenza della base, nonostante le leggi filippine contrarie. Attualmente, le donne coinvolte nell’industria del sesso filippina sono stimate fra le 300.000 e le 400.000, a cui si aggiungono circa 100.000 bambini e bambine.)