Val
Torniamo alla LIRA
Non è certo con l’attacco di questa notte in Siria che è iniziata la nuova Guerra Fredda tra Usa e Russia.
Ma i bombardamenti missilistici su Damasco effettuati a partire dalle tre ora italiana
dagli eserciti americano, inglese e francese, mirati finché si vuole,
rappresentano un nuovo picco nell’escalation di tensione tra Washington e Mosca.
E saranno gravidi di conseguenze, temiamo, di cui la popolazione siriana rischia di pagare il prezzo più alto.
Partiamo da loro, dai siriani.
L’attacco contro Bashar Assad arriva proprio nel momento in cui il leader siriano
ha conquistato definitivamente l’East Ghouta,
regione limitrofa a Damasco,
che fino a due giorni fa era una delle principali enclave dei cosiddetti ribelli di Jaysh al Islam,
organizzazione salafita finanziata e armata dall’Arabia Saudita:
“La riconquista di East Ghouta da parte delle forze del governo siriano significa
che il presidente Bashar al-Assad e ora più saldamente al potere
di quanto lo sia mai stato dall’inizio del conflitto, sette anni fa”
Al netto di ogni prova di utilizzo delle armi chimiche - che magari prima o poi avremo il piacere di vedere
è abbastanza auto-evidente che l’attacco di Usa, Gran Bretagna e Francia
ha anche lo scopo di rimettere in discussione una vittoria di Assad e del suo alleato Vladimir Putin,
l’unico che gli è stato a fianco sin dall’inizio, che ha messo i piedi in Siria per difenderlo
e che ha scommesso tutte le sue fiches su questo esito.
Non sappiamo quanto la vittoria di Assad possa tornare in discussione.
Sappiamo che non piace all’amministrazione americana,
che da sempre sostiene un regime change in Siria, spalleggiata dai suoi due storici alleati nell’area:
Israele, che con Assad ha da sempre un pessimo rapporto, a causa dello stretto legame
tra il governo siriano e le milizie di Hezbollah,
Arabia Saudita e Qatar, che vedono come fumo negli occhi la sopravvivenza
della cosiddetta mezzaluna sciita, che comprende Iran, Iraq e Sira,
mezzaluna che hanno cercato di sabotare in ogni modo, nel corso di questi sette anni,
arrivando a finanziare e armare pure il cosiddetto Stato Islamico.
E sappiamo pure che piace ancora meno a Gran Bretagna e Francia,
vecchie potenze coloniali dell’area - la celeberrima linea Skyes - Piquot,
origine di tutti i mali del Medio Oriente, o quasi, è opera loro,
che vorrebbero tornare a esercitare influenza su Damasco, al posto della Russia di Putin.
Ultimo pezzetto del puzzle: siccome pure l’economia reclama il suo posto a tavola,
sappiamo pure che recentemente il principe saudita Bin Salman,
dipinto come una specie di Gandhi di Riad dai media occidentali,
si è fatto un giro tra Washington e Londra offrendo a quest’ultima, soprattutto,
il collocamento del fondo sovrano saudita Aramco - la cassaforte in cui convergono tutti i proventi del petrolio -
nella City e 60 miliardi di dollari in scambi commerciali,
che a Downing Street fanno molto comodo, per pagare i costi della Brexit.
È una convergenza di interessi legittimi, nel cinico universo della geopolitica, sia chiaro.
Basta che sia chiaro quale sia lo scopo e quale sia la posta in gioco.
Nello specifico - parliamo delle poste in gioco - una recrudescenza del conflitto siriano,
dopo sette anni di devastazione e l’innalzamento della tensione tra Usa e Russia oltre ogni possibile livello di guardia,
nel bel mezzo della presidenza di Donald Trump, non esattamente l’uomo a cui affideremmo i destini dell’umanità.
Non abbiamo la sfera di cristallo per ipotizzare cosa ci sia dietro questa ennesima curva a gomito della storia mediorientale.
Il peggio che possiamo temere è che questo sia il preludio a una
campagna a medio termine degli eserciti occidentali che miri effettivamente
a rovesciare Assad o a costringerlo a una pace non vittoriosa.
E Damasco potrebbe davvero diventare la miccia di una guerra su scala molto più larga.
A Trump, May e Macron il compito di decidere se il gioco valga la candela.
