Salari da fame, Gallino: attenti, la Germania può esplodere
Scritto il 08/11/12 • nella Categoria:
segnalazioni
«La nostra situazione è più simile a quella della Spagna che a qualunque altro paese europeo», anche se quello più a rischio – nonostante l’apparenza – è la Germania. Nella terra di Angela Merkel, gli indici di disuguaglianza sono addirittura «astronomici».
Per Luciano Gallino, proprio la Germania è «un paese sull’orlo dell’esplosione sociale»,
perché a 5 milioni di persone sono corrisposti 500 euro al mese per 15 ore di lavoro la settimana, e il 22% dei lavoratori dipendenti, soprattutto operai, ricevono meno della metà del salario mediano. E’ il frutto della drammatica contrazione dei salari, decisa dal capitalismo in
crisi che colpisce il lavoro
per trasferire i profitti ai manager. Oppure, l’impresa compra azioni proprie per far salire il valore di mercato, perché su questo si misura l’operato del manager.
«Il risultato è la crescita delle disuguaglianze», denuncia Gallino: «I salari italiani sono fermi dal ‘95, negli
Usa fermi addirittura dal 1975 e si stima anzi siano leggermente regrediti».
Il fenomeno riguarda l’80, 90% della popolazione, mentre si è enormemente arricchito il famoso 1%.
Perché la
finanza ha preso tutto questo potere? «Perché non ha avuto opposizione», spiega Gallino a Pietro Raitano di “Altreconomia”, in un’intervista ripresa da “
Micromega”.
Nessuna opposizione dai partiti, «che a partire dagli anni ‘80 si sono adoperati per la finanziarizzazione, la liberalizzazione di movimenti di capitale, la produzione a valanga dei titoli come i derivati strutturati».
Se i partiti di centrodestra hanno spinto sul neoliberismo, l’ispirazione principale – ammette Gallino con un certo imbarazzo – è venuta proprio dal centrosinistra europeo: il tedesco Schroeder e i francesi Mitterrand, Delors e Camdessus.
«Le dottrine neoliberali, diffuse e propagandate a suon di dollari investiti in decine di “pensatoi” e centri studi, hanno avuto un successo straordinario anche tra uomini politici, intellettuali e accademici.
Poi c’è stata la caduta del Muro, e molte sinistre hanno fatto il possibile per mostrare di essersi allontanate dalle ideologie che vedevano nello Stato un soggetto di peso».
Soprattutto in Francia, aggiunge Gallino, si cominciò a dire che i capitali “fuggivano”, col risultato di liberalizzarne i movimenti.
«Questi fattori hanno fatto sì che la
finanza non abbia avuto la minima opposizione».
Di qui le famigerate “direttive” di Bruxelles: così, «l’Unione Europea è diventata più liberale degli
Usa».
E, fatto «straordinario», le banche oggi «hanno convinto i governi che andavano salvate per la seconda volta». In meno di tre anni, ricorda Gallino, il debito pubblico europeo è aumentato del 20%.
«A partire dal 2008 si sono dissanguati i bilanci pubblici per salvare le banche: i tedeschi si sono trovati con miliardi di debiti». Esempio, l’istituto Hypo Re è costato ai tedeschi 142 miliardi di euro: «Troppo grande per fallire, avrebbe trascinato con sé milioni di piccoli risparmiatori».
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Dal 2010, aggiunge il sociologo torinese, «la
crisi delle banche è stata travestita da
crisi del
debito pubblico: e quando i bilanci pubblici sono esangui e non ce la fanno più, scattano i
tagli».
Se i “derivati” sono ormai riconosciuti come “arma finanziaria di distruzione di massa”, sinora non si è fatto nulla per neutralizzarli: «La
crisi ora è vagamente sotterrata ma potrebbe riservarci amare sorprese.
In America nel 2010 è stata introdotta la “Wall Street Reform”, ma è talmente complicata che richiede 500 decreti attuativi, che a oggi sono solo una trentina. La legge è farraginosa, e le lobby fanno la loro parte per svuotarla». In compenso, è invece molto efficace – e con effetti devastanti – la sistematica penalizzazione del lavoro:
in Italia l’emergenza riguarda 7-8 milioni di cittadini senza stipendio, o con paghe da fame. Per il 2012 è previsto un miliardo di ore di cassa integrazione, pari a mille ore in media per un milione di persone. «Vuol dire ricevere meno di 750 euro netti al mese, per chi ne prendeva 1.200».
Disoccupati dichiarati e lavoratori scoraggiati, stanchi di cercare inutilmente un impiego. Milioni i precari, specie giovani, stufi di vagare tra contrattini in scadenza. «La disoccupazione è peggio di non avere reddito, o averlo senza essere occupati», dice Gallino. «È una ferita profonda del proprio senso di autostima».
Lo sapevano gli strateghi di Roosevelt, gli architetti del New Deal che pose fine alla Grande Depressione: meglio far lavorare tutti, grazie all’investimento dello Stato, perché la disoccupazione è la peggiore delle minacce, oltre che un crimine contro l’umanità.
Ma perché il lavoro è così colpito dalla
finanza? «Sin dagli anni ‘80 e ‘90, con lo sviluppo tecnologico, i mercati di consumo hanno cominciato a essere saturi, poiché l’industria aveva capacità produttiva in eccesso». Eccesso di capacità produttiva, spiega Gallino, significa che il capitale investito rende poco. Industriali, investitori istituzionali e fondi pensione chiedono rendimenti molto più alti. «Coi bassi profitti che non si possono far salire perché si produce troppo e si vende poco, i dirigenti, per dare retta agli investitori, hanno puntato a comprimere il costo del lavoro».
Ed ecco quindi il disastro sociale:
flessibilità, precarietà e compressione dei diritti. Un quadro aggravato, nell’Eurozona, dall’impotenza degli Stati, coi bilanci ormai controllati da Bruxelles. Eppure, «l’unica cosa che crea valore reale è il lavoro», mentre «la disoccupazione è il più grande scandalo che la società possa conoscere». Il colpevole? La
finanza: «La finanziarizzazione dell’
economia ha stravolto i criteri delle imprese». Salari bassi, emarginazione dei sindacati. Vale per tutta l’Eurozona, a cominciare dalla Germania, «dove milioni di lavoratori hanno pagato questa situazione». Ma la Germania si salva grazie a una ventina di grandi aziende tuttora trainanti e al forte tasso di investimento in ricerca e sviluppo: «Sui 27 paesi dell’Unione Europea, l’Italia è al quindicesimo posto, dietro all’Estonia, con un tasso di investimento dell’1,25% del Pil». Il tasso tedesco è più del doppio, quasi il triplo. «Anche l’Inghilterra, che di per sé ha un prodotto interno lordo molto legato alla
finanza, investe molto di più in ricerca». Altro dato, la carenza di investimenti in capitale fisso: «Gli stabilimenti italiani sono irrimediabilmente invecchiati, con un’età media di 25 anni. In
Europa la media è la metà».
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