Milano, via Ferrante Aporti, Stazione Centrale.
29 gennaio 2004. Ci fanno entrare da un ingresso anonimo, grigio: lasciamo alla spalle la città, come sempre chiassosa, caotica, trafficata, piena di luci e di rumori e, salita una brevissima rampa, ci troviamo in un corridoio anonimo che sfocia in uno stanzone altrettanto anonimo e buio ad eccezione di due luci al neon sulla parete di fronte che non illuminano granché ma piuttosto rendono il luogo ancor più sinistro e tetro. Alle pareti drappi neri e nulla più. Nell’aria si percepisce un dolore, ormai antico, ma che sembra trasudare dalla calce grigia e sporca dei muri. Stiamo lì, in piedi, ad aspettare qualcosa che non sappiamo bene: anziani insieme a tanti giovani (cosa che ci riempie di speranza) e qualche bambino.
D’improvviso si alza un canto, una nenia per noi incomprensibile per via della lingua, ma triste, struggente. Poi Liliana Segre inizia a parlare.
30 gennaio 1944. Eravamo qui in seicentoquattro, uomini e donne, giovani e anziani, bambini. Stavamo in piedi in quest’antro buio e freddo ad aspettare qualcosa che non sapevamo bene e il senso dell’ignoto, quel non sapere nulla del proprio futuro, del proprio destino rendeva il tutto ancor più angosciante. Si sentivano grida, ordini lanciati da voci, roche e gutturali ma voci italiane, di gente come noi, della nostra stessa nazione, della nostra stessa città. Italiani in divisa che mandavano a morte altri italiani, colpevoli solo di essere ebrei, di avere un’altra religione. Quando tedeschi e repubblichini sono venuti a prelevarci dalle nostre celle del carcere di San Vittore, i detenuti comuni che incontravamo lungo le grandi e ampie scalinate di quella galera, tutti, ma proprio tutti, hanno voluto darci qualcosa del poco, del nulla che anch’essi avevano: chi una mela, chi un biscotto, chi un pezzo di pane,chi solamente una parola di affetto, d’incoraggiamento, chi una carezza, uno sguardo. Sono stati gli ultimi Uomini, con la U maiuscola, che ho visto per un anno e mezzo: da quel momento in poi, ho incontrato solo mostri. Ci hanno caricato a spintoni e a calci sui vagoni bestiame che stavano proprio qui, dove ora ci troviamo: quando il carico era completo, il vagone veniva piombato e, grazie ad un elevatore che ancora oggi esiste, veniva innalzato sopra, ai binari.
A convoglio completato, il treno si mosse. Da uno spiraglio scorgevo correre via velocemente pezzetti della mia città, la città in cui ero nata e avevo vissuto i tredici anni della mia ancora piccola vita, la mia città che amavo tanto, la mia città indifferente e distratta.
Di quei seicentoquattro, da Auschwitz siamo tornati in venti.
Altre cose ci racconta poi Liliana Segre, sopravvissuta allo sterminio, che oggi ha settantatre anni portati con dignità e fermezza. Racconta di ciò che ha visto, che ha subito, delle menzogne che non può tollerare, dei compagni di viaggio rimasti là, morti dimenticati in terra tedesca.
Mentre parla, mi pare di sentirle quelle grida, di vederli quei corpi caricati a viva forza, di sentire la chiusura delle porte dei vagoni, il cigolio dell’elevatore, il fischio della locomotiva, quel fischio che nella mia infanzia (oltretutto figlio di ferroviere in quella stessa stazione!) mi dava allegria, mi faceva sognare viaggi e mondi meravigliosi...come cambia, a volte, il sentimento trasmesso da uno stesso, identico suono.
Usciti nuovamente all’aperto, la città non ci sembra più la stessa. Io e mia moglie ci teniamo la mano, come ragazzini un po’ spauriti, senza dirci nulla, incapaci di commentare se non attraverso la stretta delle nostre mani, il calore dei nostri cuori. Poi, la metropolitana ci inghiotte e ci riporta a casa...è bello avercela una casa, tutto un mondo fatto di affetti e di certezze, è bello avere un futuro.
