Alan....grande mago....
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Lo stretto crinale
di Fabrizio Galimberti
Sembra un desco da refettorio, la gigantesca tavola di mogano e granito nero attorno a cui si raduna otto volte l'anno quel potente "Federal Open Market Committee" che tiene il timone della politica monetaria americana. E quell'omino a capotavola che ha ancora una volta presieduto ieri la riunione sembra ormai più un "conte zio" che il Mago Merlino dell'economia Usa.
«Sopire, troncare...» è la risposta di Alan Greenspan ai pericoli che si affollano sulla congiuntura degli Stati Uniti.
Quando Greenspan difendeva, prima del crack di Borsa del 2001-2002, le magnifiche sorti e progressive della New Economy, c'era molto di vero nelle sue pacate riflessioni. È vero che il mondo ha conosciuto e sta ancora vivendo una fantastica stagione di progresso tecnico, così come è vero che le implicazioni epocali della rivoluzione telematica schiudono aumenti di produttività che non hanno ancora finito di diffondersi per il sistema economico. Ma tutte le rivoluzioni hanno i loro eccessi, e sappiamo oggi, col senno di poi, che quella «esuberanza irrazionale» che Greenspan allo stesso tempo stigmatizzò e incoraggiò portò a una bolla che non si è ancora sgonfiata. E quando la recessione venne a incombere, invece di lasciare che il purgante spazzasse via le tossine accumulate, Greenspan approvò (per la parte fiscale) e mise in opera (per la parte monetaria) il più colossale "uno-due" di stimolo economico che il dopoguerra abbia mai visto. Fra il 2000 e oggi le famiglie hanno ricevuto un aiuto (mettendo assieme le imposte al netto di trasferimenti e gli interessi sul credito al consumo) pari a ben il 7% del Pil. Non c'è nulla di male a fare la carità, ma il problema si pone quando il beneficiario di tanta generosità spende e spande e si indebita: che è quello che è successo con le famiglie americane.
E il problema si complica ancora quando chi elargisce lo stimolo - il bilancio pubblico - dà via soldi che non ha e per tappare il deficit deve far ricorso agli stranieri: la coesistenza dei "disavanzi gemelli" - deficit pubblico e corrente - sta spingendo il debito estero americano a livelli che in qualsiasi altro Paese avrebbero già richiesto l'intervento del Fondo monetario.
La Fed oggi continua a stringere, ma quello che dovrebbe stupire non è l'ottavo aumento consecutivo del costo del danaro; è il fatto, appunto stupefacente, che dopo otto aumenti i tassi nominali sono ancora bassi e i tassi reali sono a zero. Il problema sta nel fatto che la Fed aveva prima spinto i tassi talmente in basso - all'1% - che alla bolla degli investimenti borsistici era subentrata una bolla degli investimenti immobiliari. Oggi, in un'economia sempre più indebitata è vitale che i tassi rimangano sub-normali perché il servizio del debito non diventi un cappio al collo.
A questi scompensi interni si aggiungono i rischi esterni legati a un disavanzo corrente pari al 6% del Pil. E anche qui il "conte zio", ben spalleggiato dal coro di altri membri del Fomc, cerca di sopire e troncare. Sì, il deficit è alto ma la globalizzazione permette di finanziarlo più agevolmente; e in ogni caso non è il deficit Usa che è elevato, sono i surplus del resto del mondo che sono troppo alti... Queste piacevolezze tautologiche non placano i mercati, dove sono evidenti nervosismi azionari, obbligazionari e valutari. E il resto dell'anno si conferma ormai come il luogo di una difficile transizione: l'economia americana cammina su un crinale molto stretto e chiede, a mercati poco inclini alla pazienza, il tempo per dipanare una matassa molto ingarbugliata.
4 maggio 2005