I precedenti in Iraq e Libia non autorizzano all’ottimismo.
Incrociamo le dita.
Ma i bombardamenti missilistici su Damasco effettuati a partire dalle tre ora italiana
dagli eserciti americano, inglese e francese, mirati finché si vuole,
rappresentano un nuovo picco nell’escalation di tensione tra Washington e Mosca.
E saranno gravidi di conseguenze, temiamo, di cui la popolazione siriana rischia di pagare il prezzo più alto.
Partiamo da loro, dai siriani.
L’attacco contro Bashar Assad arriva proprio nel momento in cui il leader siriano
ha conquistato definitivamente l’East Ghouta,
regione limitrofa a Damasco,
che fino a due giorni fa era una delle principali enclave dei cosiddetti ribelli di Jaysh al Islam,
organizzazione salafita finanziata e armata dall’Arabia Saudita:
“La riconquista di East Ghouta da parte delle forze del governo siriano significa
che il presidente Bashar al-Assad e ora più saldamente al potere
di quanto lo sia mai stato dall’inizio del conflitto, sette anni fa”
Al netto di ogni prova di utilizzo delle armi chimiche - che magari prima o poi avremo il piacere di vedere
è abbastanza auto-evidente che l’attacco di Usa, Gran Bretagna e Francia
ha anche lo scopo di rimettere in discussione una vittoria di Assad e del suo alleato Vladimir Putin,
l’unico che gli è stato a fianco sin dall’inizio, che ha messo i piedi in Siria per difenderlo
e che ha scommesso tutte le sue fiches su questo esito.
Non sappiamo quanto la vittoria di Assad possa tornare in discussione.
Sappiamo che non piace all’amministrazione americana,
che da sempre sostiene un regime change in Siria, spalleggiata dai suoi due storici alleati nell’area:
Israele, che con Assad ha da sempre un pessimo rapporto, a causa dello stretto legame
tra il governo siriano e le milizie di Hezbollah,
Arabia Saudita e Qatar, che vedono come fumo negli occhi la sopravvivenza
della cosiddetta mezzaluna sciita, che comprende Iran, Iraq e Sira,
mezzaluna che hanno cercato di sabotare in ogni modo, nel corso di questi sette anni,
arrivando a finanziare e armare pure il cosiddetto Stato Islamico.
E sappiamo pure che piace ancora meno a Gran Bretagna e Francia,
vecchie potenze coloniali dell’area - la celeberrima linea Skyes - Piquot,
origine di tutti i mali del Medio Oriente, o quasi, è opera loro,
che vorrebbero tornare a esercitare influenza su Damasco, al posto della Russia di Putin.
Ultimo pezzetto del puzzle: siccome pure l’economia reclama il suo posto a tavola,
sappiamo pure che recentemente il principe saudita Bin Salman,
dipinto come una specie di Gandhi di Riad dai media occidentali,
si è fatto un giro tra Washington e Londra offrendo a quest’ultima, soprattutto,
il collocamento del fondo sovrano saudita Aramco - la cassaforte in cui convergono tutti i proventi del petrolio -
nella City e 60 miliardi di dollari in scambi commerciali,
che a Downing Street fanno molto comodo, per pagare i costi della Brexit.
È una convergenza di interessi legittimi, nel cinico universo della geopolitica, sia chiaro.
Basta che sia chiaro quale sia lo scopo e quale sia la posta in gioco.
Nello specifico - parliamo delle poste in gioco - una recrudescenza del conflitto siriano,
dopo sette anni di devastazione e l’innalzamento della tensione tra Usa e Russia oltre ogni possibile livello di guardia,
nel bel mezzo della presidenza di Donald Trump, non esattamente l’uomo a cui affideremmo i destini dell’umanità.
Non abbiamo la sfera di cristallo per ipotizzare cosa ci sia dietro questa ennesima curva a gomito della storia mediorientale.
Il peggio che possiamo temere è che questo sia il preludio a una
campagna a medio termine degli eserciti occidentali che miri effettivamente
a rovesciare Assad o a costringerlo a una pace non vittoriosa.
E Damasco potrebbe davvero diventare la miccia di una guerra su scala molto più larga.
A Trump, May e Macron il compito di decidere se il gioco valga la candela.
I precedenti in Iraq e Libia non autorizzano all’ottimismo.
Incrociamo le dita.