Questo articolo è datato 2013.
Qualche settimana fa, l’Epresso titolava il copertina
“Qui non comanda più nessuno”
e l’articolo correlato partiva dalla constatazione del declino di tutti quei soggetti che per decenni hanno retto il potere in Italia
(Vaticano, partiti, Sindacati, Confindustria, la grande finanza, le imprese multinazionali con targa tricolore, la massoneria…).
Soggetti che ancora esistono, ma assai rimpiccioliti ed in via di ulteriore ridimensionamento.
Donde la diagnosi di alcuni intervistati riflessi nel titolo di copertina:
il potere in questo paese si sta polverizzando, siamo all’entropia di sistema.
In parte, ma si trascura che parallelamente al declino dei poteri tradizionali ed autoctoni
ne stanno subentrando di nuovi e di esterni:
se Unicredit ed Intesa declinano, oggi un ruolo di punta lo sta rivestendo la Cassa Depositi e Prestiti,
se Governo e Parlamento si stanno riducendo ai minimi termini, c’è una ipertrofia della Presidenza della Repubblica,
se il potere politico declina, da venti anni,
quello giudiziario, la Banca d’Italia o la Consob occupano uno spazio maggiore.
Ma soprattutto pesano sempre più poteri esterni come la Bce, la Nato, le agenzie di rating, il governo tedesco ecce ecc.
Siamo di fronte ad un processo storico di vasta portata
che sta trasformando radicalmente il potere nel nostro paese,
rendendolo meno indipendente, meno capace di autodeterminazione.
In qualche modo è un effetto del processo di globalizzazione che mina il potere degli stati nazionali,
ma solo di quelli più deboli, come storicamente è il nostro
nel quale è endemica la tentazione a risolvere i problemi di casa chiamando in soccorso qualche straniero.
Già negli anni settanta, fu evidente il fallimento (se si preferisce: il successo solo parziale)
del tentativo di Cuccia di costruire attraverso il “salotto buono” di Medio banca un capitalismo “nazionale”.
Figurarsi oggi che le frontiere nazionali non esistono più, quantomeno in campo finanziario.
Molti soggetti “forti” si svincolano dal cortile di casa per guardare alle vaste praterie del mondo globalizzato:
la Fiat veleggia oltre oceano, le Assicurazioni Generali guardano all’Est europeo,
la Telecom (con il tacito consenso del governo) finisce in mani spagnole, prima di finire a chissà chi.
Questo è il secondo urto della globalizzazione:
il primo mandò in frantumi la prima Repubblica,
il secondo manda in pezzi la seconda Repubblica,
ma questa volta non sappiamo se ce ne sarà una terza e che caratteri avrà.
Questa “evaporazione” dei poteri nazionali registra il fallimento senza scusanti delle classi dirigenti italiane,
che si sono rivelata palesemente inferiori al loro compito.
Il cuore di questo è stato tutto politico:
alla classe politica della prima repubblica
se ne sostituì una nuova portata sugli scudi dalla (pur comprensibile) rivolta populista contro la corruzione
e che venne irresponsabilmente indirizzata dal Pds nel devastante referendum contro la proporzionale.
Da quello sciagurato evento presero il volo tanto il processo di de-costituzionalizzazione dell’ordinamento,
quanto l’affermazione di una classe politica nella stragrande maggioranza populista ed impreparata.
Berlusconi, Di Pietro ed il Pds
incarnarono forme diverse di populismo che,
in tutte le sue manifestazioni, non si sottrasse a quella straccioneria culturale e politica che è la sigla stilistica di ogni populismo.
Una classe politica sempre più becera ed impreparata si impossessò del potere gestendolo nel peggiore dei modi
e con un tasso di moralità pubblica anche inferiore a quello dei propri predecessori.
Tutto venne centrato sulle “caratteristiche del leader”,
sullo spirito di appartenenza che non aveva più il legante ideologico di prima,
ma solo lo spirito gregario e la tifoseria da stadio sostituì il dibattito politico.
Le posizioni istituzionali vennero occupate e gestire come armi da brandire contro il “nemico”:
il governo serviva a fare favori agli amici,
il Parlamento a fare leggi ad personam,
le nomine negli enti –more solito- servirono a collocare gli amici,
la Rai era preda del vincitore di turno.
Le privatizzazioni dovevano servire ad abbattere il debito statale,
servirono solo a fare qualche favore ad amici degli amici,
vennero svendute ed il debito, non solo non venne decurtato che in misura insignificante,
ma riprese a crescere allegramente.
L’adesione all’Euro venne fatta senza calcolarne le conseguenze.
Occasione persa dall’allegra gestione della finanza che vedeva gonfiare i costi della politica,
gli stipendi dei manager pubblici, le opere pubbliche sbagliate.
Della prima repubblica si era ereditato il malcostume,
ma s’era persa quella “professionalità politica” che, pure con i suoi difetti,
aveva assicurato un minimo di capacità strategica.
Oggi, come ammette uno degli intervistati dell’Espresso,
si fa fatica a trovare un parlamentare in grado di scrivere da solo un emendamento.
Dopo venti anni di un simile esercizio del potere politico
c’è da meravigliarsi del fatto che ci sia ancora qualcosa in piedi.
Ma la classe politica non è la sola che meriterebbe di sedere sul banco degli imputati di un tribunale popolare.
Anche il ceto manageriale (pubblico e privato senza distinzioni) non ha scherzato
ed i casi Alitalia e Telecom ne sono prova troppo eloquente perché se ne debba dire.
Delle responsabilità del ceto intellettuale ed accademico non dico neppure
perché non è elegante sparare addosso alla croce rossa,
ricordo solo che, quando ci fu l’esigenza di un “governo dei tecnici”
che mettesse insieme “la crema” dell’intellettualità del paese,
quello che venne fuori fu quell’Armata Brancaleone del governo Monti.
Ora la seconda ondata della globalizzazione, indotta dalla crisi, manda tutto in pezzi:
non ci sottrarremo al destino di decadenza e di servaggio
se prima non daremo luogo ad un processo alle classi dominanti nazionali.
Metaforicamente parlando, un processo severo al limite della ferocia.