Con l’aumentare del coinvolgimento dei giovani americani nelle battaglie per i diritti,
woke è diventata un’espressione riferita spesso a persone che sono considerate “alleate” delle minoranze
ma che appartengono a categorie identitarie ritenute in una posizione di maggiore potere.
Per esempio perché bianche, di sesso maschile, eterosessuali, cisgender
(cioè che si riconoscono nel genere associato al sesso di nascita) o ricche,
tutte caratteristiche che nell’ambito dei discorsi su questi temi vengono associate spesso al concetto di “privilegio”,
inteso come vantaggio nella società contemporanea occidentale.
Più recentemente, però, woke è diventata sempre meno una parola rivendicata dalle persone che teoricamente dovrebbe descrivere,
e sempre più usata invece dai loro critici per indicare quella che considerano una pericolosa tendenza della sinistra,
dei progressisti e più in generale dei Democratici.
Con woke si intende solitamente quello che si identifica come un atteggiamento di dogmatismo intollerante e censorio,
applicato nei confronti delle parole e delle idee che vanno contro le più moderne sensibilità sulle questioni delle minoranze e dei diritti civili.
Woke quindi è diventato un termine perlopiù negativo,
usato con l’intento di ridicolizzare e attaccare i movimenti giovanili progressisti,
associandoli alle loro espressioni più intransigenti e aggressive, presenti principalmente sui social network.
Per esempio le campagne portate avanti in diversi campus universitari americani
per allontanare professori accusati – spesso pretestuosamente o ingiustamente – di aver usato parole offensive,
oppure quelle che chiedono il licenziamento di personaggi pubblici di vario tipo
per via di dichiarazioni considerate controverse,
o che mobilitano grandi e bellicose masse di account contro qualcuno che abbia detto una cosa considerata disdicevole rispetto alle suddette sensibilità.
Queste dinamiche, che sono oggetto di riflessioni e studi anche preoccupati, soprattutto in ambito accademico,
fanno più precisamente riferimento al fenomeno della “
cancel culture”,
e sono legate alle modalità con cui le piattaforme dei social network
hanno reso il confronto tra idee diverse spesso violento, intollerante e polarizzato.
Su questi aspetti è in corso un
vivace dibattito anche tra progressisti e persone di sinistra
sui problemi che derivano da questo tipo di approccio al confronto politico e alla ricerca accademica.
Anche tra opinionisti liberal, la parola
woke viene talvolta usata per riferirsi genericamente
a questo atteggiamento ritenuto in contrasto con i valori di tolleranza e dialogo a cui si ispira storicamente la sinistra.
Ma insieme all’intenzione offensiva, negli Stati Uniti i principali utilizzatori del termine woke
oggi se ne servono anche spesso come strumento di propaganda e polemica,
evocando con un termine efficace un pericolo disegnato come universale e prevalente,
“un’ideologia” estremista che governerebbe il pensiero progressista.
È una minaccia che sfrutta la particolare e minacciosa visibilità degli atteggiamenti e dei toni aggressivi e perentori
usati nelle polemiche virali sui social network, e ha permesso in più occasioni di mobilitare il complesso di persecuzione
e la reazione di parte dell’elettorato conservatore
(una pratica di comunicazione simile è quella, familiare anche in Italia, attivata dai predicatori contro “
la teoria gender”).
Nel suo editoriale tradotto da
Repubblica, Stephens usa la parola
woke in senso evidentemente dispregiativo.
Nel suo editoriale, dice in sostanza che quella che chiama “ideologia
woke”
non avrà successo in quanto movimento che «distrugge, divide gli americani, rifiuta e sostituisce i valori fondanti della nostra nazione»,
e che agisce «in modo prescrittivo, non per un vero dibattito o una vera riforma ma per indottrinamento e sradicamento».
Stephens se la prende in particolare con la “critical race theory”,
una teoria accademica che interpreta la storia,
la cultura e le strutture politiche statunitense
indagandone il ruolo nel razzismo sistemico della società.
Da tema di nicchia, recentemente la “critical race theory”
è diventata effettivamente un punto importante della campagna elettorale per il governatore dello stato della Virginia.
Quando non aveva ancora una connotazione così politicizzata,
anche l’ex presidente degli Stati Uniti Barack Obama
aveva criticato alcuni aspetti dell’atteggiamento di chi «si sente sempre politicamente
woke»,
e ha «quest’idea di purezza, che non si debba mai scendere a compromessi».
Aveva invitato i giovani a superare questo approccio:
«Il mondo è incasinato, ci sono ambiguità, le persone che fanno cose molto buone hanno dei difetti, le persone contro cui combattete possono amare i loro figli e avere cose in comune con voi. Penso che un pericolo che vedo nei giovani e in particolare nei campus, accelerato dai social media, è l’idea che il cambiamento passi attraverso l’essere il più giudicante possibile verso le altre persone, e che questo basti.
Se twitto o uso un hashtag su come hai fatto qualcosa di sbagliato, o hai usato la parola sbagliata, allora posso sedermi e sentirmi molto bene con me stesso perché avete visto quanto sono woke? Ti ho sgridato. Non è attivismo. (…) Se tutto quello che fai è lanciare pietre, probabilmente non vai molto lontano. È facile fare così."