Un futuro da sognare, da progettare, da costruire, da difendere.
29 gennaio 2004. Ci fanno entrare da un ingresso anonimo, grigio: lasciamo alla spalle la città, come sempre chiassosa, caotica, trafficata, piena di luci e di rumori e, salita una brevissima rampa, ci troviamo in un corridoio anonimo che sfocia in uno stanzone altrettanto anonimo e buio ad eccezione di due luci al neon sulla parete di fronte che non illuminano granché ma piuttosto rendono il luogo ancor più sinistro e tetro. Alle pareti drappi neri e nulla più. Nell’aria si percepisce un dolore, ormai antico, ma che sembra trasudare dalla calce grigia e sporca dei muri. Stiamo lì, in piedi, ad aspettare qualcosa che non sappiamo bene: anziani insieme a tanti giovani (cosa che ci riempie di speranza) e qualche bambino.
D’improvviso si alza un canto, una nenia per noi incomprensibile per via della lingua, ma triste, struggente. Poi Liliana Segre inizia a parlare.
30 gennaio 1944. Eravamo qui in seicentoquattro, uomini e donne, giovani e anziani, bambini. Stavamo in piedi in quest’antro buio e freddo ad aspettare qualcosa che non sapevamo bene e il senso dell’ignoto, quel non sapere nulla del proprio futuro, del proprio destino rendeva il tutto ancor più angosciante. Si sentivano grida, ordini lanciati da voci, roche e gutturali ma voci italiane, di gente come noi, della nostra stessa nazione, della nostra stessa città. Italiani in divisa che mandavano a morte altri italiani, colpevoli solo di essere ebrei, di avere un’altra religione. Quando tedeschi e repubblichini sono venuti a prelevarci dalle nostre celle del carcere di San Vittore, i detenuti comuni che incontravamo lungo le grandi e ampie scalinate di quella galera, tutti, ma proprio tutti, hanno voluto darci qualcosa del poco, del nulla che anch’essi avevano: chi una mela, chi un biscotto, chi un pezzo di pane,chi solamente una parola di affetto, d’incoraggiamento, chi una carezza, uno sguardo. Sono stati gli ultimi Uomini, con la U maiuscola, che ho visto per un anno e mezzo: da quel momento in poi, ho incontrato solo mostri. Ci hanno caricato a spintoni e a calci sui vagoni bestiame che stavano proprio qui, dove ora ci troviamo: quando il carico era completo, il vagone veniva piombato e, grazie ad un elevatore che ancora oggi esiste, veniva innalzato sopra, ai binari.
A convoglio completato, il treno si mosse. Da uno spiraglio scorgevo correre via velocemente pezzetti della mia città, la città in cui ero nata e avevo vissuto i tredici anni della mia ancora piccola vita, la mia città che amavo tanto, la mia città indifferente e distratta.
Di quei seicentoquattro, da Auschwitz siamo tornati in venti.
Altre cose ci racconta poi Liliana Segre, sopravvissuta allo sterminio, che oggi ha settantatre anni portati con dignità e fermezza. Racconta di ciò che ha visto, che ha subito, delle menzogne che non può tollerare, dei compagni di viaggio rimasti là, morti dimenticati in terra tedesca.
Mentre parla, mi pare di sentirle quelle grida, di vederli quei corpi caricati a viva forza, di sentire la chiusura delle porte dei vagoni, il cigolio dell’elevatore, il fischio della locomotiva, quel fischio che nella mia infanzia (oltretutto figlio di ferroviere in quella stessa stazione!) mi dava allegria, mi faceva sognare viaggi e mondi meravigliosi...come cambia, a volte, il sentimento trasmesso da uno stesso, identico suono.
Usciti nuovamente all’aperto, la città non ci sembra più la stessa. Io e mia moglie ci teniamo la mano, come ragazzini un po’ spauriti, senza dirci nulla, incapaci di commentare se non attraverso la stretta delle nostre mani, il calore dei nostri cuori. Poi, la metropolitana ci inghiotte e ci riporta a casa...è bello avercela una casa, tutto un mondo fatto di affetti e di certezze, è bello avere un futuro.
Un futuro da sognare, da progettare, da costruire, da difendere.